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Daria Bignardi

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Partirei con un piccolo cappello introduttivo da ascoltatrice dell’audiolibro – se vi interessa sentirlo, lo trovate su Storytel.
Ho scoperto che i suoni che appartengono alla vasta famiglia ASMR risultano più gradevoli ed “efficaci” in base alla struttura del cervello dei potenziali riceventi. Io, per dire, non traggo giovamento alcuno dall’ASMR – anzi, mi fa venire il nervoso -, ma mi sintonizzo a meraviglia sull’onda sonora di Daria Bignardi che legge le sue cose. Sto gradualmente ascoltando tutto quello che trovo di suo perché, oltre a garbarmi mediamente molto quello che scrive, la trovo piacevolissima da sentire. Calma, calorosa, pacata ma non pallosa, lieve e garbata. Così, ci tenevo a sottolinearlo perché sono convintissima che il “successo” di un audiolibro dipenda anche da chi lo legge e da come lo si legge. 

L’evento cardine, in Non vi lascerò orfani, è la scomparsa della madre. Una morte meticolosamente ripercorsa che serve però da spunto per un allargamento dell’orizzonte – e forse anche della prospettiva e dei punti di riferimento, muovendosi nel territorio accidentato dei legami più stretti, di quell’ingombranza difficile (e qualche volta felice) che si portano dietro i vincoli di famiglia.
Nella perdita, Bignardi si scopre parte di un vorticoso sistema solare di relazioni, parentele e storie, attitudini disparatissime e conflittuali, ansie tentacolari e invadenze che non sempre si son potute interpretare come sani impulsi di protezione. C’era già tutto, chiaramente, ma per mettersi a raccontarlo serve talvolta una cesura netta, un evento rivelatorio, una vita “importante” che tramonta, lasciandoci a gestire quel che rimane.
Permettendo alla perdita di attraversarla, Bignardi tratteggia il paesaggio quotidiano della sua condizione di “figlia”: un lessico famigliare divertito e malinconico, che la distanza e una fisiologica pulsione d’indipendenza hanno saputo rendere meno intransigente.
Si può ricordare “bene” una madre accogliendone i limiti, tenendoci vicino tutte le difficoltà che ci ha buttato addosso perché non sapeva fare diversamente. Si cresce grazie a una serie di rinforzi positivi, sembra dirci questa storia, ma si cresce anche in opposizione a quello che ci è stato riservato. Ma si cresce, nostro malgrado. E, qualche volta, lo sguardo che va affinandosi nel tempo ci permette un’indulgenza che non sospettavamo di possedere – e che ci fa bene, nonostante quello che si è passato insieme.

 

Libri che mi hanno rovinato la vita è uscito questa settimana e, su Twitter, è partito un piccolo esperimento collettivo di raccolta dei libri che hanno in qualche modo rovinato anche le nostre, di vite. Così a occhio, son venuti fuori molti libri che classificheremmo come “tristi”. Anch’io, d’istinto, ho risposto con dei libri zavorrati da una potente mestizia di fondo o con dei romanzi che vanno a finire male. Che ne so, Quel che resta del giorno, Non lasciarmi, La strada, Il transito di Venere. Qua e là è spuntata spesso anche Hanya Yanagihara, nostra signora imperitura del trauma e del campare male.
Leggendo effettivamente quel che scrive Daria Bignardi, però, mi è sembrato di tornare alle superiori, alle tracce dei compiti in classe di italiano che sono riuscita ad assecondare solo parzialmente. Poi non è detto che uscissero dei brutti temi, ma di sicuro non erano dei temi granché centrati. In quelle circostanze lì me la cavavo anche bene, perché la prendevo talmente larga e buttavo talmente tanta roba nel calderone che alla fine davo comunque l’impressione di aver capito qualcosa – di preciso non si sa cosa, ma almeno facevo volume.

Ecco, Bignardi rompe (non senza allegria) il solido nesso causale, forse inconscio e sicuramente assai condivisibile, tra libro triste e libro che t’azzoppa o ti segna eternamente. Ci fa l’immensa cortesia di complicare le cose, di esplorare l’intersezione che si crea tra chi siamo in un determinato momento nel tempo e cosa leggiamo in quel momento nel tempo. Ci ricorda che molto spesso sono gli incontri accidentali – con un libro pescato per caso e senza programmaticità dallo scaffale di una sorella, ad esempio – a contenere un vasto potenziale rivelatorio. Ci sono romanzi che diventano destino, che scatenano quel riconoscimento che non sta solo nello scovare un personaggio a cui più o meno stanno capitando le nostre stesse brutture o gioie. Riconoscersi aiuta a partecipare? Penso di sì, ma anche quello dipende da chi siamo quando leggiamo. A rovinarci la vita può essere anche un romanzo che ci mostra un’allegria che sentiamo di non poter sprigionare o un personaggio che riesce a fare tutto quello che a noi costa una fatica strutturale. Ci rovinano la vita sia i legami spezzati che i cerchi che si chiudono fin troppo bene, la gente interessante e misteriosa che ci ricorda la nostra scarsa originalità, chi parte in smaccato vantaggio o chi ci fa venire il nervoso perché gliene capitano troppe. Quel che ci fa male non ci fa male in uno spazio vuoto, atterra col suo bagaglio di potenziali conseguenze in un territorio che possiede già un suo paesaggio di baratri terrificanti, radure idilliache e torrentelli vivaci. E come cambiano i paesaggi, nel corso del tempo cambiamo anche noi. Libri che mi hanno rovinato la vita, rende giustizia a questo processo di erosione e rinnovamento, collocando quel che leggiamo nel nostro tempo. È un po’ come sfogliare un album di ricordi, riconoscendo chi eravamo alla luce di quel che sappiamo oggi, facendoci aiutare dai libri che per una ragione o per l’altra sono stati rilevanti – e spesso motore di ripensamento, ombra e ferite.

Non so che rapporto abbiate voi con le vostre versioni passate. Io sono poco indulgente. Mi perdono poco e non mi osservo con grande tenerezza. Potrei cambiare idea, mappandomi coi miei libri importanti? Potrei scoprire che in fondo non ero così male? Intravedere progressi? Quel che ho trovato di bello in quest’esplorazione letteraria e interiore è anche l’allontanamento dalla pretesa che la lettura debba per forza insegnare qualcosa di utile e spendibile, o impartire una lezione che possa migliorarci. Bignardi ricorda chi è stata e dove è approdata principalmente attraverso tre grandi “demoni” letterari – Djuna Barnes, Sologub e Nietzsche -, concedendosi il lusso del mutamento, dalla contemplazione di uno scoglio superato. Mi pare gentile con le sue versioni passate… e non perché il tempo abbia cancellato i dolori, ma perché col tempo è possibile imparare ad addomesticarli, a vederceli addosso con franchezza, ironia e indulgenza. Che grande regalo sono i libri che ci rivelano accidentalmente qualcosa di noi, ma che regalo ancora più grande è la possibilità di girare pagina, cambiare forma, cambiare idea.