Tag

complotto

Browsing

Che gioia, arrivano le vacanze! Leggerò un sacco! Ho programmi ambiziosissimi! Nulla turberà la mia pace e scalfirà i miei propositi!
E invece niente.
Nella vita sì, ci son stati periodi di ferie in cui sono riuscita a godermi romanzoni di ogni tipo, ma quest’anno mi sono un po’ inchiodata. E che accade quando mi inchiodo? Cerco di divertirmi, tendo a lanciarmi in esperimenti strampalati e assecondo incontri fortuiti. Con Cinque lame spezzate di Mai Corland sono un po’ in anticipo sull’uscita italiana, ma conto che questi pensierini torneranno buoni fra poco e potranno accompagnare chi vorrà cimentarsi. Ho visto spuntare l’edizione in inglese – Five Broken Blades – dallo zaino dell’ufficio del mio consorte e l’ho immediatamente assalito con OH MA GUARDA IL TAGLIO COLORE MA CHE ROBA BAROCCA MA COS’È MA DA DOVE VIENE MA COSA SUCCEDE MA LO FAI TE. Ebbene sì, lo fa lui. Esce a fine gennaio per Magazzini Salani – con la traduzione di Benedetta Gallo.
L’ho letto subito? Già.
Farò spoiler? Giammai.

Quel che occorre sapere è che il re di Yusan è spietato e immortale. La sua dinastia ha riunificato il regno servendosi di reliquie prodigiose di un antico imperatore dragonesco – non ci sono draghi in circolazione, però, possiamo tirare un sospiro di sollievo – e ha sempre governato col pugno di ferro, un acuto disprezzo per il popolino e una sempre corroborante spolverata di misoginia. Cinque lame spezzate è la cronaca di una complicata macchinazione che dovrebbe portare al cruento assassinio del re. Chi sono i mandanti? Dipende. Che vogliono guadagnarci? Dipende. È possibile uccidere un re immortale? Dipende.
In questo vasto cumulo di variabili aleatorie, Corland spedisce all’avventura una specie di Suicide Squad che, dai quattro angoli del mondo conosciuto, cercherà di convergere verso un obiettivo condiviso. C’è un miscuglio interessante di talenti, potenziali leve di vendetta e opportune capacità, perché abbiamo un principe esiliato, una ladra, un picchiatore a cottimo, una spia di palazzo, un nobile rampollo e una bellissima assassina velenosa – letteralmente. I volenterosi congiurati procedono a coppie e, ovviamente, coltivano obiettivi segreti, si nascondono a ripetizione informazioni vitali, tramano, trucidano e brigano. Ma imparano anche a conoscersi, esplorano antiche relazioni, si amano, si guardano le spalle a vicenda e costruiscono nuove alleanze.

Come fila? Fila via bene, perché Corland ha preso un’ottima decisione: ogni capitolo è affidato a un punto di vista diverso. Non ci sono miracoli di tono – a parte un paio di casi, infatti, il registro non viaggia su uno spettro che rispecchia la varietà dei personaggi – ma è sfizioso che la storia proceda offrendoci a turno uno spiraglio sulle motivazioni segrete e sui sentimenti dei membri del gruppo. Chi legge ha un quadro della situazione decisamente più sfaccettato rispetto a chi fa parte della brigata e il finale è buono, perché tende a sorprendere sia loro che stanno dentro al romanzo che voi che state fuori per i fatti vostri. 

A cosa somiglia? Come in questi casi, forse a tutto e forse a niente.
L’ambientazione è un grande collage di suggestioni diverse, perché diversi sono i luoghi di provenienza dello sgangherato manipolo e perché Corland – nata a Seoul ma statunitense d’adozione – ha deciso di attingere a leggende e folklori con fluidità e contaminazioni, evitando approcci monolitici.
L’aspetto romance non è prioritario o particolarmente invasivo – anche perché poter disporre delle “sottotrame” di un ventaglio non minuscolo di personaggi vivacizza la faccenda. C’è il mistero, c’è la politica, ci sono terrificanti relazioni di potere e a ognuno viene assegnata una motivazione credibile – ci si pesta su parecchio ogni volta che cambia il punto di vista, ma almeno non ci disorientiamo.
Le sequenze di spavalda azione – per quanto Corland cerchi sempre di trasformarle in occasioni di avanzamento o cambiamento relazionale – mi son sembrate l’aspetto più deboluccio, ma è anche vero che l’azione tende a non convincermi quasi mai. Datemi due mesi di rogne di palazzo e sarò felicissima di risparmiarmi briganti lungo la strada, trappole e PUGNI NELLE MANI.

Mi sono sentita intrattenuta? Certo. E attendo con trepidazione l’inevitabile (e forse inesorabile) seconda puntata.

tegamini firenze cavalli nettuno

Io e Amore del Cuore siamo specializzati nei viaggi con difficoltà climatiche.  Dobbiamo andare a Oslo? Andiamoci a dicembre, che c’è un freddo polare e viene buio alle 14.38. Un weekend a Praga? Va benissimo, ma solo con un’alluvione in corso. Berlino? Fantastico, c’è addirittura una bufera di neve! Saliamo in cima a una torre nella ridente città di Lucca? Perfetto, ma aspettiamo un attimo, che questo qui non mi sembra mica un temporale serio. Miami? Rigorosamente ad agosto, con 50 gradi e un’umidità tipo passato di verdura.
Dopo tutte quelle intemperie lì, un giro a Firenze per il ponte del primo maggio ci sembrava assolutamente innocuo, da un punto di vista puramente meteorologico. Perbacco, in Toscana a maggio, cosa mai potrà capitarci? E invece no. Rovesci furibondi, vento, pozzanghere d’ogni foggia e dimensione. E noi là in mezzo, a combattere il monsone con un ombrellino rosa. Ma c’è un altro ma. Perché il problema della pioggia, quando decide di abbattersi su una città d’arte, è quello che fa alle persone.
Perché il turista non reagisce alla pioggia in modo normale. Il turista non gestisce le precipitazioni come fa a casa sua. Il turista non si accontenta di un ombrello, ma manco per niente. Il turista vuole il PONCHO DI PLASTICA FOSFORESCENTE.
Divinità celesti, ma perché!
Io vivo a Milano. Si mette a piovere? Pazienza, affronto Milano con un ombrello. Non dico che prendere dell’acqua mi faccia piacere – e magari un po’ di spray impermeabilizzante in più (fantomatico prodotto-placebo) ce lo potevo pure spruzzare, sui miei fragilissimi stivalini scamosciati di Twin Set con gli strass e i cuoretti belli -, ma non è che rincoglionisco di botto. Non rincorro un venditore ambulante, implorandolo di darmi un assurdo poncho fruscioso e svolazzante da esibire con fierezza mentre faccio la coda agli Uffizi, sgocciolando orrendamente addosso alla gente normale.
Nessuno a casa sua si riparerebbe mai dalla pioggia con un poncho, ma zero. Amore del Cuore ne ha uno nero per le emergenze da motorino,  ma spesso – pur di non perdere la dignità – preferisce infradiciarsi e ciao. E ha ragione lui, diamine.
La gente in vacanza perde il lume della ragione
. Madri di famiglia che pensano di dover scalare l’Annapurna e attraversano centri storici assolutamente innocui e civilizzati indossando tragici total-look Decathlon da campeggio amazzonico. Coi coltelli in tasca e una retina per le noci di cocco nello zaino. Padri che decidono all’improvviso di dover usare il marsupio. Bambini con la borraccia al collo. E il poncho, obbligatorio per tutti. Un indumento ingestibile, antiestetico e rumoroso, che ti fa somigliare a una tenda menomata e ti impedisce di utilizzare correttamente le mani. Più scomodo dell’ombrello (dove la metti quella roba lì, una volta che l’intemperia finisce di imperversare?), efficace solo se si sta fermissimi, imbecille oltre ogni misura, il poncho è – soprattutto – un vile inganno. Il poncho finge di essere divertente e sbarazzino, finge di voler partecipare alla gioia della vostra gita fuori porta. E voi, come degli sprovveduti suricati, pensate davvero che infilarvi un poncho sia un’idea spiritosa, un modo simpatico e sacrosanto di affrontare il maltempo senza incazzarvi come delle bestie, che avete un giorno di ferie ogni cent’anni e tutte le volte che uscite dalla vostra provincia di residenza vi grandina in testa. Il poncho lo sa, ecco perché finge di essere un brioso strumento d’evasione, un amichevole accessorio per le vostre scampagnate. Perché in vacanza si fanno delle cose diverse. Si fugge dal solito tran-tran. Qualche giorno di pace, a vedere dei bei posti, senza nessuno che vi rompe le balle.
Ed è un attimo.
Vi allontanate dal vostro habitat naturale, scendete dal treno, mettete i bagagli in albergo, vi assicurate di aver portato con voi le pastiglie per purificare l’acqua, date un’ultima occhiata alla cerbottana e addio, dopo mezz’ora siete già terreno fertile per i loschi intrighi del poncho antipioggia.

– Gennaro! Che ridere, ma l’hai visto quello là?
– Chi? Il coglione col poncho giallo?
– Mamma mia, ma lo vedi, ormai non ti si può dire più niente! È simpatico, il poncho. Siamo qua contenti, che visitiamo, che vediamo l’arte… se fosse per te vivremmo sul divano, in mezzo alle briciole.
– E che mi frega a me. Se lo vuoi pigliare, piglialo, il poncho. Tanto qui non ci conosce nessuno.

MA IL CIELO VI GUARDA. E PIANGE. E se il cielo piange, vuol dire che piove.
La pioggia è colpa del poncho. Il poncho fa apposta a insinuarsi nelle vostre giornate di villeggiatura. Lo fa per insultare il firmamento, nel tentativo di preservare le condizioni più adatte alla propria spregevole sopravvivenza. È un complotto plastificato.
Regolatevi, ora che conoscete la verità. Unitevi alla resistenza anti-poncho. Resistenza Anti-Poncho, per un turismo meno sciocco e più soleggiato.
Vai, che fra tipo cinque minuti ci sono anche le elezioni europee.