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DISCLAIMER
Questo post non contiene nemmeno l’1% di quello che ci è accaduto. E non ambisce a far meglio di così. Perché, in tutta franchezza, non si può.
Questo post, in sintesi, è un trailer. Ma di quelli fatti bene. Mica un trailer con già dentro tutta la trama, che cavolo.

***

BENE. PROCEDIAMO.

Pur continuando a non capacitarmi di come una persona – per quanto piccola – sia riuscita a raggiungere il mondo esterno transitando per la mia coraggiosa vagina, l’operazione “Riproduciamoci, orsù” si è conclusa con successo e, dal 24 settembre, abbiamo un Minicuore. 
Anzi, un Cesare.
E siamo felici come degli imbecilli.

Ora, potrei mettermi qua a dirvi cose poetiche e piene di sentimento. Potrei scrivere due cartelle sul potere salvifico della vita che sboccia. Potrei provare a farvi piangere con una minuziosa descrizione del primo battito di ciglia di mio figlio. Potrei intrattenervi con una moltitudine di sconfinate tenerezze… ma non è questo che ci serve.
Perché è tutto bellissimo, ma è anche un gran casino. E quello che ti preme all’inizio – oltre a non uccidere accidentalmente tuo figlio – è riprendere un vago controllo della realtà.
Nell’ambizioso tentativo di arginare l’entropia neonatale, ho dunque deciso di affrontare la faccenda con razionalità, mappando i fenomeni principali che si sono scatenati nelle prime settimane di vita di Minicuore. Perché sì, la gente non vi dirà mai che un bambino ha un mese e mezzo. I bambini hanno sei settimane. E nessuno capirà mai di che cazzo state parlando.

Misurazione del tempo in settimane

Comunque.
Partorire è un problema.
Sono entrata in ospedale alle 18 di un venerdì sera e ho trascorso i tre giorni successivi a vagare seminuda e dolorante in mezzo a sconosciuti di ogni tipo, sfoggiando una batteria di surreali camicioni da notte ereditati da mia nonna Lelia che, prevedendo un olocausto atomico circoscritto al solo abbigliamento da letto, ne aveva immagazzinati due container (senza mai mettersene neanche uno, visto che credeva nell’onnipotenza della sottoveste di seta nera – indipendentemente dalla stagione).
La mia stanza, poi, era sprovvista di bagno. Mi è dunque toccato trascinare la mia carcassa gonfia al cessetto dietro l’angolo per una quantità interminabile di volte, brandendo giganteschi assorbenti a forma di Toblerone e maledicendo a gran voce il mio utero tumefatto.
Insomma, passi una vita a riprenderti dalle umiliazioni dell’adolescenza, ma poi partorisci e ti rituffi nell’abisso.

Livello di dignità personale

Il vostro parto è stato soave, edificante e sereno?
Brave voi e bravi tutti.
Io ho patito così tanto che non ho neanche fatto in tempo a spaventarmi. Però avevo un’ostetrica argentina super rassicurante e abilissima che ha serenamente discusso di Harry Potter con Amore del Cuore mentre un’infermiera gigantesca mi spezzava le vertebre cervicali nel tentativo di immobilizzarmi e permettere a un’anestesista con dei capelli fantastici di piantarmi un tubo nella schiena.
Il risultato finale è che, in un istante di particolare ottimismo prodotto dall’epidurale, mi sono convinta di poter far uscire Minicuore in sette secondi netti urlando EXPECTO PATRONUM.
Non provateci, non funziona.
Ma l’epidurale ve la consiglio anche a scopi ricreativi.

Cose belle della vita per livello di piacevolezza sprigionato

All’epidurale, comunque, non ci si arriva agevolmente. Te la devi sudare. Devi meritartela, come il regno dei cieli. A me è toccato rantolare per una mattina intera (e vomitare parecchia roba fosforescente in un secchio) prima che il Dottor Futomaki mi elargisse la sua benedizione.
Io col Dottor Futomaki ce l’ho su davvero.
Un po’ perché non è carino irrompere in una stanza e infilare all’improvviso un braccio intero nella patata di una persona – ma così, senza nemmeno presentarti – e un po’ perché non puoi piantarti in mezzo al corridoio alle otto del mattino per raccogliere le ordinazioni del pranzo. Sushi, poi. In un reparto pieno di donne gravide che soffrono come dei maiali e che il sushi non lo mangiano da nove mesi.
Graziella, te cosa vuoi? Gli uramaki Spicy Salmon o i Rainbow Roll? Chiedi anche alla Diletta, che di solito prende quelli con le uova di pesce volante, ma lo sai com’è fatta. Cosa dite, aggiungo un po’ di tartare, che ce la mangiamo prima?
CHE TU SIA MALEDETTO, DOTTOR FUTOMAKI. UN GIORNO AVRÒ LA MIA VENDETTA!
Ma poco importa. Perché, dopo tanto patire, ti ritrovi con un neonato di tre chili e trecento grammi in braccio. E ti sembra di una bellezza prodigiosa.

Maternità e distorsioni percettive

Potrei raccontarvi com’è che si campa in un ospedale pieno di donne sconvolte che spingono carrettini-lettino con dentro dei bambini minuscoli e variamente terrorizzati, ma mi sembra di essermi già dilungata in particolari già abbastanza cruenti. Vi basti sapere che, se voi avete avuto dei problemi, le altre ne hanno immancabilmente avuti di più. E non vedono l’ora di farvi pesare anche l’ultimo effetto collaterale del loro cesareo.
Quindi niente, io passerei ai regali. I regali sono sempre fonte di grande stupore.
La nascita di un figlio è un evento giustamente festeggiato dalle genti di ogni cultura con un’esplosione di doni strabilianti. In prevalenza ricamati a punto croce.

Frequenza di utilizzo del ricamo a punto croce

Fare regali a un neonato è difficile. La nascita di un infante è un avvenimento di una certa rilevanza – quindi non vuoi arrivare con una cazzata -, ma non vuoi neanche passare per quello che bada troppo al sentimento e troppo poco al lato pratico. Pragmatismo e lungimiranza, dunque, ma anche affetto e coccolosità.
Il risultato?
Al grido di “tanto il bambino cresce e la roba per i primi tempi non gli va più bene dopo un secondo e comunque ho pensato che ne avrai già a pacchi e che era importante regalarvi qualcosa che potete usare anche fra un po’, no?”, vi ritroverete con mille tutine ADORABILI taglia 6-9 mesi e nulla di utilizzabile nell’immediato – che poi è più o meno il momento in cui il bambino si caga anche sulle scapole… e te hai in lavatrice tutto il vestiario che possiede perché le scapole se le riempie di sterco ogni tre ore.
Che il cielo benedica lo shop online di H&M. E quelle due persone che vivono nell’eterno presente.

Composizione del parco-doni

Comunque, visto che la cacca ha già fatto la sua inevitabile comparsa, direi di occuparcene. In ospedale siamo stati istruiti su come cambiare efficacemente un pannolino, detergendo con rapidità e perizia il deretano del nostro bambino. Ogni volta che andavi al Nido – è così che si chiama lo stanzone pieno di neonati dove si espletano le principali funzioni di accudimento mentre sei ancora ricoverata – e cambiavi tuo figlio, un’infermiera/dottoressa/puericultrice correva da te e t’interrogava sul contenuto del pannolino. La pipì veniva accolta con un benevolo cenno del capo, ma senza particolari entusiasmi. La cacca, invece, era festeggiata con salve di cannone e il passaggio in corridoio della fanfara dei Bersaglieri.
Io, nella mia angoscia neogenitoriale, interpretavo il tutto più o meno così.
Il bambino caga? Sei una buona madre.
Il bambino non caga? Sei un mostro e Studio Aperto verrà presto a stanarti.

La cacca è importantissima. Ti sorprendi a parlare così tanto di cacca – con tuo marito, con i nonni, con gli amici, con i semplici passanti – che, quando effettivamente ti tocca pulirla, non ti fa più nemmeno schifo. Certo, non ci verniceresti le pareti, ma non ti fa particolarmente impressione. Anzi, la cacca è una buona notizia, è un evento positivo. Come la piena del Nilo. Come l’arrivo della stagione delle piogge nella savana riarsa. La cacca è oggetto di dibattiti, tavole rotonde e bollettini dal fronte. La cacca, nuova grande protagonista. E pensare che, due mesi fa, potevi sederti a tavola a discorrere di viaggi, progetti, carriera e amicizie, come una persona normale. Ora no, parli solo di merda.

Frequenza e composizione degli argomenti di conversazione

La cacca, insieme al naso tappato, ha per noi rappresentato una grande incognita. Minicuore, pur non incappando mai in raffreddori conclamati, ha passato le prime due settimane a respirare come un piccolo mantice otturato, gettandomi spesso nel panico. ODDIO, SE DIVENTA TUTTO BLU E MUORE? ODDIO, MA AVRÀ QUALCOSA DI DEVASTANTE AI POLMONI? Dopo aver scoperto il potere salvifico dei lavaggini nasali con la soluzione fisiologica – manovra cruentissima da eseguire con una siringhina spuntata, da utilizzare tipo Super Liquidator per sparare acqua nelle minuscole narici tappate di vostro figlio -, sono felicemente passata a preoccupazioni di altro tipo. ODDIO, HA UN OCCHIO UN PO’ GONFIO, È SICURAMENTE GUERCIO! Ma anche IL BAMBINO NON CAGA DA QUATTRO GIORNI, ESPLODERÀ?
Ad ogni micro-allarme, ovviamente, rompevamo i coglioni a qualcuno. Ho telefonato al Nido dell’ospedale, alla guardia medica, alla pediatra, al collega pediatra della nostra pediatra, al pronto soccorso pediatrico e pure al neonatologo dell’ospedale – disponibile solo in risicatissime fasce orarie praticamente inaccessibili (che ci sia lo zampino del malefico Dottor Futomaki?). E che cosa ho scoperto, alla fine? Ho scoperto che devo stare molto calma. E che non esiste una via di mezzo. 

Tipologie di risposta a condizione di malessere

Al ventesimo È NORMALE che ti rifilano, un po’ ti senti scemo. Perché di fronte a un “è normale” non c’è soluzione. Devi aspettare che la situazione migliori da sola (come ti promettono immancabilmente) o ti viene concesso di intervenire in maniera blandissima e quasi certamente inefficace (“lavi l’occhietto con una garzina”, “massaggi il pancino o stimoli con delicatezza l’orifizio”). Non so voi, ma io funziono così: ho mal di testa > prendo un Moment > mi passa il mal di testa > FAVOLA! Ecco, se uno mi venisse a dire che il mal di testa “è normale” (perché agli esseri umani nella vita un mal di testa può anche venire), mi incazzerei come una bestia e reclamerei a gran voce un rimedio un po’ più significativo, possibilmente a base di sostanze stupefacenti. CERTEZZE, CI SERVONO CERTEZZE.
A volte, dunque, di fronte alla scarsissima propensione all’allarmismo degli operatori sanitari a vostra disposizione, vi sorprenderete a consultare con un certo interesse l’orripilante chat del corso pre-parto – chat alla quale avete messo SILENZIOSO 1 ANNO praticamente subito dopo la nascita dei primi bambini.
Ma perché sì, maledizione.
E per due macro-ordini di motivi.
Uno. Il continuo bombardamento fotografico perpetrato dalle madri degli infanti più raccapriccianti.

Curva dell'ingiustificata fierezza materna

Due. I nomignoli imbecilli.

Termini prevalentemente utilizzati dalle neo madri per indicare i propri figli

PUFFI?
NANI?
CUCCIOLI?
…ma io vi sfondo le costole a colpi di mestolo.
Non ho trascorso nove mesi nel disagio e nella scomodità per mettere al mondo uno GNOMO, accidenti a voi. Non ho patito le pene dell’inferno per una giornata intera per poi sentirmi dire “ma che belle zampine che ha!”. ZAMPINE UN CAZZO. SONO MANI, CRETINA. MANI!
Io non capisco, è come se a chiamarli col loro nome (BAMBINI) si facesse la figura degli insensibili. E lo dice una che è sposata con Amore del Cuore e che ha messo al mondo Minicuore. Ma quelli sono fattacci miei, che diamine – è come ho deciso di chiamare due persone specifiche, mica un’intera categoria di esseri umani. Non pretendo di andare in giro a dire “Oh, ma guarda quanti bei Minicuore ci sono in questa nursery! Sei una donna fortunata, il tuo Amore del Cuore sarà un papà fantastico!”. Dai, cos’è. Anzi, come direbbe mia suocera, MA CE LA FATE?
Comunque.
Il confronto con gli altri è sempre una grande incognita. Ma più per voi che per vostro figlio. Anzi, vi renderete presto conto che vostro figlio, incredibilmente, non è per nulla misantropo. 

Curva della finta serenità neonatale

Quei due o tre giorni che passi in ospedale con il bambino sono una specie di allenamento, ma poco realistico. Nonostante le ostetriche ti chiamino ripetutamente MAMMA – credo più per farti rendere conto di che cosa ti è appena capitato che per l’effettiva impossibilità di ricordarsi nome e cognome di ogni singola puerpera ricoverata –, cominci a capire veramente quello che ti è successo quando rimetti piede in casa. Noi siamo entrati, abbiamo appoggiato per terra sacchetti, valigini, mazzi di fiori, pacchetti e pacchettini e, dopo sette minuti di euforia da “Oddio, che bello, il mio bidet!”, abbiamo sistemato Minicuore sul divano, nella navicella del passeggino, e ci siamo domandati E ADESSO?.
E adesso niente, sono fattacci tuoi.
Non credo ci sia niente che può davvero prepararti a gestire la faccenda, a parte il buonsenso.
Perché prendersi cura di un neonatone è un po’ come conoscere una persona nuova, solo che questa persona si piscia addosso a ripetizione e non è perfettamente in grado di farti sapere che cosa le sta succedendo. O di soffiarsi il naso in autonomia, se è per quello. O di capire che ha le mani. O di distinguere il giorno dalla notte. O te da un materasso.

Mappatura dei luoghi del sonno per frequenza di assopimento

All’inizio, inevitabilmente, le questioni pratiche ti fagocitano. E cambiare la garzina al cordone ombelicale. E farlo mangiare regolarmente. E non lessargli il sedere sotto al rubinetto. E il freddo. E il caldo. E la copertina in faccia. E le calzine. E l’appuntamento dalla pediatra. E come si fissa l’ovetto al sedile della macchina. E la cuffietta. E mettilo a pancia in su. E giralo sul fianco. E starà crescendo. E se non cresce come facciamo. Ogni cinque minuti ne hai una. E ogni due ore e mezza il sistema operativo si azzera, BAMBINO.EXE si riavvia (girano con Windows, all’inizio) e la gioiosa tarantella ricomincia da capo: pannolino > tetta > rutti & secrezioni assortite > nanna (auspicabilmente). Nel caso ci sia da cambiare una tutina, poi, i tempi si dilatano notevolmente…

Legge di moltiplicazione falangea del neonato

Con il passare dei giorni, comunque, si diventa più bravi. Anche accudire un neonato, infatti, segue determinati schemi motorio/cognitivi. E l’allenamento, come insegna MADRE, aiuta sempre. Non avrei mai pensato, ad esempio, di riuscire a tollerare la cronica mancanza di sonno con la disinvoltura che sto dimostrando. Non avrei mai pensato di potermi rallegrare, alle quattro del mattino, per il sorrisotto storto che ti fa un bambino minuscolo quando lo prendi in braccio dopo un piantino. E non avrei mai pensato di potermi commuovere davanti a uno stendino, ma è capitato anche quello. Se lì con una vaschetta piena di tutine tempestate di pinguini e orsacchiotti e ti viene un po’ da piangere, tra una molletta e l’altra.
Insomma, ce la caviamo. Oserei dire che ce la caviamo bene. L’impegno, di sicuro, ce lo mettiamo. E Amore del Cuore è, come prevedibile, molto bravo. Se potesse, credo che mi solleverebbe anche dai doveri dell’allattamento. E io glielo lascerei fare volentierissimo. Tutti ti raccontano quanto è utile allattare e quanto fa bene al bambino, ma sorvolano un po’ sulle difficoltà iniziali. Io sono uscita dall’ospedale con i capezzoli ridotti peggio di una trincea di Verdun ma, a quanto pare, pure quello fa parte del pacchetto. Dopo essermi cosparsa di creme alla lanolina e aver protetto i miei preziosi rubinetti con paracapezzoli in argento 925 – roba uscita per direttissima da un film di Austin Powers -, le mie piastrine hanno finalmente deciso di mettersi all’opera e, dopo settimane di discreti patimenti, ho conquistato la libertà di annoiarmi di tanto in tanto. Perché i bambini piccolissimi mangiano dalle sei alle otto volte al giorno. E ogni volta ci mettono una mezz’oretta buona. Trovarsi un hobby è assolutamente fondamentale.

Allattamento - composizione delle attività svolte in parallelo

E niente.
Siamo qui.
Siamo in tre (più Ottone).
Stiamo ancora tutti quanti bene e ci amiamo fortissimo.
Ciò è sufficiente a fare di me una MADRE? Non credo proprio… ma da qualche parte bisogna pur iniziare.
Ben arrivato, Minicuore. Ti adoriamo. E ce la faremo, promesso.
🙂

***

Visto che mappare in maniera esaustiva i fenomeni principali dell’esistenza di un neonato e cacciarli tutti in un solo post è vagamente impensabile, l’ambizioso progetto procederà su Facebook – senza alcuna periodicità o criterio. Voi fateci un giro, però. Sarà bellissimo.

L’universo, quando ti riproduci, cerca sistematicamente di metterti addosso un’ansia intollerabile. Alcune sono paranoie indotte dalla comprensibilissima sensazione di non sapere bene che cosa stai facendo – “Sono a casa con un neonato… riuscirò a non ucciderlo?” – mentre altre, invece, sono frutto di anni di sedimentazione e, col tempo, si sono praticamente trasformate in temibili archetipi.
Tipo.
Ho vissuto fino ai vent’anni con una donna che credeva fermamente nell’onnipotenza della canottiera. Ma in qualsiasi stagione. Ci sono 36 gradi? Fa niente. Francesca, ti sei messa la canottiera? Mettitela, che se no t’ammali. Sei in Groenlandia è c’è -20? PERFETTO. Francesca, ce l’hai la canottiera pesante? Fammi vedere. Con questo freddo ti prendi un accidente! La canottiera: il campo di forza in grado di proteggerti da ogni avversità, germe, spiffero o morbo.
Sotto la giurisdizione di MADRE, dunque, ho docilmente indossato canottiere di ogni genere – ma mi sono ammalata comunque, come s’ammalano tutte le persone di questa terra. Il risultato finale della faccenda, però, è interessante. Perché la canottiera è solo la punta dell’iceberg, l’ambasciatrice di una vasta serie di preoccupazioni devastanti – che sono riuscita ad ereditare perfettamente. Possiamo riassumere tutto in un comodo quesito che mi perseguita sin dalla dimissione dall’ospedale: IL BAMBINO AVRÀ FREDDO?
Minicuore mi sembra un neonato sveglio, ma ha un mese e mezzo. E non posso pretendere che mi risponda. E non posso neanche tenerlo perennemente in casa sotto a due tonnellate di copertine. Equipaggiarsi. Quello che conta è essere equipaggiati, come le forze speciali, come Tony Stark. Il problema, all’inizio, è che non sai bene quello che ti serve. Anzi, non sai neanche che certe cose esistono e che sono fatte apposta per risolverti parecchie menate. Guardi fuori dalla finestra, t’accorgi che c’è la nebbiolina e che viene buio presto. E capisci che WINTER IS COMING e che ti devi ingegnare. Perché puoi anche non avere alcuna fiducia nei poteri delle canottiere, ma sui sacchi termici per minuscoli esseri umani si può tendenzialmente contare.

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Con il prezioso aiuto di Minicuore (nonostante russasse come un cinghiale) e il patrocinio di Picci, ho collaudato un adorabile sacco termico Mucki, un aggeggio morbidoso a prova di intemperie, glaciazioni, tempeste di stalattiti, titubanze da neomadre e broncio da lunedì di novembre. Nulla è peggio di un lunedì di novembre, fidatevi. #HateMonday per sempre (pure se c’è il sole).

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Che cosa c’è di bello e che cosa c’è da sapere.
I Mucki sono prodotti in Italia e sono molto poffosi. Sono fatti con materiali anallergici e godono di un alto indice di avventurosità – dovete andare in macchina? Mucki nell’ovetto (ci sono dei bucozzi trasformabili dove far passare le cinture di sicurezza. E se l’ho capito io, potete farcela pure voi). Dovete vagare a piedi? Mucki nella navicella o nel passeggino. La cosa intelligente – soprattutto per chi ha messo al mondo un bambino che si agita come un’anguilla elettrica – è la cerniera sul davanti. Aprite il sacco e ci ficcate dentro il vostro luminoso erede senza dover impazzire con maniche, muffole, piedini e soluzioni labirintiche di scarsa praticità. Vi rifugiate al chiuso a mangiare una fetta di torta? Aprite il sacco e lasciate sgambettare Minicuore senza che sudi come un maratoneta etiope. Vi rimettete in marcia? Chiudete il sacco e ciao. Le cerniere non vi piacciono perché temete che vostro figlio possa sfigurarsi e passare il resto della vita a terrorizzare gli abitanti di Gotham City? Le cerniere del Mucki sono foderate e perfettamente in grado di arginare l’effetto-Joker.
Ma veniamo alla cosa più importante: i Mucki sono pieni di giganteschi orsacchiotti sorridenti.
Ecco.
Potevo dirlo subito e risparmiarmi tutta questa fatica.

Per chi volesse documentarsi ulteriormente, qui trovate il sito di Picci e qui la pagina dedicata ai sacchi termici Mucki. L’esperimento, per noi, è riuscito. Non so se il Mucki basterà a farmi passare l’onnipresente angoscia da MIO FIGLIO POTREBBE SURGELARE, ma Minicuore ha apprezzato. Perché un bambino che ronfa mentre lo porti a spasso è un bambino felice. Pure di lunedì.
Potere agli orsetti coccolosi!

Come ormai ben saprete, sto cercando di metabolizzare l’intricata faccenda della maternità. Sia chiaro, la felicità che provo è fiammeggiantissima e assoluta, ma sono parecchi anche i dubbi, le incertezze, le legittime preoccupazioni e le ansie da prestazione. Sono al quinto mese (abbondante) e comincio a domandarmi con una certa insistenza come sarà, davvero, provare ad allevare un Minicuore. Penso alle semplici azioni della nostra quotidianità e mi domando che cosa cambierà. Mi guardo intorno per casa, cercando di capire come lo spazio dovrà adattarsi al mini-umano che, fra qualche mese, si materializzerà fra noi. Riempio la lavastoviglie… e mi chiedo se ci potrò cacciare dentro un biberon. O un ciuccio. I ciucci vanno in lavastoviglie? A che temperatura posso serenamente lavare un bodino da neonato senza che si disgreghi? Di quanti bodini avrò ragionevolmente bisogno? Quale tra le cento possibili allacciature di bodini che esistono in questa galassia è la più pratica? E via così, in eterno.
Tutta questa roba super sconclusionata si può facilmente riassumere in un unico macro-quesito: sarò una madre orribile o, prima o poi, capirò che cos’è necessario fare? Cioè, l’ideale sarebbe incappare in una repentina illuminazione, tipo Mosè. Anch’io voglio arrampicarmi all’improvviso su per un dirupo e ricevere le tavole della legge e una fiducia incrollabile nella provvidenza.
Sarebbe funzionalissimo e particolarmente opportuno.
Pensateci. Domani salgo su un ponticello del Naviglio, il cielo si apre, una luce celestiale mi investe e, senza un perché, mi appare il sacro spirito della Chicco – avvolto in una nube di borotalco – per rivelarmi come si fa a scegliere un passeggino.
La vita.
Visto che la fede, diciamocelo chiaro e tondo, non è precisamente il mio cavallo di battaglia, ho deciso di procedere per gradi. Empiricamente e interattivamente. Facendo una cosa che mai al mondo, lo giuro sui velociraptor di Chris Pratt, avrei mai pensato di fare.
HO PARTECIPATO A UN EVENTO PER MAMME.
Anzi, ho pure un’aggravante.
HO PARTECIPATO A UN EVENTO PER MAMME IN QUALITÀ DI MAMMA BLOGGER.
Ma tenetevi forte, che non è mica finita.
E MI È PURE PIACIUTO.
Parliamone. Razionalmente.

Sabato scorso – quando era ancora estate, per intenderci -, mi sono levata il pigiama, mi sono vestita al meglio delle mie gravide possibilità, ho messo quattro carabattole in uno zaino con gli unicorni e mi sono presentata a #BabyShowerIT, una giornata di “istruzioni per l’uso” pensata per mamme in attesa (e volenterose neomamme) organizzata da Fattoremamma in collaborazione con Chicco, Envie de Fraise, Humana e Voihotels.
Il posto, lasciatemelo dire, non era malvagio.

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Gli addobbi e le decorazioni – super minimal – mi hanno causato una sorta di vertigine iniziale, accompagnata da un’avvisaglia di coma diabetico. Dopo aver bevuto un sorso d’acqua, però, mi sono resa conto che, in determinate circostanze, abbandonarsi senza ritegno ai colori pastello e ai dolcetti a forma di orsacchiotto può essere liberatorio, salutare e assai rasserenante. Il mondo può ossere orribile, ma i biscotti per le feste dei bambini ci salveranno.

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Oltre ad imparare il più possibile sugli infanti – seguendo uno dei millemila incontri supermultidisciplinari disponibili (dal massaggio neonatale ai consigli alimentari di Marco Bianchi, fino ai suggerimenti su come fare attività fisica anche con una pancia che va da qui a Gossolengo), uno dei miei felici compiti era quello di collaudare la nuova collezione di Envie de Fraise, un marchio francese specializzato in moda premaman. Visto che Minicuore arriverà a metà settembre e che, se tutto va bene, raggiungerò dimensioni vergognose proprio nel bel mezzo dell’estate, la faccenda dell’abbigliamento mi è sempre sembrata un problema non trascurabile. Ci sarà caldo e sarò una specie di orca assassina… che cosa diavolo dovrei mettermi, a parte un tendone circense? O un paracadute? O uno di quegli striscioni da Champion’s League che coprono una curva intera? O un lenzuolo queen-size? O un copridivano?
E invece no.
Ho scoperto che c’è speranza anche per le gravide.

Chiara Fracassi for Direzione Ostinata

In un moto di fiducia assolutamente inedita nelle mie possibilità, ho accettato di indossare una jumpsuit rosso fuoco (la prima jumpsuit mai provata nella vita) e di zampettare su e giù per una sala piena di portatrici sane di megapancioni. A parte l’autostima totale che solo una roba tipo fare la (PSEUDO)modella nel momento di massimo gonfiore mai raggiunto nella vita può regalarti, ho scoperto che le tute sono meravigliose. E che Envie de Fraise può, effettivamente, salvarmi dal disagio del Ferragosto.

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Durante la giornata mi sono anche resa conto che tutto quello che dovrò comprare per Minicuore potrà, potenzialmente, essere a forma di animaletto. Tale consapevolezza, come potrete ben immaginare, sarà il mio imperituro sostegno. Tipo. I bavaglini di silicone con pratica vaschetta raccoglimastichini e raccoglimangiarini esistono anche a forma di gufo, giraffa, ippomaiale e cento altre bestie. TUTTO, NEL MONDO DEGLI INFANTI, PUÒ AVERE SEMBIANZE DI BESTIOLA.
Sono raggiante.

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Comunque.
Sentendomi ormai molto padrona della situazione, ho deciso di iscrivermi con piglio e decisione al laboratorio di decorazione di bodini per neonati. Funziona così: la Chicco ti fornisce un minuscolo body di cotone purissimo e assolutamente immacolato – alto, ve lo giuro, circa sei centimetri – e tu, armata di pennarelli, colori per stoffa e formine, devi fare del tuo meglio per rovinarne irrimediabilmente la candida armonia. La cosa molto confortante, comunque, è che tuo figlio potrà venire a rinfacciartelo solo dopo aver raggiunto l’età della ragione… e che voi potrete infallibilmente contrattaccare giocandovi la carta dell’abnegazione materna: “Minicuore, io ci ho messo tutto l’impegno possibile. È il gesto che conta. È l’amore”.
Ecco.
Un’altra cosa che ho adorato del laboratorio di decorazione di bodini è l’impegno che ci abbiamo messo tutti quanti. Mi sono ritrovata a un tavolo con un vasto gruppo di future madri ormai del tutto adulte che, con la massima serietà, hanno trascorso un’ora a domandarsi vicendevolmente roba di questo tipo: “Non è che là da voi c’è lo stampino a forma di gatto?”. “Mi passi il pennarello rosso, quando hai finito?”. “DOV’È IL BLU”. “Ho combinato un casino. Cosa dici, fa schifo? Si capisce che è una nave?”. Il mio personalissimo contributo è stato il seguente: “LO STAMPINO A FORMA DI DINOSAURO. MA ORA ME LO DITE. C’ERA UNO STAMPINO A FORMA DI DINOSAURO! MA HO FINITO, ORMAI. NON LO POSSO USARE. COME FACCIO. MI SENTO MALE! LO RUBO. NON MI INTERESSA. IO LO RUBO”.
In compenso, con l’amore, ho prodotto questa roba qua. Spero basti.

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Forse con la tuta rossa ero un po’ buffa. E forse il mio bodino non è precisamente un capolavoro. Forse potevo imparare più cose, seguire più lezioni, ascoltare meglio e imparare a memoria l’intera tabella nutrizionale dei biscotti Humana (senza olio di palma!). Forse andrà sempre così: cercherò di capirci il più possibile e avrò sempre la sensazione di non essere mai brava abbastanza.
Per questa settimana, però, credo vada bene così. 
Ho cominciato.
Ho fatto qualche piccolo esperimento.
Ho capito, guardandomi intorno, che posso riuscirci anch’io.
La cosa davvero bella, credo, è proprio questa.
Dopo quasi sei mesi di *Insert coin – Loading Minicuore*, non mi sono sentita stramba. O un po’ sola. O spaesata. O la prima femmina al mondo a sperimentare un certo tipo di mal di pancia. Mi è sembrato di aver trovato un piccolo branco di voluminose dinosaure con cui continuare a brucare verdura rigorosamente sterilizzata col bicarbonato. O bollita. O cotta al forno. O precedentemente surgelata.
Cioè, capite quanto è complicato?
Uno mica scherza.
Neanche la verdura puoi mangiare in pace.
Una vita a sentirti dire che la verdura fa bene… poi sei gravida e ci metti due ore a disinnescare un’insalata.
Ma che vita è.
DATEMI UN BODINO. MI CALMO SOLO SE DECORO UN BODINO.

Grazie per l’ospitalità, #BabyshowerIT. C’è ancora molto da fare, ma è stato adorabile iniziare insieme a voi. 🙂

Dopo aver appurato che non saremmo riuscite a incrociarci – come le vere donne di mondo, che hanno sempre degli impegni precedenti -, abbiamo elaborato un piano infallibile. Ilaria doveva lasciarmi allo stand di Compagine, al Salone, una preziosa copia con dedica del suo Vintagismi, che così poi passavo e me la compravo. Poi però si è dimenticata, ma fa niente, sono comunque successe delle coccole. Me l’hanno passata al telefono – super imbarazzo, che io non so telefonare – e sono stata accolta con grande affetto, in un tripudio di foto e tolleranza. Tolleranza e immenso garbo, anzi, perché sono riuscita a esclamare “Ma che carine queste noci! Ma perché avete un cestino di noci, qua in mezzo ai libri?”. Senza battere ciglio, mi hanno indicato il gigantesco logo appeso al muro. Che poi è questo qua.

Lo so, lo so.
Con me ci vuole un po’ di pazienza.
E forse vale la pena cambiare argomento… che siamo qua per commuoverci con Vintagismi.

È un librino tenero, pieno zeppo di ricordi,  scoperte e ciuffetti storti. Ci sono le lumache, le scarpe con gli occhi, un giardino con piantata in mezzo una pietra gigante, un papà iperattivo, i pomodori dell’orto, una nonna pettoruta e abilissima nel distorcere la realtà, un divano-nascondiglio, la foto di classe di prima elementare e la tragedia dell’abbigliamento anni Novanta. Sulla pagina dell’OUTFIT natalizio è come se ci fossi anch’io, con collettone di pizzo e calzamaglia rossa che prudeva tantissimo. MADRE contribuiva al folklore complessivo trasformando la gonna scozzese in una gonna-PANTALONE scozzese, tanto per farmi capire da subito che il mondo è un luogo tetro, ingiusto e inospitale. Vi torneranno in mente i passamontagna e gli inspiegabili fuseaux con le ghette, insieme a tutti gli sport che vi hanno fatto fare anche se non ne avevate voglia e pativate come dei cani. Poi ci sono i cantanti del cuore – che ve li immaginavate bellissimi ma poi erano tutt’altro – e le estati di noia, in cui si impara a leggere per divertimento e non ci si annoia mai più.

È proprio un librino felice. Si va in giro per i ricordi di un’altra persona e, senza neanche pensarci troppo, cominciano a venire a galla anche i tuoi. Fa nostalgia allegra, ecco, anche per le cose più surreali e le passeggiate di venti chilometri in salita – sia all’andata che al ritorno.
Poi quando capisco se sono più adorabili le illustrazioni o i testi torno indietro e ve lo dico.

Mi sono seduta con la schiena contro il muro e ha cominciato a battermi forte il cuore. Qualcosa stava venendo verso di me, allargandosi come una nuvola bassa all’orizzonte. La nuvola si è addensata. Mi ha riempito la bocca e gli occhi e a un tratto c’è stato un boato e hanno cominciato a succedere delle cose, molto in fretta e tutte allo stesso tempo, e poi ero seduta contro il muro e mi scendeva il sudore da sotto i capelli e mi sentivo più strana di quanto mi fossi mai sentita in vita mia.
E se dovessi dire come mi sentivo direi che mi sentivo come una scatola che era stata capovolta. E la scatola era stupita di essere così vuota.

Grace McCleen, Il posto dei miracoli
Einaudi (Supercoralli)
traduzione di Norman Gobetti

***


In questo libro si impara a far nevicare buttando in aria farina, zucchero e cotone. Si impara a fare una mongolfiera col filo di ferro, dei palloncini e una retina delle arance. E si impara anche a costruire un gatto. O delle persone. Impariamo perché Judith sa benissimo come si fa: pezzo per pezzo, ha messo insieme un universo in miniatura. Nella sua cameretta c’è un mondo intero, fatto con pezzi di vetro, matasse di lana, scatole e barattoli vecchi. È il mondo in cui si rifugia, ma è anche il mondo perfetto che spera di raggiungere, quando quello che abitiamo sarà finalmente spazzato via dall’Armageddon. Un mondo dove ritroverà sua madre e riuscirà a capire se il papà le vuole davvero bene. Un posto felice in cui non esistono bulli che minacciano di affogarti o fabbriche che fanno sciopero, dove non c’è bisogno di costruire un cancello gigantesco per tenere lontane le sassate e dove non sarà più necessario trascorrere le domeniche a predicare porta a porta. Ma Judith ha fede. E ha molta immaginazione. E quello che fa succedere nel suo mondo in miniatura finisce puntualmente per manifestarsi anche nel mondo reale. E nel momento di solitudine più buia, arriva anche una voce, la voce di Dio, a dire a Judith che ha un grande dono, ma anche che ogni scelta ha un prezzo. E le conseguenze, spesso, sono imprevedibili e tragiche, anche quando si prova a lottare per raddrizzare le cose, a difendersi e a sgomitare verso la felicità.

Ecco.
Le foto al Posto dei miracoli le volevo fare nella neve. Ma ce n’era poca in terra, quando ho finito di leggerlo. Allora ho pensato, ma che te ne fai della neve, piglia un mucchio di farina e cacciaci il libro in mezzo… Judith farebbe così. Ma poi mi sono accorta che non ho mai fatto una torta nella mia vita e che la farina in casa non esiste. Poi ho preso la pagina dove c’è tutto lo spiegone su come si costruisce una persona, ma per fare le cose per bene ci volevano ciuffetti di lana, colori, plastilina.  E ciao, idem con la mongolfiera, anzi, molto peggio. Poi, però, mi sono accorta che non erano necessari dei gran effetti speciali. Perché è già speciale il libro. E non credo sia solo per la sorpresa… perché parto sempre super prevenuta quando c’è un narratore bambino, magari un po’ stralunato e santo il cielo siamo tutti meravigliosi a nostro modo e vieni vieni caro lettore ad esplorare i segreti dell’esistenza attraverso il mio sguardo unico e spiazzante. Basta. Peggio c’è solo il narratore-gatto, il narratore-cane di casa o la mucca che ti racconta cosa le succede. E invece no, magimagia. La voce di Judith è delicatissima e tragica. E’ un personaggio che ti fa preoccupare, come se fosse una persona vera. E dove c’è Judith, Grace McCleen è bravissima a far addensare sempre dei nuvoloni minacciosissimi: che cosa succederà a scuola? E il suo papà, riuscirà a proteggerla? E la voce che sente, la distruggerà o la salverà? Ma è matta o fa davvero i miracoli? Insomma, è difficile incontrare un personaggio che ti fa preoccupare così tanto. Ed è anche complicato trovare una voce di bambina che analizzi la realtà con tanta dolcezza e perfetta consapevolezza della propria profonda infelicità.
Perbacco, è un libro complicato, poetico e crudele. Si prova a crescere e a capire come funziona il mondo. Si esplora la solitudine, in una famiglia che funziona sui dogmi di una religione che invade ogni minuto della giornata. Si scopre come ci si può difendere, quando non si può parlare con nessuno, ma solo giocare con i propri pensieri e la propria fantasia, perché non c’è nient’altro e non c’è nessuno che è davvero in grado di darci delle risposte. Insomma, se volete affezionarvi a una creatura immaginaria, affezionatevi a Judith. La sua storia si merita le preoccupazioni del vostro cuore.

 

I Puffi sono una di quelle cose dell’infanzia che non smetteranno mai di perseguitarti. Un po’ come il compito in classe degli articoli e delle preposizioni, con la maestra che si aspettava di vedere un cerchiolino rosso intorno agli articoli e un cerchiolino blu intorno alle preposizioni, una roba semplice e lineare, assolutamente diversa dalla pagina piena di tragedia che avevi consegnato tu, zeppa di cerchiolini verde pisello intorno a tutte le piccole parole di due o tre lettere. I Puffi sono anche un po’ come quei ricordi che sono imbarazzanti di riflesso, perchè se stai scavando fossili dalla riva limacciosa dell’Arda e ti rendi conto che un tuo compagno si è fatto la cacca addosso, là in mezzo, con un secchiello pieno di conchiglie del periodo Devoniano in mano, non serve che la cacca sia tua, ti senti tremendamente male lo stesso. E una volta, in seconda elementare, avevo pure scritto “dorata” con l’apostrofo, come se l’universo fosse interamente composto di minuscoli mattoncini fatti con le orate.
Ma insomma, chi se ne importa.
Era per dire che i Puffi sono pericolosi. Ti fanno ricordare un tempo lontano in cui potevi stupidare senza tante preoccupazioni, perchè pomeriggi trascorsi ad ascoltare un cane rosa di nome UAN o un dodo di pezza domiciliato in un albero azzurro non possono che trasformarti in una persona piuttosto ridicola. A mia discolpa dirò che non ero poi così fissata coi Puffi. I cartoni li guardavo quando capitava, ma la sigla mi piaceva moltissimo e la ballavo senza sosta sul tappeto del salotto. L’altra cosa che avevo era il camper Puffi… che non usavo per i Puffi ma per trasportare un fantasmino di tulle che avevo chiamato L’ANIMA DANNATA.

MADRE (flagello dei mondi) – Tata, cos’hai lì nel camioncino dei Puffi?
MINI-TEGAMINI – ….L’ANIMA DANNATA!


Comunque. Visto che mi regalavano il biglietto, la settimana scorsa sono andata all’anteprima dei Puffi. C’eravamo io, Amore del Cuore e un centinaio di bambini sadici. Che i bambini siano sadici un po’ lo sospetti… ma lo scopri con assoluta certezza solo quando nei film iniziano a capitare cose cruente, rigorosamente non funzionali alla trama. Gargamella viene travolto da un autobus? Puffetta conficca le sue scarpine col tacco nelle cornee di Birba? Tontolone inciampa e scivola, provocando una devastante reazione a catena che distrugge mezza Pufflandia? Ecco, bambini in visibilio. Bambini che saltano sulle poltrone, che si spellano le manine d’applausi sbilenchi con un entusiasmo che neanche gli antichi romani al Colosseo. I bambini vogliono vedere fratture esposte, tombini aperti, carriolate di viscere, maledizioni infrangibili, teste mozzate e fiamme di drago, altrochè principesse coi pettirossi in testa.
Ma cerchiamo di capire che cosa succede in questo benedetto film.