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La Grande Era dell’Autofiction ha fatto anche cose buone? Dipende. Ci son traumi su cui si mira a costruire (con furbizia nemmeno troppo mascherata) un rimbalzo emotivo che poco contribuisce alla generale crescita del mondo attraverso la collezione di testimonianze che riecheggiano nell’universalità – così, per farvi capire le pretese che ho quando leggo storie autobiografiche – e ci sono traumi che diventano “materiale” valido perché sono sostenuti da una voce che funziona o che, come in questo caso, sperimenta sul confine sempre complicato dell’umorismo, proprio dove non ci sarebbe un bel niente da ridere.
Chiara Galeazzi è sopravvissuta a un’emorragia cerebrale che, dal nulla, l’ha colpita a 34 anni. Poverina – in libreria per Blackie Edizioni – è il memoir che ha deciso di scrivere per raccontare cosa le è successo. Visto che di lavoro fa (anche) la “persona divertente”, questo è un libro divertente. Non si capisce come, dato il tema centrale, ma è innegabile che lo sia.

Non mi metterò a ripercorrere le tappe cliniche che incontrerete nel libro perché preferisco pensare meglio all’approccio generale. Come anche Galeazzi nota, da “vittima” di un grande malanno, parlare o scrivere di sventure mediche è un groviglio complicato. Il confronto con gli altri segue logiche che sorpassano le reazioni istintive del singolo per produrre una sorta di rituale collettivo capace di tenere insieme doverosa compassione, composta serietà, complimenti per il coraggio e l’impegno dimostrato nel percorso terapeutico, ferme esortazioni per una rapida ripresa e forme di sensibilità che spesso somigliano di più a un soffocato “guarda, meno male che non è toccato a me”. Esorcizziamo il terrore come possiamo. Vogliamo partecipare e sostenere. Manifestiamo una solidarietà che, se fin qua ci è andata bene, non può fondarsi su una vera immedesimazione. Produciamo frasi di circostanza e perdiamo spesso la capacità di regolarci, anche se siamo mossi da nobili intenzioni.

Quel che ho apprezzato, qui, è la fondamentale decisione di non badare a quello che collettivamente tendiamo a ritenere opportuno, decoroso, conforme al momentaccio. Galeazzi, a cui è toccata una roba orrenda che non ha di certo chiesto e che le ha invaso la vita all’improvviso, si riprende il diritto di metterla giù come le pare, di non lasciarsi trasformare in via permanente in quello che le è capitato. È una rivincita da sopravvissuta, certo, ma credo sia anche un invito all’ascolto che arriva un po’ più in profondità, perché ci ricorda che non esistono esorcismi codificati e socialmente accettabili ma solo persone che provano a venire a patti, come possono, con quello che non sempre si può controllare. E la vita, probabilmente, ricomincia davvero quando si ritrova la propria voce – o non la si perde strada facendo.

Le piante si evolvono facendosi gli affari propri. Alcune hanno sviluppato strategie raffinatissime per tenere alla larga i predatori – disgustandoli col saporaccio delle loro foglie o rincoglionendoli con principi attivi che puntano a disorientarli, più che a ucciderli – o per rendersi più gradevoli agli insetti impollinatori e, dunque, farsi “propagare” con maggiore zelo. Alcuni di questi grimaldelli evolutivi si esprimono in molecole o composti che, incidentalmente, producono effetti di varia natura anche su di noi. Usiamo le piante per alimentarci, curarci o tentare d’ingentilire il nostro aspetto da tempo immemore… ma che succede quando di mezzo c’è una potenziale alterazione dei meccanismi di funzionamento della nostra mente? La faccenda si complica. E si fa anche molto affascinante.

Senza lesinare sulle imprese di coltivazione, Michael Pollan raccoglie in Piante che cambiano la mente – uscito per Adelphi con la traduzione di Milena Zemira Ciccimarra – tre approfondimenti distinti su altrettante sostanze psicoattive che, a vario titolo, hanno intrecciato una relazione solida e duratura con noi: l’oppio (ricavabile da papaveri molto più comuni di quel che potremmo sospettare), il caffè e la mescalina/il peyote. Sono tre reportage scritti in diverse fasi della carriera di Pollan, qui ricontestualizzati e rivisti per interrogarci anche sulla ricezione culturale, sociale e “criminale” del consumo. Se il caffè (e il tè) possono essere considerati stimolanti che potenziano la nostra performance e rientrano nel regno dell’accettabilità e della legalità, infatti, su oppio e allucinogeni si addensano riflessioni e strutture di controllo di ben altro tenore.

L’accettabilità di una sostanza, ci dice Pollan, è di fatto un costrutto sociale e normativo deliberato. Quel che non ha la capacità di disturbare l’ordine costituito “va bene” – ciao, caffeina che ci rendi più efficienti! – mentre su quello che può scatenare effetti meno mappabili e controllabili si legifera in maniera molto più stringente, in soldoni. L’oppio è un buon esempio di liminalità – e la crisi degli oppioidi negli USA fa ben capire quanto sia spesso sdrucciolevole il confine tra droga e farmaco – e il capitolo sulla mescalina allarga ulteriormente il campo accogliendo una nicchia di consumo molto specifica: per i nativi americani il peyote è una pianta sacra e uno strumento per preservare il collegamento con la sfera spirituale della natura, oltre che uno dei pochi collanti comunitari rimasti. Insomma, in questo libro si parla di piante, di persone e di norme condivise, più che di “sballo”.

Devo dire che m’aspettavo un’esposizione un po’ più vivace e meno guardinga e che non sono rimasta particolarmente colpita dalla voce narrante, ma ho apprezzato gli sforzi di allargamento del campo e l’approccio “multidisciplinare”. In inglese si usa drug sia per parlare di droghe che per definire i farmaci e le medicine… e forse il punto di questi tre pezzi sta proprio lì, nell’impresa fluida di definizione di un confine che per le piante da cui ricaviamo questi composti – capaci di alterare la nostra coscienza e il nostro modo di “funzionare” – semplicemente non esiste.