Tag

diavolo

Browsing

Una ragazza dagli occhi grandi abita con sua madre e un gatto in una casupola ai margini di un villaggio dell’Essex. Sono sole e non dispongono di un’indole molto malleabile. Vivono di ricami e rammendi e governano le quattro bestie in croce che possono mantenere sul loro fazzoletto di terra. La madre è altissima e irascibile, una virago che beve birra e non te la manda a dire. La figlia è innamorata dello scrivano che le sta insegnando a leggere le Scritture e ogni mattina porta una scodella di porridge a una vedova decrepita con una gamba di legno che nessuno vuole frequentare – ma che si interpella volentieri quando c’è bisogno di un prodigio.È il 1643, c’è miseria, gli uomini del re e i sostenitori del parlamento si ammazzano a vicenda, Dio latita ma il Demonio è ovunque e, aguzzando la vista, lo si può scovare anche a Manningtree. Basta interpretare i segni, dar seguito alle maldicenze, indagare i corpi con un pungolo rovente… mentre i poveri si contendono stracci e avanzi, un uomo pio arriva in città per diventare il Grande Inquisitore d’Inghilterra. Chi salverà  l’anima di chi si preoccupa delle anime altrui?

Le streghe di Manningtree di A. K. Blakemore – in libreria per Fazi – è la storia corale di un processo per stregoneria. La voce principale è quella di Rebecca West, figlia della più bellicosa tra le “donne” della contea e unica a mostrarci un punto di contatto con l’universo quasi ermetico – e di certo dotato di una maggiore autorità fattuale – degli uomini.
Il libro parte da una descrizione della quotidianità che precede l’arrivo di Hopkins – l’uomo timorato, il puritano che fa della caccia alle servitrici del Diavolo una missione e un vero e proprio lavoro – e ripercorre con raro dettaglio l’iter canonico di un’accusa di stregoneria. È una rielaborazione romanzesca che si basa però su fatti reali: Hopkins è esistito davvero e in un biennio d’attività fervente ha contribuito a far condannare a morte decine di donne (le stime documentate sono incerte, ci attestiamo tra le 100 e le 300). Al di là dei danni (pur notevoli) prodotti da un singolo invasato, però, l’esordio narrativo di Blakemore offre un vasto spaccato collettivo e indaga in filigrana le cause profonde dell’accanimento e del fanatismi.

Cosa occorre per trasformare una donna in una strega?
Qual è l’origine dei focolai di fervore accusatorio che culminano in torture, reclusioni disumane e disinvolte impiccagioni?
Arginare l’empietà per guadagnarsi il regno dei cieli è un “movente” sincero o è piuttosto un puro pretesto per levare di mezzo soggetti indesiderabili, scomodi, devianti?
Si parla di Dio o si parla di soldi?
A chi conviene ammazzare le streghe?
In quale vuoto di potere e in quale deserto identitario può attecchire il carisma sinistro di un inquisitore?
Blakemore individua in Manningtree il luogo adatto per rispondere narrativamente a questi interrogativi, riuscendo a buttare nel suo capiente e suggestivo calderone storia, finzione e sottotesti culturali.

La scrittura è splendida – e un applauso va a Velia Februari per la traduzione, dev’essere stato un lavoraccio infame – e conferma la mia teoria: Blakemore arriva dalla poesia e quando chi scrive poesie vira sulla narrazione il risultato è sorprendente. È un libro crudo e lirico, fatto di voci grezze e santissimi proclami. C’è una natura sapiente e ci sono i pidocchi, c’è il torbido in cui le anime nobili sguazzano con compiacimento e c’è la furbizia spiccia di chi non ha mai il coltello dalla parte del manico. Ci sono anatemi e confessioni estorte, verità di comodo e follie simulate. È una storia che fa male alle ossa, come quando cambia il tempo e tornano a galla le memorie di vecchi strappi, di fratture rimaste sghembe. Il tempo è passato e la ragione ha illuminato le tenebre della superstizione, ma sono dolori che avvertiamo comunque, perché le ossa delle streghe son state le nostre… e forse lo sono ancora.

Dunque, Veronica e il diavolo – in libreria per Einaudi – si avvale dell’antico ma sempre fascinoso espediente del manoscritto ritrovato… ma in questo caso il manoscritto è reale e arriva dall’Archivio Generale della Compagnia di Gesù a Roma. Che cos’è? È una sorta di “dossier” eterogeneo che ricostruisce l’esorcismo di una giovane donna attraverso le annotazioni quotidiane dei padri chiamati a liberarla dal maligno. Nello scartafaccio si imbatte quasi per caso – o per destino? – Fernanda Alfieri che, da storica dotata di penna suggestiva e grande visione narrativa, decide di indagare più a fondo e di cercare di restituire voce, contesto e dignità almeno fattuale a Veronica Hamerani, l’ossessa di via di Sant’Anna. Ogni capitolo si apre con un brano del “dossier” degli esorcisti e, da lì, Alfieri si imbarca in uno sconfinato lavoro di verifica dei fatti, ricostruzione dei precedenti, identificazione dei protagonisti e inquadramento degli eventi in un più ampio contesto culturale e storico.

Il risultato è un’opera ibrida, splendidamente ricca, eclettica e umanissima. Dalle peripezie biografiche dei gesuiti a cui toccò l’ingrato compito di fronteggiare il demonio in una casa romana si passa alla storia “globale” del loro ordine, dal mestiere degli Hamerani – incisori di monete e icone – si arriva a inquadrare la salute dell’istituzione papale nel 1835, dalla teoria della bile nera si approda allo stato della medicina del tempo – e a come anche lì ci venisse attribuita una strutturale inferiorità uterina da amministrare e blandire. Dalla politica alla fisiologia, dalla religione alla superstizione, Veronica diventa una sorta di campo di battaglia metaforico, il centro di gravità di un’intera concezione del mondo.

Non immaginatevi un esorcismo da “cinema”. Il diavolo di Veronica si avvale di pochi effetti speciali e di ottimi moccoli in romanesco. È burino e canzonatore, il grillo – libero – per la testa di una ragazza cresciuta in un contesto di luttuoso declino e miracoli caserecci, un limbo in cui la fede sconfina nella superstizione o nella ritualità pervasiva assimilata come automatismo.
Veronica non ha voce in capitolo, ma forse è il suo diavolo a parlare per lei, mentre una pletora di uomini (variamente castigati nella carne e votati alla castità) si avvicenda nella sua stanza per ridimensionare i suoi eccessi e ricondurla nel solco del concepibile, dell’appropriato e del controllabile, per decidere se è matta, impostora o pia martire perseguitata, per ristabilire il dominio della chiesa sulle sue greggi.
Veronica è muta, è la protagonista più tangenziale di sempre… e Alfieri – che con i comprimari che circondano Veronica edifica legittimamente un impianto storico magnifico – lo riconosce e lo evidenzia. Alfieri ci restituisce Veronica rispettandone la marginalità, perché è una marginalità emblematica, che comunica cosa doveva voler dire essere una Veonica nel 1835 molto meglio di come un qualsiasi demonio di passaggio – magari anche uno colto quanto Padre Manera – avrebbe mai potuto fare. Perché il problema, al tempo e forse anche un po’ adesso, è trovare qualcuno che ascolti…