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I fumetti si confermano un luogo efficace per affrontare l’argomento della maternità, soprattutto per quanto riguarda quel limbo complicato di trasformazione fisica e identitaria che si attraversa nei mesi immediatamente successivi a una nascita. Prendo spunto da una lettura recente, La sostituta di Sophie Adriansen e Mathou, per assemblare una piccola lista di narrazioni disegnate che in questi anni ho trovato preziose per esplorare il territorio della maternità e della genitorialità in generale.
Come spesso accade, non è necessario andare alla rigorosa ricerca dell’immedesimazione perfetta, ma mai come in quegli ambiti ancora soggetti a una forte attitudine collettiva al giudizio – più o meno corroborato dall’umana sensibilità e dall’empatia che ogni tema delicato meriterebbe – è prezioso poter contare su prospettive che sfiorano anche gli anfratti meno luminosi di uno specifico fenomeno. Siamo collettivamente educati ed educate a dimostrare competenza, padronanza della situazione, ottimismo e solide capacità, a impegnarci per superare le difficoltà e a non alzare disonorevoli bandiere bianche. Il trauma è un banco di prova, un’occasione per dar mostra di caparbietà, spirito di sacrificio e indomito coraggio. Si può fare tutto, se lo si desidera abbastanza e un’eventuale sconfitta (sovente assai più probabile di un trionfo) si trasforma in colpa, in una testimonianza di inadeguatezza o di demerito. In questo trappolone precipitano anche le neo-madri? Certamente, Vostro Onore. E probabilmente ci precipitano in maniera ancor più rovinosa e potenzialmente dannosa rispetto a quello che ci tocca in qualità di abitanti “normali” di quest’universo collettivo. Alle madri si fanno pochi sconti e perseveriamo nel trascinarci dietro un lungo e ingombrante retaggio popolato da angeli del focolare e sante martiri. Senza dilungarmi in ulteriori pipponi, ecco qua qualche potenziale lettura che può accompagnare – o aiutare a comprendere meglio – cosa succede mentre cerchiamo di assestarci e, soprattutto, di perdonarci quando non ci sentiamo brave abbastanza.

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La sostituta - Sophie Adriansen-Mathou - copertinaCon La sostituta – in libreria per BeccoGiallo –, una scrittrice e un’illustratrice uniscono le forze per raccontare un periodo di assestamento non idilliaco o consolatorio, ma pieno di quei dubbi che sintetizzano lo scontro tra aspettative e realtà, senso d’inadeguatezza e nuove responsabilità, istinto e paura di non essere all’altezza, pressioni “esterne” e sensazioni intime.

Non si tratta di “vendercela” bene o male, di atterrire con un eccesso di franchezza le aspiranti madri volenterose o di metterla giù dura per amore della spettacolarizzazione anche traumatica di un momento complesso, ma di prestare ascolto e restituire dignità a quel che si discosta da romanticizazzioni forzate o dall’obbligo di nascondere una difficoltà per non sentirsi ancor più “sbagliate”.

Il celebre e sempre celebratissimo “istinto materno” è azionato da un infallibile interruttore che si attiva nell’istante esatto della nascita? Quella sicurezza inscalfibile nelle proprie capacità è un congegno che si innesca immediatamente?
Per la mamma di questa storia – che arriva “felice” al parto dopo una gravidanza desiderata, all’interno di una coppia solida e unita da un grande amore e da una quotidianità appagante – c’è ben poco di automatico. Marketa passa mesi in compagnia del fantasma di una mamma perfetta – “la sostituta” del titolo – che altro non è se non la proiezione ideale di quel che vorrebbe fare ma non le viene, il prototipo della puerpera radiosa e straripante d’affetto che non fa fatica ad assimilare i cambiamenti, accetta il suo corpo senza battere ciglio (anzi, torna praticamente subito “come prima”), pare immune a stanchezza e dolore fisico e, soprattutto, è capace di gestire la situazione con accecante ottimismo e mano ferma.

Oltre alla cronaca pratica di quel che capita a Marketa, Clovis e alla minuscola Zoe, al cuore di questo fumetto c’è uno dei più avvincenti misteri che si affacciano alla vigilia di ogni grande evento che altera lo status quo: come la prenderemo, chi diventeremo. Si ascolta più volentieri chi non alza la mano per manifestare un disagio e si accoglie con più semplicità chi “sta bene”, forse. Ammettere che questo “stare bene” non è necessariamente un merito o un fattore che ci connota come esseri umani migliori – dotati o non dotati di prole – credo sia un buon passo per dare spazio senza stigmi anche a chi non sta beneficiando del medesimo stato di grazia. Perché si è più propensi a chiedere l’aiuto che serve (e a riconoscere di averne bisogno) quando il contesto che ci ospita non tratta con sufficienza o con intransigenza una difficoltà, convincendo anche noi di sbagliare se non ci sentiamo sufficientemente capaci.
Non ce la fai? Va così perché non sei abbastanza brava, non perché stai oggettivamente facendo una cosa difficile che può metterti di fronte a ostacoli e intoppi.
Accogliere un’esperienza di maternità che ingrana superando scogli più ditti e aguzzi di quanto ci sembri più rassicurante ritenere “normale” non toglie nulla alle puerpere felici ma, di certo, alleggerisce il bagaglio di quelle a cui sta andando (o è andata) meno liscia.

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Lucy Kinsley ha un tratto adorabile e la limpida capacità di scomporre con chiarezza e sentimento le cose “difficili”. In Molto più di nove mesi non racconta soltanto quello che accade dopo la nascita del suo biondissimo Pal, ma anche il percorso accidentato che ha preceduto il suo arrivo.
La narrazione è inframezzata da approfondimenti sul funzionamento del nostro corpo, informazioni sulla gravidanza e riflessioni sociologico-sistemiche sulla genitorialità e le trasformazioni della coppia. Per quanto si capisca già dalle prime pagine che un bambino alla fine è arrivato, Kinsley dedica ampio spazio alle fasi della gestazione e alle conseguenze fisiche e psicologiche dell’aborto spontaneo che ha subito prima dell’arrivo di Pal. Kinsley si concede il margine di manovra necessario a metabolizzare il colpo subito e, tra emotività da ricomporre e razionalizzazioni non sempre semplici da digerire, ci fa da guida in quel limbo di incertezza (e di fallimento) che precede il concepimento e che spesso le coppie affrontano isolandosi e negando dolori e legittima frustrazione.
È un libro che può contare su un senso dell’umorismo delicato, capace di rischiarare anche le parentesi meno liete. Ma è anche un libro spigoloso, che non indora la pillola e ha il coraggio di chiamare le cose orribili col loro nome.

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Marion Fayolle è una disegnatrice di relazioni. Tra cespi d’insalata ed evocativi lumaconi si è già occupata di coppie e sessualità e, in questo silent-book, ci trasporta sul pianeta dei figli. Talvolta sono giganteschi e ingombranti, altre volte fungono da collante o erigono barriere, giocano con i nostri pezzi o ne portano alla luce di nuovi. Modificano il paesaggio attorno a loro e producono nuovi equilibri. Senza bisogno di parole ma avvalendosi di immagini evocative e argute, Fayolle mappa la cura e la crescita di una famiglia intera che si destreggia in un paesaggio affascinante, accidentato e complesso, tra istanze protettive, nevrosi che proiettiamo su chi ci circonda e serenità ritrovate.

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Cenni rapidi ma attinenti.
Di Pigiama computer biscotti parlo spesso perché Alberto Madrigal produce su di me un effetto rassicurante. Qua racconta il suo apprendistato da papà con candore benevolo e disarmante sincerità: chi può insegnarti a crescere un figlio? Sarò capace di dargli tutto l’amore che merita? Ha senso percepirmi come uno che si limita ad “aiutare”? Cosa succede alla routine lavorativa, soprattutto per chi fa un mestiere creativo? Tra ricerca di nuove fonti di ispirazione, riclassificazione delle priorità e momenti di limpida meraviglia, Madrigal riordina i ricordi e schiude per noi uno spiraglio di calore.

Visto che un papà l’abbiamo incontrato, mi viene spontaneo piazzare qui anche Bastava chiedere. Le dieci storie che Emma raccoglie in questo volume palano di femminismo e di assurdità quotidiane con cui ancora ci tocca scontrarci. Il capitolo più “famoso” e di cui forse si è discusso di più è quello sul carico mentale. Non c’è stortura mappata in questo libro in cui io possa dire di non essermi immedesimata, ma è stato il capitolo sul carico mentale a far scattare quella scintilla di riconoscimento ulteriore che mi ha aiutata ad esternare davvero alcuni bisogni che inconsciamente stavo insabbiando. Ed è capitato proprio negli anni successivi all’arrivo del mio bambino, un momento che penso per molte tenda ad accentuare disparità già presenti ma probabilmente meno pesanti da gestire. Discutere di una fatica è faticosissimo, farla riemergere dal sommerso e non darla più per scontata – o non assumersene la responsabilità in maniera automatica, quasi con determinismo biologico – può creare fratture e disarmonia, ma alla lunga può salvare davvero e creare mondo più abitabile (per mamme e non).

La domanda COME VA è solo all’apparenza un quesito di semplice gestione. Perché a un COME VA, di solito, non è dato rispondere in maniera troppo particolareggiata. Magari ci sono delle cose che vanno bene, ma anche cose che vanno male o cose che potrebbero andare peggio/meglio, ma non puoi metterti lì a fare l’elenco.
Quel che serve, per rispondere al COME VA, è una specie di calcolo karmico che sommi e sottragga le diverse forze in gioco, per arrivare a una valutazione complessiva che possa vagamente offrire all’interlocutore un’impressione generale del corso della tua recente esistenza. Quando risolvi l’equazione e arrivi a una risposta accettabile, poi, te la puoi riciclare finché i fattori non mutano in maniera drastica, costringendoti a un ricalcolo.
MADRE, per esempio, rispondeva costantemente ai COME VA con un incoraggiante RESISTO, che mi metteva automaticamente in imbarazzo, visto che denunciava velatamente una difficoltà di fondo di cui sospettavo di essere in qualche modo responsabile. Comunque.  Mi sono resa conto che la mia risposta quasi standard al COME VA è diventata BENE… MI STO ASSESTANDO. E lo dico agitando un po’ le mani per aria, come se stessi palpeggiando una specie di nuvola invisibile. Non ho idea dell’impressione che una risposta del genere possa suscitare, ma è la pura verità… ormai da un annetto.

Non sono mai stata una particolare fan della routine o dell’organizzazione maniacale. C’è chi per sentirsi in pace deve pianificarsi tutti i weekend da qui al 2023 o chi scrive su un bel quaderno pieno di washi-tape i suoi obiettivi a medio, lungo e lunghissimo termine. Io, anche prima di riprodurmi, avevo serie difficoltà a fare la spesa per più di un pasto alla volta.
Che diamine mangeremo domani?
Encefalogramma piatto davanti al banco dei latticini.
Così.
Che vuoi pianificare, con uno schema cognitivo del genere? Poco, ecco che cosa pianifichi. Un po’ perché, per indole, non hai super voglia di sforzarti, ma anche un po’ perché, tutto sommato, sei in grado di gestire l’imponderabile. Operi in un contesto dove esistono dei margini di manovra. Dove ti puoi permettere di pensare domani alla cena di domani. O di prenotare un viaggio la settimana prima di partire – se hai i soldi. Perché reagisci rapidamente, cambi quando serve e, non essendo una persona particolarmente strutturata, non ti agiti quando capitano cose in maniera repentina. O non ci metti molto a decidere e a passare all’azione. Ti arrangi. Ne esci comunque vincitrice.

È un vantaggio, rispetto all’estrema pianificazione?
Non ne ho idea.
E poco ce ne frega, visto che non è una gara e non si vince niente.

Quello che sto cercando di dire – forse – è che l’arte dell’improvvisazione è un po’ una scelta, ma è anche una specie di lusso. Decidere di “pensarci dopo” è una forma di libertà. E si va ad appollaiare in cima a una base di relazioni, impegni e situazioni già assodate che sei ormai capace di amministrare in automatico. È una sorta di cuscinetto che ti puoi gestire come ti pare per assecondare sghiribizzi o momenti di culo pesante. E ai COME VA finisci per rispondere in maniera molto avventurosa e spumeggiante. Ti viene da parlare proprio di quegli sghiribizzi lì e delle trovate dell’ultimo minuto, perché ti sembra che la parte più “viva” di quello che ti capita sia quella che hai previsto di meno, quella che si innesta sulla tua base di certezze più solide e costanti.

Ma che succede quando cerchi di far appollaiare il lusso della disorganizzazione parziale su una base fluida?
Ciao.

Ho un bambino che cambia tutti i giorni. Che fa cose nuove continuamente e che sviluppa abitudini inedite ogni venti minuti. È un genere di imprevedibilità diversa, ma imprevedibilità rimane. Ed è una mia responsabilità. Posso contare su alcuni punti fermi e imporre un certo ritmo, ma ora si improvvisa per gestire progressi visibili e minuscoli traguardi. E non puoi più permetterti di rimandare il rimandabile, perché in quello spazio di sereno tentennamento ci finirà sicuramente qualcosa di mai visto che dovrai risolvere. Non c’è nulla di meno statico di un infante. Perché crescere non ha nulla a che vedere col rimanere fermi o col creare rassicuranti cuscinetti in cui la realtà si comporta più o meno come ce l’aspettiamo, lasciandoci dell’altro spazio per indovinare soluzioni estrose a problemi che possiamo comodamente rimandare. Succede tutto contemporaneamente e tutto diventa un grande esperimento di adattamento perenne.

Ci si annoia? Direi di no.
Ci si ricalibra? Per forza.
C’è fascino? Molto.
C’è affanno? Anche.

Perché ti senti sempre un passo indietro. Non puoi abituarti a niente. E ogni tua dote d’improvvisazione finisce per confluire nella gestione di un cervellino che scopre pezzettini di mondo. O di cosciotti che sostengono rapidissime deambulazioni. Appena un meccanismo potrebbe vagamente configurarsi come routine, cambia tutto.
Bene, siamo finalmente riusciti a padroneggiare le pappotte. Ma cinque minuti dopo le pappotte ci fanno schifo e vogliamo le penne col ragù. Ci siamo stabilizzati sulle penne col ragù? Fantastico, ora voglio gestirmi la forchetta da solo. Mi auguro che presto decida anche di cucinarsele in autonomia, le benedette penne al ragù, ma – per ora – io lo rincorro. Mi stanco, mi stupisco, lavoro col computer in bilico su un ginocchio mentre supervisiono la costruzione di ambiziose torri di cubi gommosi. Lo accompagno e avanzo insieme a lui, perché non posso sapere cosa troverà domani e non posso governarlo. Ma posso cambiare quando ce n’è bisogno, perché mi ricordo come si faceva – per cose molto più stupide e molto meno importanti.
Cambio.
E mi assesto.
COME VA.
Bene, grazie, mi sto assestando.
Sempre.
E speriamo che basti.

DISCLAIMER
Questo post non contiene nemmeno l’1% di quello che ci è accaduto. E non ambisce a far meglio di così. Perché, in tutta franchezza, non si può.
Questo post, in sintesi, è un trailer. Ma di quelli fatti bene. Mica un trailer con già dentro tutta la trama, che cavolo.

***

BENE. PROCEDIAMO.

Pur continuando a non capacitarmi di come una persona – per quanto piccola – sia riuscita a raggiungere il mondo esterno transitando per la mia coraggiosa vagina, l’operazione “Riproduciamoci, orsù” si è conclusa con successo e, dal 24 settembre, abbiamo un Minicuore. 
Anzi, un Cesare.
E siamo felici come degli imbecilli.

Ora, potrei mettermi qua a dirvi cose poetiche e piene di sentimento. Potrei scrivere due cartelle sul potere salvifico della vita che sboccia. Potrei provare a farvi piangere con una minuziosa descrizione del primo battito di ciglia di mio figlio. Potrei intrattenervi con una moltitudine di sconfinate tenerezze… ma non è questo che ci serve.
Perché è tutto bellissimo, ma è anche un gran casino. E quello che ti preme all’inizio – oltre a non uccidere accidentalmente tuo figlio – è riprendere un vago controllo della realtà.
Nell’ambizioso tentativo di arginare l’entropia neonatale, ho dunque deciso di affrontare la faccenda con razionalità, mappando i fenomeni principali che si sono scatenati nelle prime settimane di vita di Minicuore. Perché sì, la gente non vi dirà mai che un bambino ha un mese e mezzo. I bambini hanno sei settimane. E nessuno capirà mai di che cazzo state parlando.

Misurazione del tempo in settimane

Comunque.
Partorire è un problema.
Sono entrata in ospedale alle 18 di un venerdì sera e ho trascorso i tre giorni successivi a vagare seminuda e dolorante in mezzo a sconosciuti di ogni tipo, sfoggiando una batteria di surreali camicioni da notte ereditati da mia nonna Lelia che, prevedendo un olocausto atomico circoscritto al solo abbigliamento da letto, ne aveva immagazzinati due container (senza mai mettersene neanche uno, visto che credeva nell’onnipotenza della sottoveste di seta nera – indipendentemente dalla stagione).
La mia stanza, poi, era sprovvista di bagno. Mi è dunque toccato trascinare la mia carcassa gonfia al cessetto dietro l’angolo per una quantità interminabile di volte, brandendo giganteschi assorbenti a forma di Toblerone e maledicendo a gran voce il mio utero tumefatto.
Insomma, passi una vita a riprenderti dalle umiliazioni dell’adolescenza, ma poi partorisci e ti rituffi nell’abisso.

Livello di dignità personale

Il vostro parto è stato soave, edificante e sereno?
Brave voi e bravi tutti.
Io ho patito così tanto che non ho neanche fatto in tempo a spaventarmi. Però avevo un’ostetrica argentina super rassicurante e abilissima che ha serenamente discusso di Harry Potter con Amore del Cuore mentre un’infermiera gigantesca mi spezzava le vertebre cervicali nel tentativo di immobilizzarmi e permettere a un’anestesista con dei capelli fantastici di piantarmi un tubo nella schiena.
Il risultato finale è che, in un istante di particolare ottimismo prodotto dall’epidurale, mi sono convinta di poter far uscire Minicuore in sette secondi netti urlando EXPECTO PATRONUM.
Non provateci, non funziona.
Ma l’epidurale ve la consiglio anche a scopi ricreativi.

Cose belle della vita per livello di piacevolezza sprigionato

All’epidurale, comunque, non ci si arriva agevolmente. Te la devi sudare. Devi meritartela, come il regno dei cieli. A me è toccato rantolare per una mattina intera (e vomitare parecchia roba fosforescente in un secchio) prima che il Dottor Futomaki mi elargisse la sua benedizione.
Io col Dottor Futomaki ce l’ho su davvero.
Un po’ perché non è carino irrompere in una stanza e infilare all’improvviso un braccio intero nella patata di una persona – ma così, senza nemmeno presentarti – e un po’ perché non puoi piantarti in mezzo al corridoio alle otto del mattino per raccogliere le ordinazioni del pranzo. Sushi, poi. In un reparto pieno di donne gravide che soffrono come dei maiali e che il sushi non lo mangiano da nove mesi.
Graziella, te cosa vuoi? Gli uramaki Spicy Salmon o i Rainbow Roll? Chiedi anche alla Diletta, che di solito prende quelli con le uova di pesce volante, ma lo sai com’è fatta. Cosa dite, aggiungo un po’ di tartare, che ce la mangiamo prima?
CHE TU SIA MALEDETTO, DOTTOR FUTOMAKI. UN GIORNO AVRÒ LA MIA VENDETTA!
Ma poco importa. Perché, dopo tanto patire, ti ritrovi con un neonato di tre chili e trecento grammi in braccio. E ti sembra di una bellezza prodigiosa.

Maternità e distorsioni percettive

Potrei raccontarvi com’è che si campa in un ospedale pieno di donne sconvolte che spingono carrettini-lettino con dentro dei bambini minuscoli e variamente terrorizzati, ma mi sembra di essermi già dilungata in particolari già abbastanza cruenti. Vi basti sapere che, se voi avete avuto dei problemi, le altre ne hanno immancabilmente avuti di più. E non vedono l’ora di farvi pesare anche l’ultimo effetto collaterale del loro cesareo.
Quindi niente, io passerei ai regali. I regali sono sempre fonte di grande stupore.
La nascita di un figlio è un evento giustamente festeggiato dalle genti di ogni cultura con un’esplosione di doni strabilianti. In prevalenza ricamati a punto croce.

Frequenza di utilizzo del ricamo a punto croce

Fare regali a un neonato è difficile. La nascita di un infante è un avvenimento di una certa rilevanza – quindi non vuoi arrivare con una cazzata -, ma non vuoi neanche passare per quello che bada troppo al sentimento e troppo poco al lato pratico. Pragmatismo e lungimiranza, dunque, ma anche affetto e coccolosità.
Il risultato?
Al grido di “tanto il bambino cresce e la roba per i primi tempi non gli va più bene dopo un secondo e comunque ho pensato che ne avrai già a pacchi e che era importante regalarvi qualcosa che potete usare anche fra un po’, no?”, vi ritroverete con mille tutine ADORABILI taglia 6-9 mesi e nulla di utilizzabile nell’immediato – che poi è più o meno il momento in cui il bambino si caga anche sulle scapole… e te hai in lavatrice tutto il vestiario che possiede perché le scapole se le riempie di sterco ogni tre ore.
Che il cielo benedica lo shop online di H&M. E quelle due persone che vivono nell’eterno presente.

Composizione del parco-doni

Comunque, visto che la cacca ha già fatto la sua inevitabile comparsa, direi di occuparcene. In ospedale siamo stati istruiti su come cambiare efficacemente un pannolino, detergendo con rapidità e perizia il deretano del nostro bambino. Ogni volta che andavi al Nido – è così che si chiama lo stanzone pieno di neonati dove si espletano le principali funzioni di accudimento mentre sei ancora ricoverata – e cambiavi tuo figlio, un’infermiera/dottoressa/puericultrice correva da te e t’interrogava sul contenuto del pannolino. La pipì veniva accolta con un benevolo cenno del capo, ma senza particolari entusiasmi. La cacca, invece, era festeggiata con salve di cannone e il passaggio in corridoio della fanfara dei Bersaglieri.
Io, nella mia angoscia neogenitoriale, interpretavo il tutto più o meno così.
Il bambino caga? Sei una buona madre.
Il bambino non caga? Sei un mostro e Studio Aperto verrà presto a stanarti.

La cacca è importantissima. Ti sorprendi a parlare così tanto di cacca – con tuo marito, con i nonni, con gli amici, con i semplici passanti – che, quando effettivamente ti tocca pulirla, non ti fa più nemmeno schifo. Certo, non ci verniceresti le pareti, ma non ti fa particolarmente impressione. Anzi, la cacca è una buona notizia, è un evento positivo. Come la piena del Nilo. Come l’arrivo della stagione delle piogge nella savana riarsa. La cacca è oggetto di dibattiti, tavole rotonde e bollettini dal fronte. La cacca, nuova grande protagonista. E pensare che, due mesi fa, potevi sederti a tavola a discorrere di viaggi, progetti, carriera e amicizie, come una persona normale. Ora no, parli solo di merda.

Frequenza e composizione degli argomenti di conversazione

La cacca, insieme al naso tappato, ha per noi rappresentato una grande incognita. Minicuore, pur non incappando mai in raffreddori conclamati, ha passato le prime due settimane a respirare come un piccolo mantice otturato, gettandomi spesso nel panico. ODDIO, SE DIVENTA TUTTO BLU E MUORE? ODDIO, MA AVRÀ QUALCOSA DI DEVASTANTE AI POLMONI? Dopo aver scoperto il potere salvifico dei lavaggini nasali con la soluzione fisiologica – manovra cruentissima da eseguire con una siringhina spuntata, da utilizzare tipo Super Liquidator per sparare acqua nelle minuscole narici tappate di vostro figlio -, sono felicemente passata a preoccupazioni di altro tipo. ODDIO, HA UN OCCHIO UN PO’ GONFIO, È SICURAMENTE GUERCIO! Ma anche IL BAMBINO NON CAGA DA QUATTRO GIORNI, ESPLODERÀ?
Ad ogni micro-allarme, ovviamente, rompevamo i coglioni a qualcuno. Ho telefonato al Nido dell’ospedale, alla guardia medica, alla pediatra, al collega pediatra della nostra pediatra, al pronto soccorso pediatrico e pure al neonatologo dell’ospedale – disponibile solo in risicatissime fasce orarie praticamente inaccessibili (che ci sia lo zampino del malefico Dottor Futomaki?). E che cosa ho scoperto, alla fine? Ho scoperto che devo stare molto calma. E che non esiste una via di mezzo. 

Tipologie di risposta a condizione di malessere

Al ventesimo È NORMALE che ti rifilano, un po’ ti senti scemo. Perché di fronte a un “è normale” non c’è soluzione. Devi aspettare che la situazione migliori da sola (come ti promettono immancabilmente) o ti viene concesso di intervenire in maniera blandissima e quasi certamente inefficace (“lavi l’occhietto con una garzina”, “massaggi il pancino o stimoli con delicatezza l’orifizio”). Non so voi, ma io funziono così: ho mal di testa > prendo un Moment > mi passa il mal di testa > FAVOLA! Ecco, se uno mi venisse a dire che il mal di testa “è normale” (perché agli esseri umani nella vita un mal di testa può anche venire), mi incazzerei come una bestia e reclamerei a gran voce un rimedio un po’ più significativo, possibilmente a base di sostanze stupefacenti. CERTEZZE, CI SERVONO CERTEZZE.
A volte, dunque, di fronte alla scarsissima propensione all’allarmismo degli operatori sanitari a vostra disposizione, vi sorprenderete a consultare con un certo interesse l’orripilante chat del corso pre-parto – chat alla quale avete messo SILENZIOSO 1 ANNO praticamente subito dopo la nascita dei primi bambini.
Ma perché sì, maledizione.
E per due macro-ordini di motivi.
Uno. Il continuo bombardamento fotografico perpetrato dalle madri degli infanti più raccapriccianti.

Curva dell'ingiustificata fierezza materna

Due. I nomignoli imbecilli.

Termini prevalentemente utilizzati dalle neo madri per indicare i propri figli

PUFFI?
NANI?
CUCCIOLI?
…ma io vi sfondo le costole a colpi di mestolo.
Non ho trascorso nove mesi nel disagio e nella scomodità per mettere al mondo uno GNOMO, accidenti a voi. Non ho patito le pene dell’inferno per una giornata intera per poi sentirmi dire “ma che belle zampine che ha!”. ZAMPINE UN CAZZO. SONO MANI, CRETINA. MANI!
Io non capisco, è come se a chiamarli col loro nome (BAMBINI) si facesse la figura degli insensibili. E lo dice una che è sposata con Amore del Cuore e che ha messo al mondo Minicuore. Ma quelli sono fattacci miei, che diamine – è come ho deciso di chiamare due persone specifiche, mica un’intera categoria di esseri umani. Non pretendo di andare in giro a dire “Oh, ma guarda quanti bei Minicuore ci sono in questa nursery! Sei una donna fortunata, il tuo Amore del Cuore sarà un papà fantastico!”. Dai, cos’è. Anzi, come direbbe mia suocera, MA CE LA FATE?
Comunque.
Il confronto con gli altri è sempre una grande incognita. Ma più per voi che per vostro figlio. Anzi, vi renderete presto conto che vostro figlio, incredibilmente, non è per nulla misantropo. 

Curva della finta serenità neonatale

Quei due o tre giorni che passi in ospedale con il bambino sono una specie di allenamento, ma poco realistico. Nonostante le ostetriche ti chiamino ripetutamente MAMMA – credo più per farti rendere conto di che cosa ti è appena capitato che per l’effettiva impossibilità di ricordarsi nome e cognome di ogni singola puerpera ricoverata –, cominci a capire veramente quello che ti è successo quando rimetti piede in casa. Noi siamo entrati, abbiamo appoggiato per terra sacchetti, valigini, mazzi di fiori, pacchetti e pacchettini e, dopo sette minuti di euforia da “Oddio, che bello, il mio bidet!”, abbiamo sistemato Minicuore sul divano, nella navicella del passeggino, e ci siamo domandati E ADESSO?.
E adesso niente, sono fattacci tuoi.
Non credo ci sia niente che può davvero prepararti a gestire la faccenda, a parte il buonsenso.
Perché prendersi cura di un neonatone è un po’ come conoscere una persona nuova, solo che questa persona si piscia addosso a ripetizione e non è perfettamente in grado di farti sapere che cosa le sta succedendo. O di soffiarsi il naso in autonomia, se è per quello. O di capire che ha le mani. O di distinguere il giorno dalla notte. O te da un materasso.

Mappatura dei luoghi del sonno per frequenza di assopimento

All’inizio, inevitabilmente, le questioni pratiche ti fagocitano. E cambiare la garzina al cordone ombelicale. E farlo mangiare regolarmente. E non lessargli il sedere sotto al rubinetto. E il freddo. E il caldo. E la copertina in faccia. E le calzine. E l’appuntamento dalla pediatra. E come si fissa l’ovetto al sedile della macchina. E la cuffietta. E mettilo a pancia in su. E giralo sul fianco. E starà crescendo. E se non cresce come facciamo. Ogni cinque minuti ne hai una. E ogni due ore e mezza il sistema operativo si azzera, BAMBINO.EXE si riavvia (girano con Windows, all’inizio) e la gioiosa tarantella ricomincia da capo: pannolino > tetta > rutti & secrezioni assortite > nanna (auspicabilmente). Nel caso ci sia da cambiare una tutina, poi, i tempi si dilatano notevolmente…

Legge di moltiplicazione falangea del neonato

Con il passare dei giorni, comunque, si diventa più bravi. Anche accudire un neonato, infatti, segue determinati schemi motorio/cognitivi. E l’allenamento, come insegna MADRE, aiuta sempre. Non avrei mai pensato, ad esempio, di riuscire a tollerare la cronica mancanza di sonno con la disinvoltura che sto dimostrando. Non avrei mai pensato di potermi rallegrare, alle quattro del mattino, per il sorrisotto storto che ti fa un bambino minuscolo quando lo prendi in braccio dopo un piantino. E non avrei mai pensato di potermi commuovere davanti a uno stendino, ma è capitato anche quello. Se lì con una vaschetta piena di tutine tempestate di pinguini e orsacchiotti e ti viene un po’ da piangere, tra una molletta e l’altra.
Insomma, ce la caviamo. Oserei dire che ce la caviamo bene. L’impegno, di sicuro, ce lo mettiamo. E Amore del Cuore è, come prevedibile, molto bravo. Se potesse, credo che mi solleverebbe anche dai doveri dell’allattamento. E io glielo lascerei fare volentierissimo. Tutti ti raccontano quanto è utile allattare e quanto fa bene al bambino, ma sorvolano un po’ sulle difficoltà iniziali. Io sono uscita dall’ospedale con i capezzoli ridotti peggio di una trincea di Verdun ma, a quanto pare, pure quello fa parte del pacchetto. Dopo essermi cosparsa di creme alla lanolina e aver protetto i miei preziosi rubinetti con paracapezzoli in argento 925 – roba uscita per direttissima da un film di Austin Powers -, le mie piastrine hanno finalmente deciso di mettersi all’opera e, dopo settimane di discreti patimenti, ho conquistato la libertà di annoiarmi di tanto in tanto. Perché i bambini piccolissimi mangiano dalle sei alle otto volte al giorno. E ogni volta ci mettono una mezz’oretta buona. Trovarsi un hobby è assolutamente fondamentale.

Allattamento - composizione delle attività svolte in parallelo

E niente.
Siamo qui.
Siamo in tre (più Ottone).
Stiamo ancora tutti quanti bene e ci amiamo fortissimo.
Ciò è sufficiente a fare di me una MADRE? Non credo proprio… ma da qualche parte bisogna pur iniziare.
Ben arrivato, Minicuore. Ti adoriamo. E ce la faremo, promesso.
🙂

***

Visto che mappare in maniera esaustiva i fenomeni principali dell’esistenza di un neonato e cacciarli tutti in un solo post è vagamente impensabile, l’ambizioso progetto procederà su Facebook – senza alcuna periodicità o criterio. Voi fateci un giro, però. Sarà bellissimo.

Data l’enormità della vicenda, direi di cominciare dai fatti.
Aspettiamo un Minicuore.
Siamo vergognosamente felici.
Ci sentiamo molto fortunati.
Minicuore dovrebbe arrivare a settembre.
A settembre, in sintesi, diventeremo genitori.
Io e Amore del Cuore.
Genitori.

karen ooh

Ripeto, genitori.
Di un essere umano.
Fra più o meno cinque mesi.

karen bottiglia

Ecco.
Minicuore, al momento, sonnecchia da qualche parte nella mia pancia. In questo istante – anzi, in questa EPOCA GESTAZIONALE -, dovrebbe essere grande all’incirca come un avocado. Minicuore è del tutto ignaro delle paranoie da adulta iper responsabile che mi sto facendo, delle scompostissime manifestazioni d’affetto dei futuri nonni e del traffico clandestino di ecografie sfocate che si sta consumando su WhatsApp. Il record del regalo più veloce è stato conquistato dalla bisnonna, che ha saggiamente deciso di occuparsi del vestiario, commuovendoci oltremodo. Al momento, quindi, il guardaroba di Minicuore comprende un paio di calzerotti bianchi imbottiti e un camicino ricamato – in pura seta – denominato Camicino Portafortuna. MADRE – che avrà presto bisogno di un nuovo appellativo… tipo MADRE², come un sequel di Alien – ha deciso di tramandarmi un tomo Rizzoli degli anni Ottanta (che spiega per filo e per segno come gestire un infante) e un libro di yoga per gravide. Perché non sei mica in dolce attesa. O incinta. Un dottore non userebbe mai un termine così approssimativo. Per il dottore sei GRAVIDA. Come una specie di grande mammifero ruminante… al quale, prima o poi, finirai probabilmente per assomigliare.
Ciao a tutti.
E benvenuti al making-of di Minicuore.

karen yay

Secondo rigorosi calcoli scientifici, Minicuore si è manifestato alla fine di dicembre, tra il santo Natale e la caciara di Capodanno. Ha quindi partecipato ai festeggiamenti per l’arrivo del 2016, a una settimana bianca – con tanto di rovinosa caduta in un fosso -, a un devastante weekend aziendale sulla neve, a svariati allenamenti di tennis e a diversi tragitti in motorino sull’infido pavé milanese.
Perdonami, Minicuore. Non sapevo che ci fossi anche tu.

karen headless

Il primo a sapere dell’esistenza di Minicuore è stato Ottone von Ostetrica. Prima ancora di Amore del Cuore, che ho cacciato di casa per poter fare serenamente la pipì su due stecchini.

I test di gravidanza che vi vendono in farmacia hanno nomi stronzi. Quello che hanno dato a me, per dire, si chiamava TEEN TEST. Mi sono sentita piuttosto lusingata, visto che non sono una teenager da circa quindici anni, ma ho comunque provato un discreto disagio. Era fucsia. Con una confezione dall’aspetto a dir poco cialtrone. E la farmacista è tornata da me sventolandolo per aria, tutta fiera e felice. Ma che cosa sventoli, cretina. Un po’ di discrezione. Qua vicino c’è il mio ufficio. Questi inopportuni sventolamenti potrebbero causarmi svariati problemi diplomatici. Che siamo, sbandieratori del palio di Siena? Sono pure molto agitata e in ansia per le sorti del mio utero e del resto della mia esistenza, gradirei della comprensione e una punta di sensibilità. Un po’ di rispetto, contegno e riservatezza, cazzo.

karen lady

Comunque.
Subito dopo aver scoperto di essere incinta, la donna media viene travolta dal bisogno di capire. Vuoi capire che cosa sta succedendo. Vuole che qualcuno le spieghi tutto quello che può andare storto. Sei lì, all’inizio di un’esperienza praticamente impossibile da gestire con lucidità e hai bisogno di rassicurazioni, istruzioni e consigli qualificati. Ti preme tantissimo comprendere se quello che senti è normale o se, in estrema sintesi, stai morendo o stai inconsapevolmente facendo del male alla minuscola persona che ti porti a spasso.
Che fai, quindi?
Visto che la tua ginecologa non ha la pazienza di Giobbe – e che tecnicamente non è pagata per rispondere ai tuoi quesiti notturni sull’effettiva pericolosità della tinta per capelli -, devi industriarti diversamente. E ti scarichi delle APP.
Le APP per donne gravide si chiamano in maniera volutamente rassicurante. Sono tutte rosa, con le icone tondeggianti e un casino di diagrammi coccolosi. Utilizzano un linguaggio molto particolare. O ti trattano come una ritardata – nomignoli e melensaggini comprese – o danno per scontato che tu sia un premio Nobel per la medicina. Accanto a detestabili panegirici sulla gioia infinita che l’utilizzo di un termometro rettale per neonati potrà regalarvi, vi troverete di fronte a muri compatti di testo che descriveranno minuziosamente le principali disgrazie genetiche che potranno assalirvi se vi azzarderete anche solo a guardare un cespo di lattuga senza averlo prima sterilizzato con un lanciafiamme. Non c’è una via di mezzo. “Sarete madri meravigliose, siete nate per questo!” – MA CHI? -, “Il vostro pargoletto ha appena compiuto cinque splendide settimane. Regalatevi un bel bagno rilassante con tante bolle!” – CHE SONO, UNA BALENA? COME TI PERMETTI. Oppure “la mucopolisaccaridosi di tipo II (MPS II), è una grave malattia genetica che interferisce sulla capacità del corpo di scindere e riutilizzare specifici mucopolisaccaridi conosciuti anche come glicosaminoglicani o GAG”. Chiaro, no? Non ti agiti per niente a leggere una roba così.
Quando mi sono resa conto di aver paura del reparto ortofrutticolo del supermercato e di aver cominciato ad approcciarmi alla faccenda con la stessa spensieratezza di Josef Mengele, ho deciso di disinstallare tutto.
Grazie tante, ma ho già una vasta collezione di pippe. Non mi serve che me ne suggeriate delle altre.

karen dance

Oltre a non fidarmi più di niente e di nessuno, ho anche perso ogni velleità mondana.
Parliamoci chiaro. Che cosa esco a fare?
Non posso bere, devo fare la pipì ogni 5 minuti e casco dal sonno. Provo fastidio per qualsiasi cosa e, progressivamente, non avrò più nulla di decente da mettermi.
Io non ci voglio venire in giro con voi.
Cos’è, vi serve qualcuno che vi guardi bere dei gin-tonic o pensate di potercela fare da soli? Lasciatemi qui, per me è tutto finito.

karen they drink

Uno degli aspetti della gravidanza che sto cercando di accettare – faticosamente – è la progressiva ed inesorabile perdita di controllo sul mio organismo. Tanto per cominciare, la dottoressa mi ha confermato che ingrassare è legittimo (se non doveroso) e che, nel mio caso, sono autorizzata a mettere su dagli otto ai dieci chili. Mi ha anche proibito di continuare a giocare a tennis e di svolgere qualsiasi attività sportiva eccessivamente esuberante, per evitare di causare smottamenti uterini che potrebbero disturbare il serafico sviluppo di Minicuore. Partendo dal mio metro e settanta per sessanta chili di peso – misure che mi rendono già un discreto monumento ambulante – sono dunque condannata a trasformarmi in un sonnacchioso dugongo? Nella vita ho sempre svolto sport da cavapietre e, in questa specifica circostanza, non ho veramente idea di come comportarmi. Che cosa fanno le altre femmine? Nuotano con la tavoletta? Ballano il liscio? Impastano i maccheroni per rafforzare gli avambracci? Ma soprattutto, quando potrò utilizzare per la seconda volta le mie meravigliose racchette nuove, acquistate a Natale per propiziare il ritorno a una sana pratica agonistica nell’anno del signore 2016?
Non ci è dato saperlo.
MADRE, in compenso, ha dichiarato che stare qui a preoccuparsi non serve. Quest’estate sarai una mongolfiera. Mettiti il cuore in pace e siediti sotto la bocchetta dell’aria condizionata.
Il morale è tutto, mi dicono.

karen ok

Un’altra cosa che non so come gestire sono le tette.
Le mie tette sono ovunque.
Vivo con delle tette giganti che fanno malissimo e che, con mio grande sgomento, sembrano destinate ad espandersi all’infinito. Non so come fermarle. Non m’ascoltano. Non so chi credono di dover nutrire. Ho cercato di informarle che c’è ancora un po’ da aspettare, ma perseverano nell’aumentare vanamente di volume.
Prendetevele.
O parlateci voi. Io non so più come spiegarmi.
Tanto per accrescere i miei sempre più invadenti problemi d’abbigliamento, solo due tra i reggiseni che possiedo – quelli di Intimissimi senza il ferretto – mi stanno aiutando ad arginarle. Ne ho comprato uno da Prenatal – di cui ho già voglia di dire tutto il male del mondo -, ma è come andare in giro senza, come una gioiosa vacca d’alpeggio. Ma scusate, non mi posso comprare degli onesti e pacifici reggiseni sportivi? Cioè, sono meglio di quelle cazzate da donna gravida. Non schiacciano troppo, non si sposta niente, non ti fanno bozzi strani sotto le magliette e sono psicologicamente una manna. Non posso manco raccogliere una pietra da terra, ma almeno il reggiseno da principessa guerriera lasciatemelo usare, maledizione.

karen tette

Una roba bella, comunque, è che non ho vomitato all’alba nemmeno una volta. Mi alzo di notte a fare la pipì più spesso di un signore di ottant’anni, ma per quanto l’esistenza tenda talvolta a nausearmi, di nausee neanche l’ombra. La mia amica Anna non riesce a spiegarselo. Lei, poveraccia, è stata male come un cane e, di tanto in tanto, mi scrive per sincerarsi delle mie condizioni. “Nausee?”. Niente, Anna. Qua non si vomita. Non sta accadendo e basta. Fidati, non è colpa mia. Il favore di vomitare almeno una volta te lo potrei anche fare, ma non ci sarebbe spontaneità. “Allora è un maschio, per forza. Con le femmine la nausea ti viene sempre”. La saggezza popolare mi fa venire il voltastomaco, ma per questa volta continuerò a digerire felicemente tutto quello che ingurgito.

karen cheers

Gli effetti degli ormoni – ormoni che ignoro – sulla personalità di una femmina gravida sono assolutamente imprevedibili. Io, per dire, ho cominciato a ridere a crepapelle per cose imbecilli. Ma per dei quarti d’ora, con le lacrime, rotolandomi sul divano. Rido come una pazza. Visto che non ho mai sperimentato prima d’ora attacchi di ridarola di questa portata – Amsterdam a parte -, cerco sempre di capire con Amore del Cuore se quello che mi sta facendo ridere moltissimo è oggettivamente divertente o se sono solo io che sto perdendo il senno. Se trovo una cosa che mi fa molto ridere, cerco il modo di sottoporgliela. Nel 96% dei casi sono robe che rasentano l’impresentabilità e il mio sproporzionato divertimento è un chiaro sintomo della mia lenta discesa nella pazzia. Ma io sono molto felice, quindi vaffanculo.

karen laugh

Ma non preoccupatevi, perché ho anche il problema opposto. È più una faccenda di rabbia, in realtà. Mi incazzo violentemente per qualsiasi cosa. I miei livelli di pazienza sono scesi a zero e tutto quello che prima non mi piaceva un granché ora si è automaticamente tramutato nel male del mondo. Prima dell’insediamento di Minicuore potevo pacatamente affermare una roba tipo “il gelato al pistacchio non è di mio gradimento”. Ora va così: “il gelato al pistacchio è la merda. Odio il gelato al pistacchio e quello stronzo che l’ha inventato. Il gelato al pistacchio è il simbolo del declino della civiltà occidentale. Il gelato al pistacchio mi fa schifo! Che aspetto ha un pistacchio, poi? Dove cresce? Com’è fatto? PORTATEMI UNA PIANTA DI PISTACCHIO, LA FARÒ A PEZZI CON UN MINIPIMER DA GUERRA!”.
Pensate quanto è piacevole lavorare con me in questo periodo.
Pensate quanto è bello accompagnarmi da H&M a scegliere dei pantaloni in grado di contenere la mia pancia in espansione.
Pensate quanto ci si rilassa alle riunioni di famiglia.
Non ci sono alternative. O sono sul punto d’addormentarmi, o rido fortissimo o m’incazzo come un treno. Vedete voi.

karen liver

Hai la febbre? Prendi la Tachipirina.
Hai mal di testa? Prendi la Tachipirina.
Hai la tosse? Prendi la Tachipirina.
Hai il raffreddore? Prendi la Tachipirina.
Hai l’influenza? Prendi la Tachipirina.
Hai mal di gola? Prendi la Tachipirina.
Visto che la Tachipirina sembra in grado di rispondere a qualsiasi necessità dell’essere umano, mi chiedo e domando perché – in condizioni normali – ci si prenda la briga di diversificare il consumo di farmaci utilizzando assurdità come il Moment Act, l’Aspirina, il Brufen, l’Oki, l’Efferalgan e compagnia cantante. Sono confusa. Sono perplessa. E spero ardentemente di non ammalarmi mai più.

karen wtf

La sala d’aspetto di una ginecologa è un luogo abbastanza spaventoso. Ci arrivi in preda all’agitazione – è passato un mese dall’ultima visita, Minicuore starà bene o gli sarà all’improvviso spuntata la coda? – e tutto quello che desideri è che la dottoressa ti chiami e ti dica che non c’è niente che non va. Invece no. Visto che anche le altre future madri hanno bisogno di pacche sulle spalle e interminabili rassicurazioni, il tempo di attesa – rispetto all’ora prestabilita del vostro appuntamento – è di minimo un’ora. Tanto per prendere le misure, taratevi sugli UCI Cinemas. Il film comincia alle 21? Favola. Preparatevi a sciropparvi cinquanta minuti pubblicità piene di panini parlanti.

karen deserve

In quell’oretta di angoscia accadono, tipicamente, le seguenti cose. I mariti e i fidanzati si stabilizzano sulla lettura di un settimanale sgualcito o spippiolano col telefono. Le donne, dopo aver cercato di tirarli in mezzo discutendo di amenità e vita domestica, alzano bandiera bianca… e cominciano a rompere l’anima a te. Non so cosa pensino, di preciso. Ma guarda, sei gravida anche tu. Quante cose abbiamo in comune! Provo l’irrefrenabile bisogno di raccontarti per filo e per segno il mio ultimo (e CRUENTISSIMO) parto. Io non ti conosco, signora. E non ho alcun bisogno di sapere quanti punti ti hanno messo alla patata dopo la nascita del piccolo Piergiacomo. Mollami, te ne prego.
All’improvviso, poi, irrompe un passeggino.
Le pazienti che hanno finalmente partorito – auspicabilmente meglio della madre di Piergiacomo -, tornano dalla dottoressa a sbandierare la loro creatura e a farsi spiegare che cosa ne sarà del loro apparato riproduttivo.
Niente, se arriva un infante è la fine.
Le gravide sclerano. Si alzano in piedi, corrono verso la carrozzina, afferrano manine e piedini e scatenano una specie di uragano di complimenti e smancerie. MA CHE BELLO. MA CHE BRAVO. MA QUANTO TEMPO HA. PAOLO! GUARDA, PAOLO! NON È UNA MERAVIGLIA? MA CHE SCARPINE TENERE, MA DOVE LE HAI PRESE? SANTO CIELO, HA VOMITATO! MA CHE CARINO!

karen pretend

Comunque.
Sei lì da cent’anni. Hai simulato un cortese interesse nei confronti delle vicissitudini uterine della mamma di Piergiacomo e ti sei appiattita contro una parete per permettere alle gravide più umane e sensibili di te di circondare festosamente il passeggino della prima madre apparsa nel loro radar. Quando hai ormai perso le speranze, però, la dottoressa appare e ti salva. E, sei minuti dopo, stai ascoltando il battito di un Minicuore. Questo è il femorino. Questo è l’avambraccino. Lì c’è il naso. Quello è lo stomachino. Qui c’è la spallina. E ciao. Il tuo cervello si trasforma in un budino turchese pieno di stelline di zucchero.

Minicuore è un maschio, stiamo facendo del nostro meglio e, in buona sostanza, 
non vediamo l’ora di conoscerlo.
Tutto il resto è gelato al pistacchio. 

karen haha