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Si potrebbe dire che rendere “shitstorm” con “merdone” sottragga al fenomeno la sua natura incontenibile e scatenata, propria della tempesta. Ma è anche vero che ci mettiamo quell’-one finale che trasporta bene sia il senso dell’umorismo dell’immagine di partenza che la portata dimensionale dell’episodio nefasto. Non c’è bisogno di spiegare, ormai, cosa sia un merdone. Soprattutto su Instagram – o su un blog, dove poi finiscono tutte le mie chiacchiere sui libri. Chiara Galeazzi – che trovate in libreria anche con Poverina, sempre per Blackie Edizioni – comincia il suo esperimento con una ricognizione dei merdoni pestati durante la sua permanenza pluriennale online e con una di quelle domande semplici ma abissali: perché commentiamo quello che ci passa davanti sui social? A che serve? Chi ce lo fa fare? A quale spinta irresistibile ci troviamo a obbedire?

I merdoni autodenunciati non sono devastanti, devo dire. Si è visto di peggio, ma incomparabilmente. Non sono devastanti – e non peggiorano nel tempo e/o reiterano merdoni precedenti – perché Galeazzi, come ogni organismo che fa del suo meglio per sopravvivere in un ambiente, si regola. Si contiene, anche. O facciamo così: sceglie le sue battaglie, decide dove è il caso di incaponirsi o di allocare energie. Lo fa anche armandosi di una certa condiscendenza, qua e là, ma non mi sento di biasimarla. Là fuori si sviluppano conversazioni costruttive e arricchenti, ma si discute per secoli e con virulenza anche di cose troppo stupide per essere vere. Volerle scansare è autoconservazione pura. Ma se questo istinto venisse meno – per una parentesi definita e secondo precise regole d’ingaggio? Ecco qua l’esperimento. E questo libro buffo e insieme deprimentissimo – come di solito è la comicità della gente della generazione a cui appartengo – è la cronaca di quel che è capitato in un mese vissuto con sprezzo del pericolo su X, interagendo là dove mai avremmo voluto interagire.

L’imprudentissima autrice non va a cercarsi rogne o a rissare tanto per, ma diciamo che se vede passare in timeline una roba che le sembra irricevibile lo dice, invece di osservare mestamente mentre passa oltre. Sono andata a cercarlo, il profilo fittizio che ha creato per l’esperimento. È ancora tutto lì – e magari ha parlato pure con voi, in un’altalena emotiva che oscilla fra il senso di liberazione e la cruda presa di coscienza della propria irrimediabile irrilevanza.
Come può finire? Con l’accrescimento dello sconforto, penso. E con il sospetto sempre più consolidato che non è su piattaforme ingegnerizzate per farci salire il sangue agli occhi (e per far emergere precisamente la roba che ci fa incazzare di più) che si potranno intavolare conversazioni aperte, chiare, sincere e utili alla nostra specie.
Ma Merdoni fa anche molto ridere, giuro.

Con me le infanzie e le adolescenze funzionano poco. Forse perché vorrei liberarmene ma il brutto mi è rimasto attaccato e non ne posso più e dentro non ci trovo nulla che sia nutriente o istruttivo, non lo so. Fatti miei, comunque. L’infanzia e l’adolescenza che Annie Ernaux proietta in La donna gelata, però, producono insieme una specie di matrice, uno stampo che contraddice le aspettative del resto del mondo. Una madre che lavora in drogheria, tiene i conti e ricama ben pochi centrini di pizzo. Un padre che pela serenamente le patate e sta assiduamente accanto a sua figlia, senza temere che gli caschi in terra l’apparato genitale. È uno stravolgimento dei ruoli ritenuti tradizionali, naturali e auspicabili che a Ernaux pare normale perché ci è cresciuta in mezzo, ma che è molto diverso da quello che capita nelle case delle amiche e delle compagne di scuola – comprese quelle che le sembrano più emancipate, indipendenti, “ricche” o “povere” che siano.

Come si diventa grandi, dove ci si colloca, cosa ci si può permettere di sognare e immaginare se i modelli a disposizione sono così insoliti per i canoni condivisi e se, visceralmente, non si percepisce il matrimonio (o la maternità) come l’unico traguardo possibile? Ernaux orbita attorno a questo dilemma, strattonata tra la necessità di studiare, di andarsene, di coltivare un’ambizione e la necessità altrettanto profonda di sentirsi scelta, amata, vista da un ragazzo capace di staccarsi dallo sfondo e dalle convenzioni. Un pari, un amico, un amante, una specie di novità antropologica che la tratti come un essere umano e che la convinca della praticabilità di un futuro insieme, di una dimensione migliore dell’indipendenza priva di vincoli.

Lo trova? Le pare di sì. Ed è qua che troviamo anche il cuore del libro – tradotto da Lorenzo Flabbi per L’Orma e per quest’edizione “ridisegnata” in Bur/Rizzoli –, il nucleo gelato del titolo e del destino di innumerevoli donne, quasi tutte sorridenti, solerti e silenziose. Ernaux non nega alle altre la possibilità di realizzarsi in una dimensione che per lei risulta annientante, ma racconta con puntiglio chirurgico di aver preso molto male le misure. O meglio, di essere finita in una specie di imboscata, pur illudendosi di aver scelto la sua strada e dato seguito a una riconosciuta felicità. Cosa fai, quando scopri di esserti trasformata, solo un paio d’anni più tardi, nel prototipo della femmina che compativi e che ti faceva orrore?

Ernaux è di una precisione disarmante, essenziale e complicata insieme. Consegnarle un matrimonio e la maternità serve ancora, perché ha avuto il coraggio – in tempi (ancora) più ostili dei nostri – di dubitare dell’illusione, di analizzare un’infelicità, di imbastire un discorso sul potere e di alzare una mano per ricordare che le mani servono anche a scrivere, oltre che a brandire dei mestoli.

I “libri-esperimento” mi piacciono quasi sempre. Che sono? Sono quei libri che raccontano un’impresa individuale e che, nel delinearne una sorta di cronaca o di diario di bordo, esplorano anche un tema specifico e cercano di documentare un percorso di trasformazione. L’esperimento che Pietro Minto si infligge in La seconda prova – in libreria per le Frontiere Einaudi – riguarda la matematica: da pessimo studente dello scientifico che è stato, Minto si mette in testa di imparare da capo e “da grande” la matematica delle superiori. Vuole scoprire che cos’è andato storto, vuole capire se ne sarà capace, vuole vendicarsi, cerca una rivincita o anche solo una risposta. Cos’è che non digerivo? Perché ho sempre fatto così fatica? Il mio cervello riuscirà finalmente a far pace con gli integrali?

Io e Minto abbiamo in comune la scelta scriteriata del liceo da frequentare. Era chiarissimo che le mie attitudini puntassero altrove e già dalle medie la matematica era la mia materia più debole, ma eccoci qua iscritte a una bella sperimentazione Brocca.
Vai, Francesca, vedrai che ti fortifica.
Mi son diplomata con 95 perché prendevo dei 6 risicati nelle materie d’indirizzo – con tanto di ripetizioni da due professoresse gemelle che insegnavano entrambe matematica e avevano sempre la casa piena di derelitti tipo me – ma andavo così bene in tutte le altre che in qualche modo ce la siamo cavata. In prima ho beccato il debito, in seconda no perché il professor Torre è andato in pensione e credo non avesse più voglia di pensare a noi. Dalla terza in poi son stata a galla riuscendo a padroneggiare il TEMA X esattamente un mese e mezzo dopo la verifica sul TEMA X. Insomma, non capivo col giusto tempismo e non ho mai capito niente, ma prima o poi riuscivo almeno a simulare una vaga padronanza dell’argomento: non so cosa sto facendo ma c’è della roba che posso imparare a memoria e piuttosto crepo ma è a quello che devo aggrapparmi. “Ma quindi… con voi è così? Scusatemi, non ci ho mai voluto credere” è stato a grande linee quel che ha detto la mia professoressa di italiano ai suoi colleghi delle materie d’indirizzo alla fine dell’orale della maturità. Io alla seconda prova ho preso un miracoloso 11/15, perché ho disegnato una funzione mostruosa ma immagino di aver avuto miglior fortuna coi problemi. E non ho pianto perché era già tutto totalmente irreparabile, cosa piangiamo a fare.

Insomma, questo sconclusionato amarcord serviva a esprimere la mia profonda vicinanza nei confronti di Pietro Minto. Io so chi sei, Pietro. Il tuo disorientamento è anche mio. Invece di farsi diagnosticare una sindrome discalculica – giuro, ci ho pensato, perché troverei conforto in una spiegazione clinica -, Minto ha deciso di riprovarci e si è messo a ristudiare da capo TUTTA la matematica della scuola. Pazzo? Masochista? Eroe? Chissà. E io, che con Ruffini al massimo mi sono scomposta la voglia di stare al mondo, ho letto con sincera partecipazione questa avventura assurda. Con una certa dose di tifo, addirittura. Mentirei se vi dicessi di aver capito delle cose che mi sono sfuggite in gioventù – mi dispiace, Pietro, tu sei stato molto chiaro nell’illustrare i concetti ma temo che il mio problema sia troppo profondo – ma ho apprezzato la componente “personale” e anche le incursioni storico-divulgative. Scorgere della passione, uno slancio risolutivo, il tentativo autentico di sconfiggere un demone antico è stato corroborante. Sono felice per Pietro Minto perché forse ha fatto – a scoppio ritardato – quello che mi è sempre stato rimproverato di non saper fare: metterci costanza, impegno, convinzione. Mai mi son sentita poco convinta come quando una ventina d’anni fa, alla lavagna, ho annunciato SCOMPONGO CON RUFFINI O ALMENO SPERO, ma che Minto lo sappia fare mi riempie di gioia. Io sto bene così. E spero che i miei bambini non mi chiedano mai di aiutarli coi compiti di matematica.

Dunque, di Ilaria Bernardini avevo letto con trasporto Faremo foresta e torno a frequentarla con Il dolore non esiste – uscito per Mondadori -, una storia incasellabile nel filone degli scrittori e delle scrittrici che terrorizzano la propria famiglia parlandone nei loro libri. Nel caso di Bernardini, però, scrivere del padre è un esperimento di “contatto”, di recupero del ruolo di figlia all’interno di una relazione che si è rotta, forse senza rimedio.
“Mio padre non mi parla”, dichiara all’istante Bernardini – e non lo fa da tanti anni. Però un padre che le parlava, che manifestava la sua presenza (per quanto scostante, diluita o regolata da confini precisi) nella vita della famiglia è esistito, fino a un certo punto.
Che è successo? Perché parla a tutti e a lei no? Perché si è tenuto alla larga anche dagli eventi più enormi dell’esistenza “adulta” di sua figlia? Perché non c’è più un posto per lei?
Per spiegarsi quello che mai le è stato spiegato, Bernardini cerca di ricostruire la vita di un padre che resta ingombrante, magnetico e fondamentale pur non partecipando mai allo scorrere di un presente che si fa sempre più lungo, dilatato e incomprensibile. Tu non mi vuoi parlare? Perfetto, parlerò io anche per te. È un modo come un altro per tenerti con me.

L’ombra del padre si intreccia a un presente di sceneggiature da consegnare, di bambini che smettono di avere un bisogno completo di noi, di isole, di isolamenti forzati e di pugni tirati. La boxe è un collante imprevedibile – per quanto in differita – tra padre e figlia. Bernardini si allena in vista di un match che dovrebbe finalmente ricomporre la frattura, ma anche per combattere bisogna essere in due… e non è detto che ci si voglia far male per davvero, quando già basta la lontananza ad allenarci al dolore. Negarlo rende più forti? Quanto possiamo incassare? Come si tira avanti quando abbiamo l’impressione di essere diventate superflue – per chi ci ha cresciute come per chi stiamo provando a crescere?

È una storia difficile da classificare. Avvolge pur parlando di distacco e penso sia anche un buon esempio di cosa significhi scrivere per colmare vuoti, neutralizzare assenze o confrontarci con quello che non capiamo. Non sempre si arriva a una risposta lineare. Per sentirci “presenti” bisogna registrare le scosse del quotidiano, osservarci mentre capita dell’altro, costruire una specie di sistema orbitale che tiene insieme piani diversi che funzionano tutti insieme – e seguono spesso moti irregolari. 

[Volete farvelo leggere da una portentosa Sabrina Impacciatore? Trovate l’audiolibro su Storytel. Non avete ancora collaudato Storytel? Ecco qua il “nostro” periodo di prova gratuito esteso.]

Orbene, Dentro la vita di Luciana Boccardi riparte da dove eravamo collettivamente approdati con La signorina Crovato, confermandone il gradevolissimo e avventuroso andazzo.
Per inquadrare meglio, l’inizio-inizio ci colloca a Venezia nel 1936, a casa di una famiglia di musicisti – di illustre per quanto rovinosa discendenza – che sprofondano in una dignitosissima e alacre miseria dopo una disgrazia capitata al vulcanico padre clarinettista, Raoul. Cercando di sbarcare il lunario, la madre decide suo malgrado di allontanare temporaneamente Luciana. La bambina, crescendo, verrà chiamata a dare una solida mano per sostenere l’economia domestica, tra peripezie di ogni genere, la malaugurata ascesa del fascismo e impieghi assai variegati. Piena di risorse e di una forza d’animo invidiabile, date le grame circostanze, Luciana si industria per studiare e per trovare un impiego alla Biennale, polo culturale dell’arte, della musica, del teatro e del bel mondo dell’epoca. Ed è qua alla sua scrivania, non ancora diciottenne e fiera del grembiulino nero che porterà per quasi tutta la sua permanenza in Biennale, che la ritroviamo all’inizio del secondo volume della sua epopea personale.

Dentro la vita : Boccardi, Luciana: Amazon.it: Libri

Vera e romanzesca insieme, la parabola di Luciana Boccardi è uno spaccato di storia (e di storia del costume) che dai padiglioni in perenne fermento del Lido ci porta fino alle passerelle della moda parigina, tra macchine da scrivere, matrimoni non convenzionali ma funzionanti, grandi nomi e scorci lagunari. Una modernissima donna d’altri tempi, che ripercorre con orgoglio le tappe fondamentali di un’esistenza che forse poche e pochi – disponendo di una differente predisposizione d’animo – sarebbero riusciti ad affrontare con la medesima grazia divertita e con quella singolare capacità salvifica di cambiare pelle al momento giusto, riuscendo comunque a non tradirsi mai.

[Luciana Boccardi, firma storica del Gazzettino di Venezia, è scomparsa poco tempo fa, ma per darvi un’idea del piglio narrativo – che ben ritroviamo anche nei primi due capitoli della sua storia – ecco qua la sua ultima intervista. Era stato annunciato anche un terzo volume a concludere il ciclo, ma vediamo che accadrà…]

Tanti libri ci arrivano come oggetti compiuti, stabili e “chiusi”, altri sono deliberatamente costruiti per mostrarci cosa succede quando si cambia idea strada facendo, per motivi che spesso sfuggono alla volontà e andrebbero classificati come cause di forza maggiore. Certo, anche renderci partecipi dei movimenti che il burattinaio compie per mettere in scena la sua versione della realtà inseriscono un indubbio livello d’artificio, ma prendiamo per buone le premesse. Nel caso specifico di Carrère, poi, al filtro che la scrittura impone inevitabilmente a qualsiasi fatto che si scelga di trasportare sulla pagine (anche il più assodato e inequivocabile) si aggiunge un ulteriore domandone: ma fino a che punto sarà vero? Ma è poi così importante che lo sia?

[Per approfondire un po’ di traversie personali che sconfinano nel romanzesco – o in quello che viene dichiarato come romanzesco ma poi chissà – vi rimando a questo articolo].

La veridicità e l’aderenza autobiografica, secondo me, in Carrère riescono ad essere allo stesso tempo questioni centrali e del tutto marginali. Credo capiti perché sono balle eccellenti – se propendiamo in toto per il partito delle balle – o perché anche lui, scrivendo, si inserisce nell’artificio e ne parla con quel candore tra il misterioso e il reticente di chi ti sta fregando perché, forse, anche lui ha bisogno di rifugiarsi in quella versione lì della storia. Insomma, ce la racconta… ma probabilmente se la racconta anche. E ci ritroviamo sulla stessa barca.
Si ritorna anche un po’ all’idea di partenza: i fatti saranno anche fatti, ma il mero atto di raccontarli ne restituirà inevitabilmente una versione che passa per il ricordo, per uno stato emotivo che comprende chi eravamo quando una cosa ci è successa e chi siamo diventati mentre la rievochiamo. Se c’è un posto dove saremo sempre candidamente disonesti, deliberatamente infedeli o un misto dei due estremi forse è proprio quello della memoria.

Ma insomma, di che parla Yoga?
Parla di uno scrittore che pratica yoga, meditazione e tai chi da tanti anni e che si accinge a partecipare a un ritiro “intensivo”, durante un periodo felice della sua vita. Gli sembra di essersi avvicinato a quello stato di “meraviglia e serenità” che tiene a bada sia gli autosabotaggi che l’impulso a dubitare che la pace raggiunta sia fragile e transitoria. A coronamento di questo cammino, vorrebbe scrivere un libro sullo yoga per condividere la bellezza di quest’armonia tra corpo e mente anche con il lettore più svagato, a cui di solito toccano solo manuali raffazzonati di self-help che tendono a buttarla in ginnastica pura o in scemenze pseudospirituali da guru del supermercato.
Quel libro lì, quello rassicurante e luminoso sullo yoga, non è questo libro.

Yoga parla di yoga, ma parla soprattutto del perché Carrère non sia riuscito a rispettare gli intenti iniziali. Si passa da Charlie Hebdo e una diagnosi psichiatrica, transitando anche per un campo che “ospita” rifugiati, spesso giovanissimi, su un’isola greca. Si parla di una mente che si disgrega all’apice di un momento che pareva felice e sicuro e del pantano buio che ne consegue. È soprattutto un libro che parla di lacune, perché tanti sono i vuoti che ci separano da quello che vorremmo essere. È come se anche questo resoconto – dichiaramente non accurato – abbia subito una lunga sequela di elettroshock.

Insomma, a parte quello che “succede” nella testa del Carrère che incontriamo sulla pagina – un viaggio che già si rivela ricchissimo e terribile -, quel che ci rimane davvero è una forma di meditazione. È il riflesso deformato di un lungo e lentissimo movimento verso l’unico obiettivo che forse tutti quanti condividiamo: stare un po’ meglio di come stiamo, pian piano. Sbagliando. Sprecando calma, demolendo involontariamente porti sicuri. E raccontandoci le palle che servono.