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Utilizziamo, tutti i giorni, strumenti di cui non comprendiamo il funzionamento. Anzi, strumenti che imbrigliano e sintetizzano una sterminata serie di “competenze” che non possediamo come singoli e che, in generale, non sapremmo mai riassemblare per conto nostro. Noi badiamo all’effetto tangibile e al servizio che queste “cose” ci rendono, al problema che ci risolvono o a quello che ci permettono di fare, ma non abbiamo una reale presa sulle architetture che sorreggono le molte tecnologie del nostro quotidiano, tanto per circoscrivere la questione al più immediato degli ambiti. La luce si accende anche se non abbiamo partecipato al processo scientifico di infinite ipotesi, prove sperimentali, errori e accumulo di conoscenze incrementali che è servito a farci pigiare l’interruttore attendendoci un effetto preciso. Quel che conta è appropriarci di un risultato, ma quel che lega cause ed effetti diventa terra incognita e misteriosa, parentesi di prodigio invisibile. Il “come” non ci riguarda più, se affidandoci a un determinato strumento otteniamo quel che ci occorre – e per affidarsi bisogna credere.

Quando leggo Chiara Valerio mi sento quasi sempre una cretina, ma è un esercizio che mi giova immensamente. Con La tecnologia è religione, come aveva già fatto nella sua Vela precedente – La matematica è politica -, Valerio mette in relazione due vastità concettuali all’apparenza disgiunte per farle collimare nello spazio d’azione del nostro presente. Non solo finisce per raccontarci cosa c’è in quelle vastità concettuali lì, ma parla di noi e di cosa siamo collettivamente diventati, di come pensiamo e di come ogni forma di sapere – quelli “scientifici” in primis, sempre che abbia senso compartimentarli – esprima una posizione etica e sociale, la bussola del chi siamo.

Qua si parla di Spiderman, di pupazzi che riteniamo dotati di anima, di programmazione, di percorsi scolastici svuotati di senso, di metodo scientifico, curiosità, telecomandi, nonne, miracoli e danze della pioggia. Se ne parla perché quel che sappiamo è spesso un “sappiamo usare” e perché abbiamo bisogno di produrre fede, cambiandone man mano la destinazione. Si tratta, forse e soprattutto, di domandarci che cos’è che abbiamo capito… e di venire a patti coi nostri inevitabili limiti strutturali. Ed ecco perché è splendido e utile che Chiara Valerio mi faccia sentire scema, senza però mai togliermi fiducia nel futuro.