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Corea del Sud

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Allora, La vegetariana è l’unica altra esperienza che ho accumulato su Han Kang – che ha vinto il Nobel per la letteratura nel 2024, memo che mi pare superfluo ma per completezza e ambizioni di precisettismo diciamolo comunque. Convalescenza – tradotto da Milena Zemira Ciccimarra per Adelphi – è un volumino fulmineo fatto di due storie indipendenti, che si accostano però bene a quel poco che ho già incontrato. C’è un modo peculiare, mi sembra, di far comunicare la sofferenza dello spirito con la trasformazione del corpo. 

Il primo racconto è un limbo in cui il lutto si intreccia al rimpianto – due sorelle si allontanano e perdono la capacità di esistere l’una per l’altra -, anche se in superficie ci sembra di dover seguire la storia di una bruciatura sulla caviglia che degenera in una schifezza potenzialmente pericolosa.
Nel secondo racconto ci sono due persone che si sposano pur restando solitarie ed estranee, finché lei – che non voleva mettere radici da nessuna parte e si sente tremendamente oppressa, soffocata, respinta e disorientata dal trantran del mondo “normale” – si trasforma in una pianta. Sì, pure qua c’è una donna-vegetale.

Il corpo, caso per caso, si rompe o si modifica per assecondare un dolore che fisico non è, ma è solo attraversando quella parentesi di mutamento o di sofferenza materialissima che si trova una via di fuga o si verifica un cambiamento. Per quel poco che so della cultura sudcoreana – che così tanto mi pare insista sulla regolarità estetica, sui canoni codificati del decoro e sulla cura dell’involucro -, delle donne che si lasciano marcire le caviglie o rifiutano in toto la forma umana per dare visibilità e carne a una ferita esistenziale è curioso, ma anche molto chiaro, estremamente ragionevole. È una forma di ribellione che si consuma nel perimetro piccolissimo del corpo individuale e che non ha conseguenze macroscopiche o collettive, ma fa di questa caparbia passività una manifestazione radicale. I personaggi stessi la subiscono come una specie di destino e non sembrano sceglierla deliberatamente… ma quando arriva se la tengono stretta e, a modo loro, prendono la porta e vanno.

Libri pazzi, eccoci!
La torre di Bae Myung-Hoon – in libreria per Add Editore con la traduzione di Lia Iovenitti – è una raccolta di racconti ambientati tutti nello stesso posto: un edificio-stato che contiene mezzo milione di persone distribuite su più di 600 piani. Si chiama Beanstalk – strizzando l’occhio al Fagiolo Magico per la sua vocazione a svettare verticalmente – e, oltre a spiccare per scarsa propensione alla pacifica coesistenza coi paesi vicini (che sono “estero” anche se occupano l’isolato limitrofo), è un concentrato di conflitti pronti a deflagrare. Dietro alla facciata dell’utopia armoniosa, infatti, si spalanca una voragine di disparità, privilegi, magheggi e intrallazzi, dal lavoro alla politica, dall’economia alla ricerca. É una sorta di esperimento densissimo di coabitazione in presenza di risorse scarse, ma anche una satira rivolta alle società “avanzate”, che molto spesso cercano di nascondere le loro disumanità fondative.

I racconti cercano di illuminare le diverse facce del complesso intreccio di soldi, influenza e potere che animano i rapporti nella Torre. Dalla speculazione immobiliare agli arcigni sistemi di difesa che puntano a isolare lo stato-edificio dal resto del mondo, tutto alla Beanstalk è rigidamente normato. La fobia del caos, del disordine e dell’”invasione” è lo specchio di un disperato tentativo di scoraggiare ascese impreviste, in un finto sistema meritocratico che vende sogni ma ben poco solide realtà. Tutti vogliono guadagnarsi un posto alla Beanstalk, ma ne vale davvero la pena? Non occorre una particolare immaginazione per applicare la medesima domanda ai contesti che popoliamo anche noi, tra cinismo difensivo, autentica rabbia sociale, furbi espedienti e maldestri tentativi d’auto-convincimento.

La torre mi è garbato per l’idea e la struttura “episodica”, ma forse meno per l’effettiva esecuzione. È un’edizione rivista rispetto alla prima edizione di una decina d’anni fa – tradotta direttamente dal coreano, senza lingue-ponte come spesso in tempi recenti è capitato – e regge alla prova dell’attualità geopolitica, per quanto i racconti risultino molto enfatici, un po’ sbalestrati e qua e là fin troppo ingarbugliati. I problemi di “tono”, però, credo dipendano in larga parte dal mio orecchio poco allenato. Ballard concorrente di Squid Game? Forse un po’ sì.