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Gli antropologi di Ayşegül Savaş – tradotto da Gioia Guerzoni per Gramma di Feltrinelli – non fornisce connotazioni geografiche precise. Non si sa dove vivono, Asya e Manu, e non sappiamo nemmeno da dove arrivano. Quel che conta sono le distanze.
Lei fa la documentarista, lui lavora in una no-profit. Stanno insieme dai tempi dell’università e non condividono una lingua madre comune, perché anche fra di loro esisteva, in partenza, una distanza.
Si amano, hanno scelto una città ed è lì che vorrebbero mettere radici – cominciando magari col mollare l’appartamento in affitto per comprarne uno che somigli di più a chi sono diventati. Una decisione pratica, ma anche molto simbolica: siamo lontani da “casa” da anni, ma nulla di questo paese nuovo ci appartiene ancora. Cosa ci succederà quando potremo dire che il posto dove abitiamo è “nostro” – mutuo permettendo? Vuol dire che indietro non torneremo mai?

Che esista un oceano a separarvi dalla vostra casa d’origine o che vi troviate a un’ora di macchina dal quel che c’è ancora della vostra famiglia, Asya e Manu concretizzeranno col loro piccolo mondo tante delle emozioni contraddittorie che accompagnano la lontananza. Oscillano tra il bastarsi – con i rituali soddisfacenti di una quotidianità ordinata – e la ricerca di nuove connessioni. Hanno un caro amico, l’unico, expat anche lui, con cui cincischiano serenamente in uno spazio urbano che li include ma li fa comunque sentire sempre estranei. Ricevono aggiornamenti su nonne anziane, fratelli e nipoti che non vedono invecchiare o crescere con l’assiduità della presenza costante e si sentono sia sollevati che progressivamente sempre più disancorati. Accolgono le rare visite dei genitori e ne escono sfibrati, perché si sentono in dovere di rassicurarli sul fatto che sì, stanno bene, ma non vogliono nemmeno che se ne vadano pensando che stanno molto meglio lì, senza di loro. Si sentono in colpa perché non possono precipitarsi all’ospedale se qualcuno sta male ma sono anche consapevoli del benessere che ricavano da quel presente che hanno saputo costruire in piena autonomia. Devo continuare? Ci siamo capiti. Che siano 75km o che ci voglia un volo intercontinentale, questo è.

Di etnie e popoli non si parla in questo romanzo, perché siamo nell’ambito di una migrazione “privilegiata” e la scelta, anche, è quella di indagare il concetto universale di legame di famiglia. Se Savaş inserisse nel quadro una specificità geografica, la storia finirebbe probabilmente per arenarsi in un ginepraio di potenziali fraintendimenti. Non si vuole commentare come si sta in un certo paese, arrivandoci da expat, o stabilire confronti tra la società di partenza e quella d’arrivo. Si fa dell’altro – e lo si fa con struggente e delicata precisione, pur mantenendo dei contorni sfumati. 
Il percorso di distacco e di creazione di un nucleo nuovo di affetti e punti di riferimento rompe gli equilibri, deforma il tempo e mette in discussione l’idea stessa di “casa”. Asya e Manu sono un microcosmo autosufficiente, ma sono solidi abbastanza da potersi permettere qualche ambizione. Vogliono pensare al domani, continuare a costruire qualcosa lì dove si trovano, ma sono anche avviluppati in una malinconia che li obbliga a non guardarsi indietro con leggerezza. Gli altri sono rimasti, perché noi non ci siamo riusciti? Ci incoraggiano e parlano di noi con orgoglio, ma non sarebbero più contenti se vivessimo al piano di sotto? Nemmeno un nipotino volete farci? Certo, lo vedremmo crescere come vedete invecchiare noi, da lontano, ma è comunque meglio del vuoto che avete lasciato. Non vi stiamo rimproverando, lo diciamo perché vi vogliamo bene…

Asya e Manu, insomma, sono sia disancorati che pronti a mettere radici in un terreno d’elezione e questo stato di sospensione li fa sentire trasparenti, ancora di passaggio. Osservano attentamente, prendono le misure – alle case che visitano come alle persone che incontrano. E studiano quel mondo nuovo come una minuscola squadra di rigorosissimi antropologi.
Che bel magoncino, signora mia. 

Niente, non mi sono accorta in tempo che prima di Long Island – in libreria per Einaudi con la traduzione di Giovanna Granato – c’era Brooklyn, sempre di Colm Tóibín, e sono partita con il sobborgo sbagliato ma, se proprio mi impegno e provo a far tesoro di questa svista, posso rivelarvi in serenità che sta in piedi anche per conto suo. Saranno gli amori che si sviluppano su strane strutture poligonali, probabilmente: partono sbilenchi, che sarà mai approcciarli a metà strada.

Il problema che qua si palesa all’istante è un signore incollerito che suona alla porta di casa per informare Eilis Lacey che lui, fra nove mesi, le scaricherà sullo zerbino un neonato. O una neonata, quel che è. A lui in ogni caso non interessa, perché non è roba sua. La moglie gravida sì, ma il padre della futura creatura è il marito di Eilis, idraulico italoamericano che in casa loro doveva aver trovato parecchio da fare. Eilis cade dal pero e, fra lo sbalordimento e una quieta collera, informa l’invadentissimo clan di Tony che non ha la minima intenzione di occuparsi della prole illegittima altrui. Lei i suoi figli li ha già cresciuti e per quell’amore ha già sacrificato radici e accumulato rimpianti. Anzi, sai che c’è? Visto che nessuno mi tratta come un essere umano degno d’ascolto o di rispetto io torno per un po’ a casa mia in Irlanda, che mia madre e mio fratello son due decenni che mi vedono solo in foto.

Al paesello d’origine, Eilis ritrova dinamiche che sembrano cristallizzate nel tempo, ma scopre anche che il mondo non sta di certo lì ad aspettarti. L’unico che, per quanto può saperne lei, non ha messo su casa ma si è limitato a gestire con successo un pub, è Jim, l’uomo che in gioventù l’aveva quasi convinta a non attraversare l’oceano per costruirsi una vita con Tony. 
Mi avrà dimenticata? Che effetto mi farà rivederlo? Ma possibile che sia ancora scapolo? E cosa diamine ci fa la mia antica migliore amica a gestire una friggitoria fetente? È troppo tardi per pensare che si possa ricominciare?

Tóibín imbastisce un polpettone sentimentale da manuale, lasciandosi sostenere anche dal fascino “vintage” dell’epopea dell’emigrazione, con nostalgie, distanze siderali che gridano NON TI PERDERÒ ANCORA e frizioni inevitabili tra luoghi d’origine e luoghi che si scelgono con grandi atti di fede ma che, forse, ci rigetteranno sempre. Le macchinazioni del cuore restano però ingovernabili e quel che di interessante c’è qui è l’innesto dell’amore in una realtà che si considera già consolidata, chiusa, definitiva. Tutti e tutte hanno un percorso, molto da perdere e un rigoglioso giardino di illusioni da coltivare, oltre a un ramificato sistema di responsabilità da amministrare. Il fatto che Tóibín non metta nessuno in una posizione “facile” e che non permetta a nessun cuore di straripare e di crederci troppo regala al romanzo una cruda franchezza che ci fa deporre i bandieroni del tifo in favore di interrogativi ben più tremendi e ricchi: ma io….. che cosa farei? Quanto stupida mi sentirei? Sto amando una persona reale o l’idea di possibilità che ancora riesce a farmi intravedere? Perché ci ostiniamo? Perché facciamo finta di non capire?
A peggiorare le cose, per i personaggi, c’è l’abile gestione di Tóibín delle asimmetrie informative: in un piccolo paese dove per strada ti fanno la radiografia, il sotterfugio è una scorciatoia per il quieto vivere, ma anche una comodissima e ragionevole scusa per non affrontare mai la realtà. Noi, leggendo, sappiamo e vediamo tutto… e possiamo scuotere il capo con una saggezza che mille volte avremmo voluto sfoggiare nella vita vera. Cosa combiniamo, invece? Dei gran casini. Come Eilis, Tony, Jim e la volenterosa vedova che frigge. Forse, sperando, si sbaglia sempre. Ma è in quei traballanti spiragli che combattiamo davvero per la felicità.

[Long Island si può serenamente leggere, ma lo trovate in versione audio anche su Storytel.]