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Chiara Valerio

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Io a Scauri non ci sono mai stata, se non leggendo questo romanzo di Chiara Valerio – quindi vale e non vale come visita. In Chi dice e chi tace – in libreria per Sellerio, la città è un personaggio che parla con tante voci diverse, come una sorta di coscienza collettiva fatta di posti, punti di riferimento comunitari, orizzonti liquidi, radici e volontà di fuga, accordi antichi su come convenga stare al mondo e note di merito assegnate sul campo. Si tace quando la verità è palese, si parla quando la realtà dei fatti è fin troppo banale… perché qualcosa bisogna pur fare.
La mente collettiva di Scauri perde all’improvviso una cellula fondamentale: Vittoria, una che a Scauri non è nata ma che ha scelto di viverci “da grande”, senza spiegare a nessuno cosa c’era stato prima.
Vittoria galleggia nella vasca da bagno di casa sua, concretizzando l’idea di disgrazia casuale, di incidente stupido e crudele capitato a una donna che stupida non è mai sembrata a nessuno. Lea, avvocata che per vent’anni ha pensato di conoscerla, non si capacita di come a una persona così magnetica, generosa e lucente possa essere toccata una fine così assurda e repentina, così indegna di lei. E che fa? Indaga. Perché non può farne a meno.

Vittoria non è mai viva, nel libro. È sempre un riflesso, l’oggetto di un ricordo altrui, il pezzo dell’iceberg che affiora e che sceglie di essere visto in un certo modo. Chi dice e chi tace non sbroglia un mistero ritmicamente travolgente, ma è piuttosto un’indagine umana e assai pratica sulla perdita e sul dramma di non poter mai “accedere” davvero al nucleo reale delle persone che ci affascinano o che hanno in qualche modo contato qualcosa per noi. È una storia di asimmetrie informative sentimentali, di omissioni che permettono di immaginare un futuro anche se non è mai davvero possibile sganciare le zavorre del passato. Vittoria si sceglie una vita nuova e stabilisce accuratamente “cosa” essere per chi la incontrerà e la conoscerà da zero. Si amministra con abilità e dosando con cura gli ingredienti – lavora in farmacia, dopotutto… – ma nel ricrearsi non mente. Vittoria inventa un nuovo spazio in cui vivere e traccia i confini necessari a produrre la propria trasformazione.
Lea ripensa a Vittoria e le pare di non averla mai conosciuta, ma Vittoria le lascia di fatto l’eredità migliore. A Mara, la ragazza che ha sempre vissuto con lei e che poteva avere l’età di una figlia, toccheranno le cose, ma a Lea spetterà quello che non si è mai visto a Scauri. Che pretese possiamo imporre agli altri? Perché crediamo sempre che ci spetti la più completa sincerità? E perché, soprattutto, vogliamo esercitare questo potere di controllo anche su passati che non ci appartengono e non ci devono obbedienza? 

Non conosco abbastanza Chiara Valerio da poter immaginare le sue intenzioni – e gliele lascio perché ho imparato e di pretese non ne ho – ma a me è sembrato un romanzo in cui l’ho vista riposarsi, nel senso migliore. È tornata a casa a domandarsi delle cose, con calma e con l’irreparabile ormai successo. A casa propria si litiga con i disastri superati e il tempo ci aiuta a specchiarci con più indulgenza, anche se tantissime cose restano un mistero – come Vittoria.

Utilizziamo, tutti i giorni, strumenti di cui non comprendiamo il funzionamento. Anzi, strumenti che imbrigliano e sintetizzano una sterminata serie di “competenze” che non possediamo come singoli e che, in generale, non sapremmo mai riassemblare per conto nostro. Noi badiamo all’effetto tangibile e al servizio che queste “cose” ci rendono, al problema che ci risolvono o a quello che ci permettono di fare, ma non abbiamo una reale presa sulle architetture che sorreggono le molte tecnologie del nostro quotidiano, tanto per circoscrivere la questione al più immediato degli ambiti. La luce si accende anche se non abbiamo partecipato al processo scientifico di infinite ipotesi, prove sperimentali, errori e accumulo di conoscenze incrementali che è servito a farci pigiare l’interruttore attendendoci un effetto preciso. Quel che conta è appropriarci di un risultato, ma quel che lega cause ed effetti diventa terra incognita e misteriosa, parentesi di prodigio invisibile. Il “come” non ci riguarda più, se affidandoci a un determinato strumento otteniamo quel che ci occorre – e per affidarsi bisogna credere.

Quando leggo Chiara Valerio mi sento quasi sempre una cretina, ma è un esercizio che mi giova immensamente. Con La tecnologia è religione, come aveva già fatto nella sua Vela precedente – La matematica è politica -, Valerio mette in relazione due vastità concettuali all’apparenza disgiunte per farle collimare nello spazio d’azione del nostro presente. Non solo finisce per raccontarci cosa c’è in quelle vastità concettuali lì, ma parla di noi e di cosa siamo collettivamente diventati, di come pensiamo e di come ogni forma di sapere – quelli “scientifici” in primis, sempre che abbia senso compartimentarli – esprima una posizione etica e sociale, la bussola del chi siamo.

Qua si parla di Spiderman, di pupazzi che riteniamo dotati di anima, di programmazione, di percorsi scolastici svuotati di senso, di metodo scientifico, curiosità, telecomandi, nonne, miracoli e danze della pioggia. Se ne parla perché quel che sappiamo è spesso un “sappiamo usare” e perché abbiamo bisogno di produrre fede, cambiandone man mano la destinazione. Si tratta, forse e soprattutto, di domandarci che cos’è che abbiamo capito… e di venire a patti coi nostri inevitabili limiti strutturali. Ed ecco perché è splendido e utile che Chiara Valerio mi faccia sentire scema, senza però mai togliermi fiducia nel futuro.