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distopia

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Ani e Bianca si sono avvicinate per rendere più sopportabile il presente e per ricostruire un’idea di famiglia, in un posto dove si arriva spogliate di legami pregressi, identità e futuro. Sono raccoglitrici di sale, prigioniere di un gigantesco campo di lavoro in cui centinaia di altre donne “indesiderabili” (e pericolose per il rigido ordine pubblico del regime) si spaccano la schiena in un susseguirsi di giorni sempre uguali, guardate a vista da guardie armate e private di ogni prospettiva di fuga, cambiamento, libertà.
Fuori si sta peggio, si sentono ripetere. Qui almeno si mangia e abbiamo un tetto sopra la testa. Non siamo nessuno, ma siamo vive. E provvediamo all’approvvigionamento dell’unica risorsa energetica ancora disponibile… quale onore più grande può esistere? Rese inermi dalla fatica estrema e anestetizzate dalla paura, le donne del campo vivono in un limbo che cancella il tempo, piega la volontà e distorce la realtà… ma Ani e Bianca non hanno mai smesso di domandarsi cosa resti del mondo oltre i confini di quella prigione. E sarà la loro alleanza – sghemba come il loro modo di stare insieme, nonostante le differenze – a cambiare tutto e a spalancare nuovi scenari: si muore davvero quando si smette di sperare nella possibilità di cambiare le cose.

Non voglio spoilerare, perché meritate pure voi di godervi in santa pace i numerosissimi colpi di scena di Brucia la notte di Tiffany Vecchietti e Michela Monti – in libreria per Mondadori e in audiolibro su Storytel. Qualche tema lo nominerei, però.
Ci sono ragazze guerriere, ragazze rancorose, ragazze potenti e ragazze che si organizzano in nuovi modi antichissimi. Ragazze sradicate che resistono e provano a ripartire da un’idea di collettività che cerca di tornare umana, amica delle differenze e attraversata da prodigi insperati. C’è un’Italia “alternativa” e un’Italia leggendaria e mistica. È una storia che indaga il potere del pensiero – e la relazione ambivalente tra pensiero, autorità e comunità. È una storia di rivoluzione e di quanto “costa” credere in un’idea – o accettare quel che c’è scegliendo il silenzio. Che Bianca non stia mai zitta non è una coincidenza… e che Ani dica invece così poco – ma veda moltissimo – nemmeno. Spero le accompagnerete nel viaggio. Sarà lungo e difficile… ma tra strighe bisogna darsi una mano.

Libri pazzi, eccoci!
La torre di Bae Myung-Hoon – in libreria per Add Editore con la traduzione di Lia Iovenitti – è una raccolta di racconti ambientati tutti nello stesso posto: un edificio-stato che contiene mezzo milione di persone distribuite su più di 600 piani. Si chiama Beanstalk – strizzando l’occhio al Fagiolo Magico per la sua vocazione a svettare verticalmente – e, oltre a spiccare per scarsa propensione alla pacifica coesistenza coi paesi vicini (che sono “estero” anche se occupano l’isolato limitrofo), è un concentrato di conflitti pronti a deflagrare. Dietro alla facciata dell’utopia armoniosa, infatti, si spalanca una voragine di disparità, privilegi, magheggi e intrallazzi, dal lavoro alla politica, dall’economia alla ricerca. É una sorta di esperimento densissimo di coabitazione in presenza di risorse scarse, ma anche una satira rivolta alle società “avanzate”, che molto spesso cercano di nascondere le loro disumanità fondative.

I racconti cercano di illuminare le diverse facce del complesso intreccio di soldi, influenza e potere che animano i rapporti nella Torre. Dalla speculazione immobiliare agli arcigni sistemi di difesa che puntano a isolare lo stato-edificio dal resto del mondo, tutto alla Beanstalk è rigidamente normato. La fobia del caos, del disordine e dell’”invasione” è lo specchio di un disperato tentativo di scoraggiare ascese impreviste, in un finto sistema meritocratico che vende sogni ma ben poco solide realtà. Tutti vogliono guadagnarsi un posto alla Beanstalk, ma ne vale davvero la pena? Non occorre una particolare immaginazione per applicare la medesima domanda ai contesti che popoliamo anche noi, tra cinismo difensivo, autentica rabbia sociale, furbi espedienti e maldestri tentativi d’auto-convincimento.

La torre mi è garbato per l’idea e la struttura “episodica”, ma forse meno per l’effettiva esecuzione. È un’edizione rivista rispetto alla prima edizione di una decina d’anni fa – tradotta direttamente dal coreano, senza lingue-ponte come spesso in tempi recenti è capitato – e regge alla prova dell’attualità geopolitica, per quanto i racconti risultino molto enfatici, un po’ sbalestrati e qua e là fin troppo ingarbugliati. I problemi di “tono”, però, credo dipendano in larga parte dal mio orecchio poco allenato. Ballard concorrente di Squid Game? Forse un po’ sì.

Mi sono resa conto che le listine vi garbano. E anche a me non urtano particolarmente, anzi. Mi impongono un certo sforzo di sintesi che le rende forse più fruibili rispetto alle mie consuete lenzuolate. Ciò detto, ecco qua quattro libri (tre romanzi e un saggio “sentimentale”) che ho apprezzato in questo periodo. Sono scompagnatissimi fra loro, ma non mi pare uno svantaggio. Ci sarà (potenzialmente) qualcosa di bello per tutti. O almeno spero.
Procedo con celerità.

***

M. T. Anderson
Paesaggio con mano invisibile
(Rizzoli)
Traduzione di B. Capatti

Un adolescente racconta le trasformazioni della società statunitense dopo lo sbarco sul nostro pianeta di una specie aliena. I vuuv sono esseri tozzi e sgraziati, dotati di una tecnologia capace di renderli quasi onnipotenti. Il loro arrivo determina il collasso dell’economia terrestre, che si riconverte alle esigenze produttive vuuv, distruggendo di fatto il tessuto delle comunità umane e generando una disparità siderale tra i ricchi – quelli più vicini agli alieni – e i poveri – tutti gli altri. Il romanzo è costruito “a dipinti”: Adam, infatti, è un artista, ed è attraverso i suoi quadri, i suoi disegni a carboncino e i suoi schizzi che ci ritroviamo progressivamente immersi in un mondo nuovo, dove la schiavitù è una realtà e anche i sentimenti possono diventare materiale di simulazione.
Un romanzo stranissimo e crudo, una piccola storia fantascientifica di ribellione, di disperazione e di lotta per preservare il bene più prezioso che possediamo: la dignità (nonostante le conseguenze invalidanti dei virus intestinali cronici).

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Paolo Giordano
Divorare il cielo
(Einaudi)

Dunque, è il primo romanzo di Giordano che leggo. Perché, mio malgrado, soffro della sindrome del lettore rompicoglioni: se una roba la leggono tutti ne diffido automaticamente. Molto spesso ci prendo, altre volte mi perdo qualcosa di bello. Ecco, a questo giro mi sono sforzata di zittire la vocetta da lettrice rompicoglioni e ho deciso di provare a fare amicizia con Giordano. Non ho idea di come siano gli altri suoi libri, ma Divorare il cielo è un polpettone che ti fa venire voglia di vedere come va a finire. La vicenda ruota attorno a un quadrangolo amoroso – esisterà il “quadrangolo amoroso”? Chi può saperlo – dalle radici adolescenziali e dagli sviluppi devastanti. Teresa, di anni quindici e rotti, passa tutte le estati a Speziale dalla nonna, in Puglia. Una notte si ritrova in piscina tre bagnanti clandestini. Li guarda dalla finestra – mentre vengono scacciati senza molti riguardi dal padre e dal tuttofare della villa – e, anche se non può ancora sospettarlo, continuerà a guardarli per i due decenni successivi (o quasi), finendo anche per trasformarsi nel loro occhio del ciclone, il punto verso cui tutti e tre convergono, si scontrano, gravitano e si aggrovigliano, pur da distanze e con intensità variabili. I tre – Bern, Nicola e Tommaso – sono fratelli a tutti gli effetti, anche se il sangue non li lega. Vivono tutti quanti alla masseria confinante con la villa di Teresa, in una sorta di famiglia allargata capeggiata da un benevolo ma complicato figuro che legge loro la Bibbia, organizza funerali per i passerotti stecchiti, elogia le virtù del sano lavoro manuale e professa la reincarnazione. Che cosa potrà mai andare storto? Parecchio. Ma tante tribolazioni saranno comunque punteggiate da nitidissimi momenti di felicità, perdizione, speranza e gioia.
Nonostante tutto l’impianto del romanzo dipenda dalla quasi totale incapacità di Teresa di comprendere con esattezza che cosa le stia succedendo – o di interpretare i tormenti altrui -, l’intreccio dei piani temporali funziona molto bene e, nonostante certi episodi siano un po’ “iperbolici” per i miei gusti – e pure un po’ WTF -, il lavoro di scavo psicologico sui personaggi è davvero riuscitissimo. Insomma, mi sembra di aver trovato il modo di apprezzare Giordano. O almeno questo libro. Vittoria!

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Rossella Milone
Cattiva
(Einaudi)

Quanti romanzi e/o opere di assortita non-fiction ci sono sulla maternità? Millemila. Quanti di questi libri sono prescindibilissimi, stucchevoli e anche un po’ fastidiosi, con quella loro patina forzata di GUARDAMI SONO UNA MAMMA PASTICCIONA TI RACCONTO COME FUNZIONANO LE COSE CON ARGUZIA E CORROBORANTE DISINCANTO SONO CERTA CHE TROVERAI I MIEI GUAI TANTO CONFORTANTI E ALLEGRAMENTE SCANZONATI? Quasi tutti. Ecco, è raro imbattersi in una narrazione materna come quella della Milone. E mi sento di ringraziarla, sul serio. È un libro che si legge in un paio d’ore, ma che riesce a filtrare in maniera potentissima nelle pieghe dei ricordi (spesso freschi) di chi ha più o meno recentemente vissuto l’esperienza della nascita di un figlio. È il primo libro di questo “filone” che mi sembra voglia prendere sul serio le mamme, riconsegnandoci – con una lingua bellissima – quei momenti di profonda gioia e di profonda difficoltà che fanno parte dell’universo nuovo che ci troviamo ad attraversare insieme ai nostri bambini, senza sapere bene come si fa. È una storia di istinti confliggenti ma, soprattutto, di correnti sotterranee che ti trascinano lontano e di piccole ancore – che sembrano non fare altro che mangiare, piangere e riempire pannolini di roba immonda – che hanno immancabilmente il potere di restituirti il cuore.

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Giorgio Amitrano
IRO IRO
(DeA Planeta)

Giorgio Amitrano è un’istituzione. Accademico e traduttore “ufficiale” per l’Italia dei più grandi narratori giapponesi, è da tempo immemore un vero punto di riferimento per chi si occupa di cultura nipponica, dalla letteratura all’intrattenimento. IRO IRO è il suo primo saggio – di taglio gioiosamente autobiografico – sul Giappone. È un testo “colto” ma lontano dai toni specialistici, un ordinato divagare che tocca i nodi salienti della società, della storia e dell’impianto “visivo-filosofico” giapponese reinterpretandoli con la sensibilità di chi ha fatto di quel paese materia di studio e di fascinazione perenne. Dall’arte della calligrafia al karaoke, Amitrano ci fa da guida in uno splendido puzzle di suggestioni letterarie, artistiche e cinematografiche – rigorosamente raccolte nella bibliografia finale -, consegnandoci un diario di bordo in cui i ciliegi in fiore convivono con i robottoni e gli haiku spuntano come isolette fra le pagine di Murakami. Delizioso.