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Dunque, partiamo da una domanda che potrebbe sorgere spontanea: ma se mi è piaciuta la saga di Blackwater mi piacerà anche Gli aghi d’oro (in libreria con la traduzione di Elena Cantoni)? E chi può dirlo. Si tratta sempre di Michael McDowell – in questo suo molto ben confezionato ripescaggio dall’oblio – ma non ci sono chissà quanti altri punti di contatto. Sì, anche qui ci troviamo alle prese con vicissitudini e turpitudini di famiglia, anche qui possiamo crogiolarci nella deliziosa scelta di publishing di Neri Pozza – che continua ad affidare la copertina all’esimio Pedro Oyarbide – e anche qui c’è un certo gusto per il macabro, ma l’ambientazione è lontanissima dal limaccioso Perdido e manca anche l’adesione ai filoni “gotici”, magici o “mostruosi”. Qui siamo più nel territorio del poliziesco o del penny dreadful e l’intreccio personale – così come il peso che ha la caratterizzazione dei personaggi – viaggia su un binario all’apparenza molto più improntato alla funzionalità.

Che succede? Siamo a New York nel 1882 e un abisso separa i rispettabilissimi benestanti dalla feccia tignosa dei bassifondi – zone in cui una casa, oggi, costa centordicimila paperdollari al metro quadro… ricordarlo mi pare sempre divertentissimo. Le due categorie umane sono qua rappresentate dalla stirpe dell’inflessibile giudice Stallworth – repubblicano di ferro e fan sfegatato delle impiccagioni – e dalla famiglia di Black Lena Shanks, ricettatrice astuta, potente e a suo modo assai rispettata. Lei e il giudice hanno dei trascorsi non proprio idilliaci e sarà un omicidio all’apparenza casuale – come tanti se ne verificano nei quartieri del vizio – a riportare a galla gli antichi rancori. Gli Stallworth mirano a migliorare la propria posizione ergendosi ad arbitri assoluti di virtù, scatenando una campagna pubblica contro il malaffare del Triangolo Nero. Black Lena, che non ama il clamore e vuole continuare serenamente ad occuparsi degli affaracci suoi, dovrà mettere il proprio acume al servizio della vendetta. Tra oppiomani catatonici, gioielli, bambini inquietanti, gole tagliate, bische, mignottoni, dame di carità, scrofolosi e materassi infestati dai pidocchi, l’ombra lunga del Triangolo Nero finirà per lambire i quartieri altolocati, smascherando l’ipocrisia e la grettezza dei più ferventi difensori della rettitudine.

McDowell riproduce gli stessi meccanismi di morbosa curiosità che la cronaca nera – resa nella sua crudezza e nella sua ricerca esasperata del sensazionalismo – scatena nel romanzo. È una forma di “commento” e di citazione sfiziosa, va detto. Tanto spazio è lasciato al sordido e a una vasta gamma di espedienti criminali, ma l’intreccio è ben lontano dal risultare miracoloso. La ricostruzione dell’ambiente è suggestiva ma calcatissima e si mangia i personaggi, che sono incarnazioni schematiche ed essenziali di un ventaglio di disvalori che superano le identità di classe. Il ribaltamento di prospettiva che se ne ricava è gustoso e, come da copione, si tifa per la vendetta… anche se ci si arriva con poco slancio. Black Lena e il suo clan di donne a loro modo estremamente talentuose ricordano la struttura matriarcale che ha plasmato le sorti dei Caskey e, pur trovando apprezzabilissima questa “abitudine” di McDowell di mettere in mano alle femmine il potere, qua mi è sembrato di veder transitare delle figurine che compensano lo scarso spessore con una stravaganza da freakshow.
Per sintetizzare: pensavo meglio? Pensavo meglio. Ci manchi, MaryLove. Eri più cattiva te.

(Preparatevi a un massiccio tornado di foto eterogenee, euforie, videini riassuntivi, difficoltà d’abbigliamento e strane capigliature. Pronti? In carrozza!).

*

Agatha Christie era una signora portentosa. Autrice di un’ottantina di romanzi – fra i più amati e venduti di sempre – e viaggiatrice instancabile – in un’epoca in cui le signore che andavano a spasso da sole venivano osservate con un certo sospetto, soprattutto se erano felicemente divorziate -, ha intrigato e incuriosito milioni di lettori e spettatori che, negli anni, si sono goduti le sue storie anche a teatro, al cinema e in tv.

One must do things by oneself sometimes…Either I cling to everything that’s safe and that I know, or else I develop more initiative, do things on my own.

Durante la Prima Guerra Mondiale lavorò come infermiera – faccenda che le permise di imparare nozioni disparatissime sui veleni – ed esordì nel 1919 con Poirot a Styles Court. Nel 1925 sparì misteriosamente da casa per vendicarsi in maniera FAVOLOSA del marito che la cornificava e nel 1928 partì per conto suo a bordo dell’Orient Express, girando in lungo e in largo l’impero britannico con la sua fidatissima macchina da scrivere. I viaggi di Agatha sull’Orient Express sono stati parecchi e ciascuno l’ha aiutata a raccogliere pezzettini di varia ispirazione per scrivere il suo giallo (forse) più celebre, pubblicato nella sua interezza nel 1934 dopo essere uscito a puntate l’anno prima sul Saturday Evening Post.

All my life I had wanted to go on the Orient Express. When I had travelled to France or Spain or Italy, the Orient Express had often been standing at Calais and I had longed to climb up into it.

A parte gli EVVIVA che Agatha Christie mi ispira, le sono anche molto debitrice – un po’ come lo sono tutti i suoi discendenti, che la signora Christie continua egregiamente a mantenere. Senza di lei, infatti, non sarei mai finita a Londra a mangiare tartine sull’Orient Express e, con ogni probabilità, nemmeno mi sarei ritrovata a zampettare su un red carpet per la prima di un film in cui Kenneth Branagh sfoggia dei baffi a dir poco maestosi.

Ma andiamo con ordine, che qua l’entusiasmo potrebbe travolgerci come una tempesta di neve nella località turca di Çerkezköy.

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Assassinio sull’Orient Express è appena diventato un film – il secondo LUNGOMETRAGGIO tratto dal romanzo, dopo quello del 1974 diretto da Sidney Lumet – con un cast vastamente stellare e un gran tifo da parte della Agatha Christie Foundation – che gestisce con puntiglio l’eredità letteraria di della scrittrice, assicurandosi che ogni trasposizione delle sue opere sia molto bella e rispettosa del materiale originale. Il film uscirà in Italia il 30 novembre, mentre il libro è già reperibilissimo ed è stato puntualmente ristampato da Mondadori.

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Per l’arrivo del film nelle sale, la 20th Century Fox ha ben deciso di caricare un gruppo di bookblogger europee (sconfinatamente più celebri di me) su un vero Orient Express parcheggiato alla stazione di St Pancras. Non è il treno che è stato utilizzato per le riprese – Kenneth Branagh ha insistito per farsene fabbricare uno come diceva lui, con una resa scenica RAGGUARDEVOLE -, ma se come me vi siete dilettati per svariati anni col pendolarismo potrete facilmente comprendere lo stupore che un susseguirsi di vagoni con poltrone vellutate (GIREVOLI) e lampadari di cristallo è in grado di generare. Mai avrei pensato di prendere un aereo per andare a vedere un treno, ma si è poi scoperto che ho fatto benissimo.

Dopo aver ingurgitato l’equivalente del mio peso in champagne – senza comunque perdere la dignità, anche se ci ho mangiato insieme solo una tartina al salmone di rara precisione geometrica – e aver ammirato con una certa soggezione la macchina da scrivere da viaggio che Agatha Christie utilizzava quando andava in giro per il mondo – macchina da scrivere presidiata da un affabile energumeno che ci ha giustamente vietato di toccarla e/o di rovinarla sbavandoci sopra come dei labrador -, abbiamo fatto amicizia con James Prichard, bisnipote dell’illustrissima autrice e presidente/CEO dell’Agatha Christie Foundation. Che lavoro fa? Questo.

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Con il signor Prichard abbiamo discusso di baffi e della caratterizzazione di Poirot – che in questo film vince anche una sorta di backstory e una presentazione quasi da supereroe -, di quanto sarebbe bello vedere Meryl Streep che interpreta Miss Marple e del lavoro che serve per rendere interessante e “cinematografico” un romanzo che si svolge principalmente su un treno popolato di gente che dialoga, si arrovella e pensa, senza roba che esplode all’improvviso.

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James Prichard ci ha anche comunicato la sua immensa felicità per un ritorno al cinema così sontuoso per Agatha Christie, ma anche un po’ di rammarico per il destino della bisnonna. Perché il giallo è un genere quasi sempre considerato “inferiore” rispetto alla Grande Letteratura, ma quando uno scrittore è sostenuto dall’acume, dall’inventiva e dall’inesauribile ingegno di un’Agatha Christie, sarebbe molto liberatorio poter fare a meno delle categorizzazioni o della condiscendenza che, troppo spesso, accompagnava e accompagna le donne che scrivono. Insomma, Agatha Christie si merita di più. E un film così “potente” è un’occasione grandiosa per avvicinare nuovi lettori a un’eredità letteraria che merita di essere approfondita. 

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Dopo aver declinato il quattordicesimo bicchiere di vino (scandalizzando il cameriere), mi sono goduta l’albergo per ben un’ora e ventitré minuti. E ho pure scoperto di avere 75 £ “caricati” sulla camera (GRAZIE, 20th CENTURY FOX, QUESTA È SIGNORILITÀ) e pure un certo appetito. Mi devo cambiare-truccare-pettinare per non fare una figura eccessivamente imbarazzante su un red carpet, santo il cielo, ma HO FAME. Abbandonandomi a uno dei sogni più fastosi mai elaborati durante la mia vita adulta, dunque, ho chiamato il servizio in camera. E visto che i miei entusiasmi sono solitamente paragonabili a quelli di una bambina di quarta elementare, anche l’ordinazione è stata conforme alla mia età interiore. Ti hanno messo al Mayfair Hotel – che è tipo il Gesù degli alberghi di Londra – e tu chiami il servizio in camera perché vuoi un fish & chips. Che leggiadria. 

Quando per la prima volta nella vita hai la facoltà di avvalerti del servizio in camera ma resti un’ignorante. Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Dopo essermi doverosamente alimentata, ho fatto del mio meglio per prepararmi. Sono dovuta salire in ginocchio sul piano del lavandino perché lo specchio era troppo lontano e non ci vedevo a truccarmi. Ho anche pensato “ecco, adesso cadi, sbatti la testa sul marmo di Carrara e muori”, ma me la sono cavata senza riportare contusioni. Ero abbastanza in ansia per l’abbigliamento perché A) Faceva un gelo porco, B) Di solito sto a casa in vestaglia e non ho idea di come ci si debba presentare su un red carpet quando non fai l’attrice ma nemmeno vuoi sembrare la Piccola Fiammiferaia della Val Padana. L’ho risolta avvalendomi delle seguenti componenti:

– Vestito di Guess da ancella delle Olimpiadi dell’oscurità comprato in 9 minuti quando ormai avevo perso le speranze. Costava 129 euro ma mi hanno fatto il 25% di sconto perché quando fai la tessera di Guess ti accolgono con un -25% di default sul primo acquisto. Mi sono sentita incredibilmente intelligente e ho sperato con tutte le mie forze che la gente finisse per pensare che era il vestito più inestimabile del mondo.
– Giacca di Blumarine in vellutino nero che mi ha comprato MADRE al primo anno di università perché dovevo andare al compleanno di una mia amica ricca che ci aveva invitate in Costa Azzurra. Una giacca che ha dieci anni ma il velluto è tornato di moda quindi CIAO, sono una principessa russa e non butto via niente.
– Jimmy Choo glitterate che mi sono messa al mio matrimonio e poi mai più. Mi si erano spellati i tacchi nel prato ma, se andate in Rinascente e spiegate il problema, Jimmy Choo vi ordina un altro paio di tacchi e poi vi manda dal suo scarparo di fiducia che ve li cambia. Ecco, io ho fatto tutte queste manovre nell’autunno del 2014, convinta che sarebbero stati sforzi inutili, ma invece no, un posto dove andare in giro con le Jimmy Choo l’ho trovato di nuovo. Ora le rimetto nella scatola – in attesa di ritirare il Nobel per la Letteratura che un giorno vincerò.
– Pochette da sera con fiocco di vernice che si comprò MADRE negli anni Settanta nella speranza che mio padre la portasse a ballare. La uso da quando a ballare ho cominciato ad andarci io visto che era nuova.
– Collana di Trifari del secolo scorso che ho trovato da una signora che vendeva gioielli vintage in un vicolo di Ortigia e che mi risolve con grazia qualsiasi AUTFIT che abbia una qualche tendenza al dorato.

Poi niente, ho visto passare Penélope Cruz e mi sono ricordata che sono di Piacenza. E che non sono capace di pettinarmi.

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Uno non lo direbbe, ma i red carpet sono cruentissimi. Anche se stai alla Royal Albert Hall. Da una parte ci sono quelli che hanno il biglietto (più o meno regalato) per assistere alla prima del film. E transitano su una loro corsia mentre dei tizi enormi e furibondi li incitano continuamente a spicciarsi e a non fermarsi per fare foto da mettere su Instagram. E con “li incitano” dovete immaginarvi dei pastori sardi che gridano cose irripetibili alle loro pecore per incanalarle verso l’ovile, solo che le pecore si sono impegnate per vestirsi bene e hanno lo smartphone. Dal lato opposto c’è un’altra corsia, riservata agli attori e alla gente importante che deve parlare con tantissimi giornalisti, ordinatamente confinati dietro a una transenna. Simmetricamente al transennone dei giornalisti ce n’è un altro, dietro al quale è relegata la gente che vuole bene a Johnny Depp e vuole vederlo e/o sventolargli in faccia dei grandi cartelli con scritto JOHNNY MARRY ME.  

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Noi avevamo un pass molto grosso che diceva SOCIAL e ci hanno messe in una specie di arena circolare in mezzo alle due corsie, ai piedi di un palco dove a intervalli di dieci minuti salivano svariati fenomeni del cinema mondiale, reduci da una lenta transumanza – irta di domande e convenevoli – lungo la transenna dei giornalisti.
Non credo di essermi mai trovata in una posizione così bizzarra.
Io, con Judi Dench a tre gradini di distanza. Ero così felice che mi sono anche dimenticata di vergognarmi per quest’immane fortuna. Si sono materializzati Willem Dafoe (è la coccosità in persona), Daisy Ridley (CHE LA FORZA SIA CON TE, CUORINA), Josh Gad, Johnny Depp (che benissimo non stava), Kenneth Branagh (che è talentuoso… ma pure un gran bell’uomo – mi sia concesso dirlo), Santa Rosalia, Optimus Prime e pure la Madonnina di Civitavecchia. Sono tristissima perché Michelle Pfeiffer è arrivata prima di noi e non sono riuscita a volerle bene anche da vicino, ma tutto sommato va bene così – che diamine dovrei dire a Michelle Pfeiffer. Come ci si approccia a Michelle Pfeiffer. Nemmeno Batman l’aveva capito, figuratevi io.

Comunque.

Visto che dubito di aver spiegato in maniera comprensibile tutto quello che è capitato, ho messo insieme un po’ di clippine delle Instagram Stories che ho concitatamente prodotto durante la giornata/serata e le ho piazzate qui: 

Ma il film com’è, alla fin fine?
Ma lo devo vedere?
Ma se non ho letto il libro?
Il film è pensato per presentare al grande pubblico – anche quello completamente ignaro dell’esistenza di Hercule Poirot nel panorama letterario dell’universo – il mondo di Agatha Christie. È sontuoso e visivamente bellissimo, e Kenneth Branagh fa del suo meglio per non tenervi inchiodati sul treno troppo a lungo, anche se il ritmo non è sempre scoppiettante – ogni indagine ha dei tempi tecnici, alla fin fine. È stupendo vedere così tanti attori di talento che lavorano insieme a un progetto così complesso, così come è apprezzabilissima la cura maniacale per i dettagli e per i dialoghi. Ma così, tanto per dirvela in due parole. Io, in tutta onestà, al cinema ci andrei anche solo per vedermi due ore di baffi giganti.

Grazie a Mondadori, 20th Century Fox e alla Agatha Christie Foundation per avermi invitata a girellare per Londra in compagnia di Agatha Christie – riuscendo nella difficile impresa di farmi rivalutare il trasporto su rotaia. E grazie anche al cuoco del Mayfair Hotel che alle 23.40 mi ha preparato un club sandwich col pollo, il bacon croccante e l’uovo fritto.

Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Che dire… rifacciamolo presto.
Magari per il prossimo caso di Poirot.
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