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La lotteria di Shirley Jackson è una delle short-story più celebri della letteratura americana. Pubblicato per la prima volta sul New Yorker nel giugno del 1948, il racconto scatenò un putiferio mastodontico e i lettori, sconvolti e scandalizzati, subissarono la rivista di lettere più o meno indignate. Perché? In estrema sintesi, La lotteria condensa in una manciata di pagine serratissime sia la crudeltà cieca del destino che l’emersione repentina, all’interno di un contesto di apparente civiltà, degli istinti umani più brutali.
Questa lotteria annuale – che si tiene in disciplinatissimo ordine in una piccola e decorosa comunità in cui tutti si conoscono – è un’esperienza catartica collettiva, un rito di passaggio che convoglia il male quotidiano su un unico bersaglio. Non si capisce bene che cosa faccia più paura, in fin dei conti. L’approccio estremamente pratico e funzionale alla faccenda? L’esito agghiacciante del sorteggio? I bambini che ammucchiano allegramente i sassi? L’ordinato svolgersi degli eventi?
La lotteria ha visto una nutrita schiera di trasposizioni. L’ultima versione è una graphic novel firmata da Miles Hyman – nipote di Shirley Jackson e artista eccelso – uscita per Adelphi nella traduzione di Franco Salvatorelli. La sua narrazione per immagini ci mostra i silenzi e tutto quello che si nasconde negli spazi bianchi del testo e fa, se è possibile, ancora più spavento. Un racconto magistrale e splendido… in tutte le versioni.

Non so se riuscirò mai a ricordarmi nell’ordine giusto le creature che popolano il titolo di questo illustrato tenererrimo di CharlieMackesy – uscito per Salani con la traduzione di Giuseppe Iacobaci –, ma quello che posso affermare per certo è che a esplorare il mondo ci sono un bambino che un po’ teme la solitudine, una talpa fiduciosa e tondeggiante che può contenere quantità industriali di torta, una volpe di poche parole che impara pian piano a mettere da parte le sue diffidenze e un cavallo saggio che si finge meno magico di quello che è. Vanno a zonzo insieme, si palleggiano con semplicità e grazia grandi dubbi esistenziali, chiedono aiuto quando ce n’è bisogno e, soprattutto, ci raccontano l’amicizia con un candore che squaglia il cuore e lascia aperto uno spiraglio di speranza, nonostante si stenti spesso ad accogliere le proprie fatiche e a concedere agli altri un po’ di fiducia. Anche i grandi hanno bisogno di sentirsi dire che andrà tutto bene? Secondo me sì. E pure piuttosto di frequente. È un libro? Di sicuro. Ma è anche un fuocherello capace di confortare – a ogni età. 

Visto che Zerocalcare non lavora abbastanza – e ci tiene tantissimo ad alimentare questa sua devastante fama di lazzarone, lavativo,  fannullone e perdigiorno – ha deciso di curare una nuova collana per BAO Publishing. Cherry Bomb, si chiama così, è e sarà destinata a contenere quello che all’ottimo Zerocalcare è particolarmente garbato negli anni e che gli pare degnissimo anche della nostra attenzione. Un “vorrei che si pubblicasse anche qui da noi quello che mi è piaciuto leggere e che in italiano non è ancora uscito”, insomma, tanto per riassumere l’intento progettuale con un virgolettato inventato a cui è suo malgrado molto abituato. Anzi… dovevo fare così: “Io, curatore di collana pubblico quello che mi pare”. Si vede che non so titolare come un quotidiano nazionale, lì dentro c’è ancora troppo buonsenso.

Comunque, The Grocery del duo Ducoudray-Singelin – tradotto da Francesco Savino – è il primo titolo di Cherry Bomb e può senza dubbio configurarsi come un poderoso battesimo, sia per “mole” del volume che per ricchezza e densità dei temi, che trascinano fino a conseguenze devastanti e paradossali molte derive già fin troppo visibili nella contemporaneità. È una storia corale e una parabola collettiva di perdita progressiva dell’innocenza, ambientata in una Baltimora fatta di zone, gruppi sociali distinti e “subculture” criminali in conflitto accesissimo tra loro. La drogheria del titolo è il negozio di Milton Friedman, che si è trasferito da poco nel quartiere con Elliott, suo figlio. Entrambi sono – e in parte restano – dei frescoloni, nonostante il contesto in cui gradirebbero inserirsi sia ben lontano dalla sbilenca forma di candore che li caratterizza. Elliott fa amicizia con Sixteen e con la piccola banda di spacciatori che staziona all’angolo della strada. Tutti quanti cercano di sbarcare il lunario in un ambiente ostile e insidioso, senza pestare i piedi alla gente sbagliata e tenendosi alla larga da guai troppo grandi. Quando Ellis One viene scarcerato – visto che la sedia elettrica con lui non ha funzionato, a quanto pare – gli equilibri di potere del mondo criminale sono destinati a rovesciarsi e si entra in una nuova fase di truculento conflitto. Eliott e i suoi amici se la caveranno? Quali alleanze sarà conveniente coltivare? Avranno mai la possibilità di scegliere un cammino diverso?

L’universo di The Grocery è una galassia di storie che si intrecciano e ingarbugliano gradualmente per restituirci l’immagine complessiva di una deriva. Ci sono i marine che tornano dalla Guerra del Golfo e si trovano le case ipotecate e i risparmi prosciugati dalla bolla speculativa dei subprime, ci sono i ricchi dei quartieri “bene” che pretendono la costruzione di un muro che li separi dalle zone degradate, c’è la consapevolezza pervasiva che finire ammazzati per strada a colpi d’arma da fuoco sia un’eventualità costante e normalissima. C’è la droga che fa girare intere economie alternative quando non esiste un vero accesso a possibilità d’impiego “normali”, ci sono le gang che si impadroniscono delle funzioni regolatorie di un ordinamento pubblico inesistente e corrotto, ci sono famiglie che vivono per strada dopo aver perso i loro alloggi e che cercano di creare reti di mutuo soccorso senza alcuna speranza di riscatto, perché tutte le risorse sembrano essere già state allocate e di certo non sono alla loro portata. Ci sono Fratellanze Ariane, vendette da giurare, svastiche tatuate e spedizioni punitive. C’è un fondamentale rifiuto dell’umanità e della dignità altrui e ci si rende conto molto presto che, quando si lotta per sopravvivere, anche quelli che riteniamo altissimi valori degni d’impegno e abnegazione possono andare presto a farsi benedire e, soprattutto, quei valori non basteranno a garantire la salvezza o a far trionfare la giustizia – troppe sono le distorsioni, troppa è l’ingiustizia, troppo forte è il potere della prevaricazione.

Che aspetto ha The Grocery? Senza dubbio ricchissimo, sicuramente matto. Gli ambienti sono resi con una minuzia e un’abbondanza di dettagli notevole, ma i personaggi sono dei pupazzi zoomorfi – chi più chi meno – con testoni e fattezze tondeggianti. Che delle creature che visivamente richiamano più i canoni della carineria cucciolesca che dell’ultraviolenza finiscano per farsi vicendevolmente quello che si che fanno è un’ulteriore dissonanza che aggiunge un livello di lettura affascinante alla storia.

Insomma, hai pescato una cosa bella e che fa pensare, Michele. Grazie. Però un pisolo prova a farlo, ogni tanto.

Farò come per JFK, ma senza epiloghi cruenti. Giacomo Keison Bevilacqua: GKB.
Sono una lettrice “tardiva” di GKB. Mi son persa le prime incursioni del suo celeberrimo panda, ma sono arrivata in tempo per Troppo facile amarti in vacanza e non volevo perdermi questo suo nuovo lavoro, che è tante cose diverse insieme. Come parecchie storie che si rivelano preziose, il punto di partenza è un momento di crisi. Il garbuglio da districare è fatto di ritmi lavorativi che confliggono con quelli “personali”, di bimbi che nascono e che rivoluzionano il modo che abbiamo di intendere il tempo e il nostro posto nel mondo, di dolori articolari che non passano mai e di incapacità di restare coi piedi piantati nel presente.

Sono una testa di panda – in libreria per BAO Publishing (ed equipaggiato pure con una ghiotta incursione di Zerocalcare) – è una riflessione che vortica attorno a un percorso artistico lungo, fortunato e poco riposante e alla necessità di costruirsi una corazza per soddisfare aspettative pubbliche ed esternare un livello “adeguato” di gratitudine. Misurare se per gli altri i nostri sforzi saranno mai sufficienti è complicato, quando siamo noi in prima battuta a pretendere sempre qualcosa in più da quello che creiamo, dai ritmi che ci imponiamo, dall’originalità delle nostre idee, dalla qualità delle relazioni che teniamo in piedi.
Chi c’è dietro la maschera – che nel caso di GKB è il testone di un panda, ma ognuno poi finisce per scegliersi la corazza più adatta? Cosa succede quando ci si affeziona troppo alla propria corazza? Quand’è che si supera il confine e le barriere protettive diventano prigioni che ci isolano nelle nostre teste? Come è possibile che anche il lavoro che amiamo finisca per trasformarsi in una trappola?

Quello di GKB è un percorso di auto-ascolto, mi vien da dire, fatto di interventi “corporei” e ansie raccontate. L’obiettivo è riconquistare gli spazi vuoti per lasciarli effettivamente vuoti, è un lavoro di attribuzione di significati nuovi – e mi sa anche più sani – all’inefficienza. Non è tempo che perdiamo, è tempo che serve per riossigenarci. È concedersi il grande lusso di pensare che c’è qualche no che va detto, perché non abbiamo più pezzi di noi da dare agli altri e le batterie vanno ricaricate per ritrovare slancio. È camminare fino all’acqua, guardare una manina che accarezza una poltrona soffice, rammentare che non ci è stato regalato molto e che costruirsi una strada ha richiesto fatica e dedizione.
Essere “abbastanza” è possibile, ma se ce lo concediamo, se arriva un bel DIAMOCI UNA CALMATA che spezza la ruota su cui corriamo perché star fermi ci spaventa – o ci pare di saper fare solo quello. Ma è anche riconoscere che stiamo camminando su quella ruota e che man mano che avanziamo impariamo a districarci meglio e a superare gli ostacoli. Cosa succederà a GKB ve lo lascio scoprire leggendo, cosa succederà a voi pure. C’è molto che può parlarci in questo fumetto, anche se il nostro lavoro non è scrivere e disegnare e anche se magari non abbiamo nessuno – a parte noi – da crescere. E dici poco? È quello il lavoro vero di una vita intera.

Vi risparmio l’elenco lunghissimo degli importanti riconoscimenti conquistati da Kate Beaton per questo lavoro, ma tenete presente che ci sono – Eisner Award compreso – e che sono meritati. Ducks è un libro che potrebbe alimentare una tale quantità di discussioni “calde” da farci scoppiare la testa, anche perché l’epoca che racconta è al contempo vicina (cronologicamente) ma lontanissima per sensibilità e istanze maneggiate dall’opinione pubblica. Credo sia questa specifica collocazione “di confine” a farne un libro così emblematico: i nodi sono venuti al pettine oggi (o in un passato relativamente molto recente), ma il garbuglio c’era già… o c’è sempre stato, anche se non conveniva alzare la mano per segnalarlo.

Si sta discutendo spesso di autofiction, di preponderanza dell’autobiografia sulla narrativa d’invenzione, di presunzioni d’universalità anche quando si racconta delle proprie unghie incarnite, di che valore possano avere le minuzie individuali – vendute e ben confezionate come grandi rivelazioni – nel panorama del pensiero umano. Ecco, Beaton ha saputo riconoscere la rilevanza di un’esperienza personale e ce l’ha restituita in Ducks – in libreria per BAO con la traduzione di Michele Foschini –, compiendo quella famosa prodezza del “tu che adesso hai una voce… usala per portare a galla questa roba che si è trasformata su mille piani diversi in un bel problema collettivo!”.
E quale mai sarà quest’esperienza così stratificata e significativa? Pare una faccenda circoscritta e MOLTO “site-specific” ma non è solo questo. Beaton arriva da un’isola del Canada atlantico. Nel 2005, a 21 anni, si è laureata in arte e ha deciso di partire per l’Alberta per trovare un lavoro abbastanza redditizio da permetterle di estinguere il suo gravoso debito studentesco. Ha passato due anni a lavorare nelle attrezzerie – e successivamente negli uffici “sul campo” – delle grandi compagnie estrattive dell’area di Fort McMurray, terra promessa delle sabbie bituminose.

Perché dovremmo mai leggere la storia di una ragazzina che fa i bagagli e parte da sola per lavorare in un luogo assurdo, lontanissimo da casa e potenzialmente letale?
Perché l’esistenza stessa di una struttura lavorativa simile si innesta su un profondo disagio socio-economico, fatto di posti che si spopolano e di generazioni giovani che non riescono ad accedere a un avvenire dignitoso perché son sommerse dai debiti prima ancora di riuscire a laurearsi – impresa in cui ci si imbarca con l’idea probabilmente superata che il titolo di studio basti a poter star meglio di come stanno le famiglie d’origine.
È una storia tremenda (e preziosa) perché una popolazione “aziendale” in cui il rapporto donne-uomini è di 1 a 50, residente in villaggi fatti di container in mezzo al nulla più assoluto e impiegata in turni che non permettono un contatto significativo con la rete sociale e affettiva di provenienza ECCO è un contesto che trasforma le più basilari norme di convivenza e di umanità, riscrivendole a favore di una situazione liminale, dove la responsabilità si edulcora e l’essere perennemente “di passaggio” fornisce un alibi di ferro per un cameratismo tossico, esasperato e concretamente violento.
È un libro importante perché parla di soldi, di risorse naturali e di impatto ambientale a livello “macro”, ma ci interroga anche sui vari gradi di complicità che possiamo esprimere in via indiretta, magari mentre cerchiamo con gran fatica di guadagnare anche solo il minimo indispensabile.
È una storia di migrazioni economiche e di sconfitta della retorica del “se vuoi puoi” – che di solito ci viene propinata da chi può molto perché parte con le spalle più che coperte -, di scelte impossibili tra radici e futuro, di ambizioni e patti infelici con la realtà, di opportunismo travestito da opportunità dorata. “Che vuoi farci, il mondo va così”, ci ripetiamo quando i problemi che si affastellano sono troppo grandi per essere maneggiati e ci sentiamo estremamente irrilevanti per poter fornire un contributo che faccia una qualche differenza. Forse è vero… ma è una fortuna che spunti, ogni tanto, una voce capace di rendere palese questa sconfitta, che ci racconti un posto “limite” che diventa crocevia di molto di quello che ci preoccupa e che, inevitabilmente, ci riguarda. La nostra storia non sarà mai sovrapponibile a quella di Beaton, ma a quello servono i testimoni attendibili: ci dicono quel che è successo, quello che noi non potevamo sospettare e, per fortuna, anche che quello che mai avremmo voluto sentire.

Pronta a cominciare il suo “praticantato” da sacerdotessa di Pandora, Clori comincia a sospettare che il tempio sia solo un grande baraccone tirato su per vendere vasellame ai turisti e si domanda se non abbia fatto meglio la sua amica – nonché suo unico amore – ad accettare una buona proposta di matrimonio in una polis vicina. Delusa e oltraggiata – oltre che discreta rompicoglioni, che l’Olimpo la conservi – Clori decide di verificare la tenuta del culto per vie empiriche… e apre il vaso. CAOS! MALI DEL MONDO IN LIBERTÀ! SENSO DI COLPA! DISASTRO INCOMBENTE! Convinta di aver condannato tutti alla sofferenza, mette qualche peplo in un fagotto e parte per la sua missione di redenzione, in compagnia di Pigrizia – una pingue sfinge mignon – e della famelica Speranza. E giá così si vola.

Dove abitano i mostri? In un grande vaso leggendario o nella nostra testa? E qual è il peggiore? Da dove arriva il timore di non essere mai abbastanza? La speranza è una forza positiva per definizione o quando è cieca fa più danni che bene? Clori e il suo corteo di mostruosità cercheranno di capirlo, tra gesti eroici e oracoli che (ovviamente) ti dicono che la risposta è dentro di te… e ogni tanto hanno ragione.

Fabio Pia Mancini rivisita il mito di Pandora servendosi di una scrittura guizzante e contemporanea – riferimenti pop compresi – e di un impiantone visivo ricchissimo e francamente magnifico. Il risultato è un’avventura stramba, molto divertente e fuori dal tempo, che riflette su timori frivoli e grandi abissi.

The End di Anders Nilsen – in libreria per Add con la traduzione di Francesco Pacifico – ha conosciuto diverse iterazioni, revisioni e limature. Descrive un sentimento complesso – la perdita – e l’ha fatto negli anni cercando di rendere giustizia ai nuclei più significativi di quella circostanza, avvalendosi di volta in volta di quel prezioso “senno di poi” a cui sarebbe bello potersi appoggiare per non affrontare con strumenti irrimediabilmente inadeguati il peggio che può succederci. Ogni lutto è di tutti, perché la morte è un destino comune, ma chi rimane lo assorbe come se fosse un evento unico e incomparabile rispetto alle esperienze altrui, perché quel che perdiamo non è un concetto astratto ma una persona vera, che ha occupato uno spazio “pratico” e ideale nel nostro orizzonte concreto.

Nilsen ha messo insieme The End, disegnando e scrivendo, dopo la malattia e la morte della sua fidanzata – una morte che tenderemmo a definire inopportuna e precoce, data la giovane età – nel tentativo di ricavarci consolazione e anche una sorta di messaggio “universale” capace di attutire l’insensatezza delle condanne irreparabili e arbitrariamente distribuite. Tra metafore visive e documentazione delle minuzie di una quotidianità che pare aver smarrito il suo centro, Nilsen analizza il rapporto con un’assenza inaccettabile e con la fatica di abitare un presente monco, perché per concepirci davvero nel punto mediano tra passato e futuro deve esistere un futuro possibile, una vita da costruire con la persona che amiamo e che non c’è più.

È legittimo continuare a vivere? È rispettoso? È auspicabile? Nessuno verrà a rilasciarci un’autorizzazione in carta bollata, ma quel che si apprende qui è che abbiamo tutti diritto a dettare delle condizioni di sopravvivenza “gestibili” e che, molto spesso, è complicato lasciar andare il dolore, perché il dolore riempie ed è pur sempre meglio del vuoto completo.
Non è un libro allegro, ma è onesto e prezioso proprio per la testimonianza di lungo periodo che offre, per il discorso che si sviluppa facendosi sempre più rarefatto e libero dal caso specifico, nella benevola ambizione di poter diventare fonte di conforto in una moltitudine di altri casi. Non si dimentica, ma si impara a tenere la fiamma accesa e a portarla vicino al cuore, dove ci scalda anche se non produce più la luce brillante e visibile che eravamo abituati a seguire.

A fare da cornice a buona parte delle vicende di Le buone maniere, il nuovo fumetto di Daniel Cuello uscito per Bao Publishing, è un ufficio che più grigio non si può. L’ufficio, insieme alla variegata fauna dei suoi dipendenti, ha il nobile compito di revisionare pubblicazioni di ogni tipo in modo da renderle conformi alle direttive ideologiche di un tentacolare Partito che regola con mano che si finge paterna (ma in realtà è pesantissima) la vita del paese. L’ufficio è un organo di censura e repressione a tutti gli effetti, ma è anche un palcoscenico umano popolato da signore insospettabilmente ribelli, eroi cialtroni e capi che diventano tali proprio perché non hanno mai dimostrato interesse per l’esercizio del potere. È un guscio in cui confluiscono antichi drammi personali, codardie sommesse, ambizione paziente (per quanto schifosa), dovere, paure silenziose e forme di rassegnazione allo status quo inesorabili quanto la burocrazia.

Quale prezzo siamo disposti a pagare per far prevalere il “bene”? Perché è tanto più facile accettare un mesto ma tranquillo presente, anche quando di fatto serviamo il padrone sbagliato? Che cosa c’è di peggio del trovarsi in un contesto che ci fa sentire irrilevanti o sempre troppo piccoli e inermi per cambiare le cose?
Tra timbri, macchinette del caffè che non funzionano MAI, paradossali catene di comando, gatti fuggiaschi, una zia saggissima e confortevoli prigionie da scrivania, Cuello ci procurerà un gran magone… ma riuscirà anche a dare un nome a quella scintillina di coraggio che tanto inseguiamo, anche quando ci sembra di essere sempre inchiodati nello stesso posto.

I fumetti si confermano un luogo efficace per affrontare l’argomento della maternità, soprattutto per quanto riguarda quel limbo complicato di trasformazione fisica e identitaria che si attraversa nei mesi immediatamente successivi a una nascita. Prendo spunto da una lettura recente, La sostituta di Sophie Adriansen e Mathou, per assemblare una piccola lista di narrazioni disegnate che in questi anni ho trovato preziose per esplorare il territorio della maternità e della genitorialità in generale.
Come spesso accade, non è necessario andare alla rigorosa ricerca dell’immedesimazione perfetta, ma mai come in quegli ambiti ancora soggetti a una forte attitudine collettiva al giudizio – più o meno corroborato dall’umana sensibilità e dall’empatia che ogni tema delicato meriterebbe – è prezioso poter contare su prospettive che sfiorano anche gli anfratti meno luminosi di uno specifico fenomeno. Siamo collettivamente educati ed educate a dimostrare competenza, padronanza della situazione, ottimismo e solide capacità, a impegnarci per superare le difficoltà e a non alzare disonorevoli bandiere bianche. Il trauma è un banco di prova, un’occasione per dar mostra di caparbietà, spirito di sacrificio e indomito coraggio. Si può fare tutto, se lo si desidera abbastanza e un’eventuale sconfitta (sovente assai più probabile di un trionfo) si trasforma in colpa, in una testimonianza di inadeguatezza o di demerito. In questo trappolone precipitano anche le neo-madri? Certamente, Vostro Onore. E probabilmente ci precipitano in maniera ancor più rovinosa e potenzialmente dannosa rispetto a quello che ci tocca in qualità di abitanti “normali” di quest’universo collettivo. Alle madri si fanno pochi sconti e perseveriamo nel trascinarci dietro un lungo e ingombrante retaggio popolato da angeli del focolare e sante martiri. Senza dilungarmi in ulteriori pipponi, ecco qua qualche potenziale lettura che può accompagnare – o aiutare a comprendere meglio – cosa succede mentre cerchiamo di assestarci e, soprattutto, di perdonarci quando non ci sentiamo brave abbastanza.

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La sostituta - Sophie Adriansen-Mathou - copertinaCon La sostituta – in libreria per BeccoGiallo –, una scrittrice e un’illustratrice uniscono le forze per raccontare un periodo di assestamento non idilliaco o consolatorio, ma pieno di quei dubbi che sintetizzano lo scontro tra aspettative e realtà, senso d’inadeguatezza e nuove responsabilità, istinto e paura di non essere all’altezza, pressioni “esterne” e sensazioni intime.

Non si tratta di “vendercela” bene o male, di atterrire con un eccesso di franchezza le aspiranti madri volenterose o di metterla giù dura per amore della spettacolarizzazione anche traumatica di un momento complesso, ma di prestare ascolto e restituire dignità a quel che si discosta da romanticizazzioni forzate o dall’obbligo di nascondere una difficoltà per non sentirsi ancor più “sbagliate”.

Il celebre e sempre celebratissimo “istinto materno” è azionato da un infallibile interruttore che si attiva nell’istante esatto della nascita? Quella sicurezza inscalfibile nelle proprie capacità è un congegno che si innesca immediatamente?
Per la mamma di questa storia – che arriva “felice” al parto dopo una gravidanza desiderata, all’interno di una coppia solida e unita da un grande amore e da una quotidianità appagante – c’è ben poco di automatico. Marketa passa mesi in compagnia del fantasma di una mamma perfetta – “la sostituta” del titolo – che altro non è se non la proiezione ideale di quel che vorrebbe fare ma non le viene, il prototipo della puerpera radiosa e straripante d’affetto che non fa fatica ad assimilare i cambiamenti, accetta il suo corpo senza battere ciglio (anzi, torna praticamente subito “come prima”), pare immune a stanchezza e dolore fisico e, soprattutto, è capace di gestire la situazione con accecante ottimismo e mano ferma.

Oltre alla cronaca pratica di quel che capita a Marketa, Clovis e alla minuscola Zoe, al cuore di questo fumetto c’è uno dei più avvincenti misteri che si affacciano alla vigilia di ogni grande evento che altera lo status quo: come la prenderemo, chi diventeremo. Si ascolta più volentieri chi non alza la mano per manifestare un disagio e si accoglie con più semplicità chi “sta bene”, forse. Ammettere che questo “stare bene” non è necessariamente un merito o un fattore che ci connota come esseri umani migliori – dotati o non dotati di prole – credo sia un buon passo per dare spazio senza stigmi anche a chi non sta beneficiando del medesimo stato di grazia. Perché si è più propensi a chiedere l’aiuto che serve (e a riconoscere di averne bisogno) quando il contesto che ci ospita non tratta con sufficienza o con intransigenza una difficoltà, convincendo anche noi di sbagliare se non ci sentiamo sufficientemente capaci.
Non ce la fai? Va così perché non sei abbastanza brava, non perché stai oggettivamente facendo una cosa difficile che può metterti di fronte a ostacoli e intoppi.
Accogliere un’esperienza di maternità che ingrana superando scogli più ditti e aguzzi di quanto ci sembri più rassicurante ritenere “normale” non toglie nulla alle puerpere felici ma, di certo, alleggerisce il bagaglio di quelle a cui sta andando (o è andata) meno liscia.

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Lucy Kinsley ha un tratto adorabile e la limpida capacità di scomporre con chiarezza e sentimento le cose “difficili”. In Molto più di nove mesi non racconta soltanto quello che accade dopo la nascita del suo biondissimo Pal, ma anche il percorso accidentato che ha preceduto il suo arrivo.
La narrazione è inframezzata da approfondimenti sul funzionamento del nostro corpo, informazioni sulla gravidanza e riflessioni sociologico-sistemiche sulla genitorialità e le trasformazioni della coppia. Per quanto si capisca già dalle prime pagine che un bambino alla fine è arrivato, Kinsley dedica ampio spazio alle fasi della gestazione e alle conseguenze fisiche e psicologiche dell’aborto spontaneo che ha subito prima dell’arrivo di Pal. Kinsley si concede il margine di manovra necessario a metabolizzare il colpo subito e, tra emotività da ricomporre e razionalizzazioni non sempre semplici da digerire, ci fa da guida in quel limbo di incertezza (e di fallimento) che precede il concepimento e che spesso le coppie affrontano isolandosi e negando dolori e legittima frustrazione.
È un libro che può contare su un senso dell’umorismo delicato, capace di rischiarare anche le parentesi meno liete. Ma è anche un libro spigoloso, che non indora la pillola e ha il coraggio di chiamare le cose orribili col loro nome.

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Marion Fayolle è una disegnatrice di relazioni. Tra cespi d’insalata ed evocativi lumaconi si è già occupata di coppie e sessualità e, in questo silent-book, ci trasporta sul pianeta dei figli. Talvolta sono giganteschi e ingombranti, altre volte fungono da collante o erigono barriere, giocano con i nostri pezzi o ne portano alla luce di nuovi. Modificano il paesaggio attorno a loro e producono nuovi equilibri. Senza bisogno di parole ma avvalendosi di immagini evocative e argute, Fayolle mappa la cura e la crescita di una famiglia intera che si destreggia in un paesaggio affascinante, accidentato e complesso, tra istanze protettive, nevrosi che proiettiamo su chi ci circonda e serenità ritrovate.

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Cenni rapidi ma attinenti.
Di Pigiama computer biscotti parlo spesso perché Alberto Madrigal produce su di me un effetto rassicurante. Qua racconta il suo apprendistato da papà con candore benevolo e disarmante sincerità: chi può insegnarti a crescere un figlio? Sarò capace di dargli tutto l’amore che merita? Ha senso percepirmi come uno che si limita ad “aiutare”? Cosa succede alla routine lavorativa, soprattutto per chi fa un mestiere creativo? Tra ricerca di nuove fonti di ispirazione, riclassificazione delle priorità e momenti di limpida meraviglia, Madrigal riordina i ricordi e schiude per noi uno spiraglio di calore.

Visto che un papà l’abbiamo incontrato, mi viene spontaneo piazzare qui anche Bastava chiedere. Le dieci storie che Emma raccoglie in questo volume palano di femminismo e di assurdità quotidiane con cui ancora ci tocca scontrarci. Il capitolo più “famoso” e di cui forse si è discusso di più è quello sul carico mentale. Non c’è stortura mappata in questo libro in cui io possa dire di non essermi immedesimata, ma è stato il capitolo sul carico mentale a far scattare quella scintilla di riconoscimento ulteriore che mi ha aiutata ad esternare davvero alcuni bisogni che inconsciamente stavo insabbiando. Ed è capitato proprio negli anni successivi all’arrivo del mio bambino, un momento che penso per molte tenda ad accentuare disparità già presenti ma probabilmente meno pesanti da gestire. Discutere di una fatica è faticosissimo, farla riemergere dal sommerso e non darla più per scontata – o non assumersene la responsabilità in maniera automatica, quasi con determinismo biologico – può creare fratture e disarmonia, ma alla lunga può salvare davvero e creare mondo più abitabile (per mamme e non).

Sarebbe stupendo se James Gunn decidesse di trasformare 24/7 di Nova in un lungometraggio estremamente splatter. A beneficio vostro (e dei potenziali registi all’ascolto) posso riassumere la questione così: MUTANTI IN UN SUPERMERCATO ERMETICAMENTE CHIUSO!!!1!!1!111

Che cosa succede quando nelle propaggini desolate di un tessuto urbano fatto più di vuoti che di pieni il germe del mostruoso si intrufola in un luogo “normale”, neutro e nato per apparirci convincente e rassicurante? Il supermercato aperto 24/7 è l’emblema della comodità: la merce è sempre a nostra disposizione per soddisfare sia le nostre necessità fisiologiche che il nostro gusto per il superfluo – e i nostri bisogni di compensazione. È il punto di riferimento perennemente a portata di mano, in un paesaggio dove le rovine e l’abbandono rispecchiano l’incuria e il disordine che nascondiamo tirando a campare.

Dante, recentemente scaricato dalla fidanzata, inizia a lavorare al supermercato senza chissà quali aspirazioni. Anzi, il far parte di un grande ingranaggio – in qualità di anonima rotella – è quasi un fattore rassicurante, una garanzia di impegno relativo. Attorno a lui sciamano clienti più o meno rompicoglioni, da assecondare e tollerare per garantire al negozio un solido futuro di simulata affidabilità. La trasformazione mostruosa che subiranno successivamente – il veicolo del “contagio” è un carico di pomodori venuti a contatto con un misterioso liquame – sembra addirittura un miglioramento: da zombie mutanti sono senz’altro più vitali, per quanto guidati da un cieco istinto che poco asseconda le convenzioni del quieto vivere collettivo. È come se, nel mutare, il popolo del supermercato manifestasse la sua versione “potenziata”, la farfalla mannara che aspettava di uscire dal bozzolo.

Chi sopravviverà a questa mini-apocalisse, circoscritta dalle saracinesche rotte di un supermercato? Può esserci riscatto anche per l’ultimo degli ingranaggi? Con un tratto che si appuntisce e velocizza con il montare del terrore collettivo, Nova ci racconta che quello di cui forse dovremmo avere davvero paura è l’involucro rassicurante del visibile, della “corazza” di cose che usiamo per foderarci mentre diventiamo sempre meno capaci di spiegarci, avvicinarci, sentire. Il corpo diventa mostro ma, in quello spiraglio di caos che libera, riesce a defibrillare i cuori rassegnati a cristallizzarsi in un tran-tran quotidiano che è la vera terra dei mostri. E lì già ci abitiamo.

Un consiglio, ragazzo.
Impara dove si trova la roba.
Imparalo subito, te lo chiederanno in continuazione.
E poi, buon Dio, vedrai, non la troveranno. Gliela devi trovare tu.
Di base sanno che sei qui per servirli, quindi saranno ostili. Fondamentalmente maleducati, direi. È la natura.
Ma, come ben sai, hanno sempre – sempre – sempre ragione.

Nova riesce sempre a trascinarmi in un angolo buio che allo stesso tempo mi atterrisce e mi fa anche divertire moltissimo. I suoi sono eroi riluttanti, guazzabugli di dubbi, casini, inconcludenza e disastri generazionali (che ben so riconoscere, mio malgrado). Ha un occhio splendido per il dettaglio e per una catalogazione quasi da naturalista delle tribù umane più disparate – qua delineate anche a partire da quello che tiriamo fuori dal carrello e ammucchiamo sul nastro della cassa. Da Orietta Berti ai sacchi dell’umido che si decompongono in casa nostra, Nova usa il grottesco, l’esagerato e il margine del presente per descrivere tanto del vuoto che percepiamo e che non sappiamo nominare.

[24/7 è il secondo fumetto di Nova per Bao. Del suo esordio, Stelle o sparo, avevo già parlato nella listona delle mie letture preferite del 2020.]