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Cinema! Sogni! L’età d’oro di Hollywood! Cellulosa! Divi! Dive! E Lucia Wade, sceneggiatrice. Insieme al marito Vincent – istrionico regista e assiduo sollevatore di bicchieri – forma una promettente coppia creativa. Lì per lì innamoratissimi, affiatati e pieni di idee, i coniugi Wade si fanno in quattro per racimolare i finanziamenti per il loro debutto sul grande schermo e, tra mille rogne e soluzioni creative, approdano ai tanto agognati successi. Si fanno un nome, si trasformano in acclamati autori e li troviamo pure candidati all’Oscar. Lui, vulcanico e umorale, si gode il prestigio riservato ai registi emergenti mentre Lucia macina pagine alla macchina da scrivere, senza badare troppo al ruolo evidentemente defilato che Vincent tende ad accordarle. È sicura del suo amore e farebbe di tutto per sostenerlo, anche se i rospi da ingoiare non sono pochi, i soldi scarseggiano sempre e l’ambizione (spesso frustrata) scava solchi di non facile gestione. Tutti quanti – Lucia compresa – sono convinti di vivere un Grande Amore Speciale, superiore alle tribolazioni e alle meschinità che distruggono i legami degli altri, ma scopriremo all’istante che nemmeno i Wade sono fatti per durare.
Chi siamo diventati?
Dov’è la persona che ho conosciuto?
Chi ho amato io è mai esistito?
Ne vale la pena?
Lucia si rifiuta di trasformarsi nel cliché della moglie abbandonata e affranta che tanto detesta scrivere e si aggrappa all’unica certezza che ha – che è proprio la scrittura, incidentalmente. Con o senza Vincent, lei è una sceneggiatrice. Brava, pure. Avrà vita facile fra produttori, studios, agenti e agghiaccianti consulenti con le competenze di nostro cugino chiamati a rivedere le sue pagine? Certo che no. A Hollywood o fai l’attrice o fai la segretaria… di sceneggiatrici in giro ce ne sono poche. E quelle quattro gatte già sembrano troppe…

Lucia Wade è Eleanor Perry e Pagine azzurre è una versione romanzata della sua vita e delle sue peripezie sentimental-lavorative. Uscito nel ‘79 negli Stati Uniti, il libro spunta qua da noi per la prima volta per SUR nella traduzione di Marco Rossari – che riesce a preservare mi pare assai bene il taglio da commedia brillante e a mantenere scoppiettanti e caustici i dialoghi.
La struttura non è lineare ma procede per balzi temporali e “scene”, come in un buon copione che non abusa dell’esposizione o dello spiegone trito. Lucia e Vincent ci appaiono a diversi gradi di deterioramento, anche se l’ossatura principale è fatta dal presente di Lucia, tra lavori frustranti, rivendicazioni di competenza che cadono tendenzialmente nel vuoto e relazioni con emeriti imbecilli. Il passato è fulgido e miserabile insieme, pieno di segnali che solo il senno di poi fa risultare ovvi. Lucia è disillusa ma battagliera, stufa marcia ma abbastanza scafata da godersi gli episodi più grotteschi che le capitano come uno spettacolo. Questo libro è uno sberleffo e una rivincita, il ritratto di un’epoca e di un settore specifico – molto meno favoloso di quanto vorrebbe la leggenda.
Ci son signore che hanno preso più di un pesce in faccia, risparmiandone forse qualcuno a noi, signore del futuro. La rete è ancora piena, ma Perry – facendoci ridere e schiumare di rabbia – è una voce degnissima di essere ancora ascoltata.

Appunto sparso: c’è pure Capote. Ovviamente camuffato. Ma si vola altissimo lo stesso.

Farò come per JFK, ma senza epiloghi cruenti. Giacomo Keison Bevilacqua: GKB.
Sono una lettrice “tardiva” di GKB. Mi son persa le prime incursioni del suo celeberrimo panda, ma sono arrivata in tempo per Troppo facile amarti in vacanza e non volevo perdermi questo suo nuovo lavoro, che è tante cose diverse insieme. Come parecchie storie che si rivelano preziose, il punto di partenza è un momento di crisi. Il garbuglio da districare è fatto di ritmi lavorativi che confliggono con quelli “personali”, di bimbi che nascono e che rivoluzionano il modo che abbiamo di intendere il tempo e il nostro posto nel mondo, di dolori articolari che non passano mai e di incapacità di restare coi piedi piantati nel presente.

Sono una testa di panda – in libreria per BAO Publishing (ed equipaggiato pure con una ghiotta incursione di Zerocalcare) – è una riflessione che vortica attorno a un percorso artistico lungo, fortunato e poco riposante e alla necessità di costruirsi una corazza per soddisfare aspettative pubbliche ed esternare un livello “adeguato” di gratitudine. Misurare se per gli altri i nostri sforzi saranno mai sufficienti è complicato, quando siamo noi in prima battuta a pretendere sempre qualcosa in più da quello che creiamo, dai ritmi che ci imponiamo, dall’originalità delle nostre idee, dalla qualità delle relazioni che teniamo in piedi.
Chi c’è dietro la maschera – che nel caso di GKB è il testone di un panda, ma ognuno poi finisce per scegliersi la corazza più adatta? Cosa succede quando ci si affeziona troppo alla propria corazza? Quand’è che si supera il confine e le barriere protettive diventano prigioni che ci isolano nelle nostre teste? Come è possibile che anche il lavoro che amiamo finisca per trasformarsi in una trappola?

Quello di GKB è un percorso di auto-ascolto, mi vien da dire, fatto di interventi “corporei” e ansie raccontate. L’obiettivo è riconquistare gli spazi vuoti per lasciarli effettivamente vuoti, è un lavoro di attribuzione di significati nuovi – e mi sa anche più sani – all’inefficienza. Non è tempo che perdiamo, è tempo che serve per riossigenarci. È concedersi il grande lusso di pensare che c’è qualche no che va detto, perché non abbiamo più pezzi di noi da dare agli altri e le batterie vanno ricaricate per ritrovare slancio. È camminare fino all’acqua, guardare una manina che accarezza una poltrona soffice, rammentare che non ci è stato regalato molto e che costruirsi una strada ha richiesto fatica e dedizione.
Essere “abbastanza” è possibile, ma se ce lo concediamo, se arriva un bel DIAMOCI UNA CALMATA che spezza la ruota su cui corriamo perché star fermi ci spaventa – o ci pare di saper fare solo quello. Ma è anche riconoscere che stiamo camminando su quella ruota e che man mano che avanziamo impariamo a districarci meglio e a superare gli ostacoli. Cosa succederà a GKB ve lo lascio scoprire leggendo, cosa succederà a voi pure. C’è molto che può parlarci in questo fumetto, anche se il nostro lavoro non è scrivere e disegnare e anche se magari non abbiamo nessuno – a parte noi – da crescere. E dici poco? È quello il lavoro vero di una vita intera.

Vi risparmio l’elenco lunghissimo degli importanti riconoscimenti conquistati da Kate Beaton per questo lavoro, ma tenete presente che ci sono – Eisner Award compreso – e che sono meritati. Ducks è un libro che potrebbe alimentare una tale quantità di discussioni “calde” da farci scoppiare la testa, anche perché l’epoca che racconta è al contempo vicina (cronologicamente) ma lontanissima per sensibilità e istanze maneggiate dall’opinione pubblica. Credo sia questa specifica collocazione “di confine” a farne un libro così emblematico: i nodi sono venuti al pettine oggi (o in un passato relativamente molto recente), ma il garbuglio c’era già… o c’è sempre stato, anche se non conveniva alzare la mano per segnalarlo.

Si sta discutendo spesso di autofiction, di preponderanza dell’autobiografia sulla narrativa d’invenzione, di presunzioni d’universalità anche quando si racconta delle proprie unghie incarnite, di che valore possano avere le minuzie individuali – vendute e ben confezionate come grandi rivelazioni – nel panorama del pensiero umano. Ecco, Beaton ha saputo riconoscere la rilevanza di un’esperienza personale e ce l’ha restituita in Ducks – in libreria per BAO con la traduzione di Michele Foschini –, compiendo quella famosa prodezza del “tu che adesso hai una voce… usala per portare a galla questa roba che si è trasformata su mille piani diversi in un bel problema collettivo!”.
E quale mai sarà quest’esperienza così stratificata e significativa? Pare una faccenda circoscritta e MOLTO “site-specific” ma non è solo questo. Beaton arriva da un’isola del Canada atlantico. Nel 2005, a 21 anni, si è laureata in arte e ha deciso di partire per l’Alberta per trovare un lavoro abbastanza redditizio da permetterle di estinguere il suo gravoso debito studentesco. Ha passato due anni a lavorare nelle attrezzerie – e successivamente negli uffici “sul campo” – delle grandi compagnie estrattive dell’area di Fort McMurray, terra promessa delle sabbie bituminose.

Perché dovremmo mai leggere la storia di una ragazzina che fa i bagagli e parte da sola per lavorare in un luogo assurdo, lontanissimo da casa e potenzialmente letale?
Perché l’esistenza stessa di una struttura lavorativa simile si innesta su un profondo disagio socio-economico, fatto di posti che si spopolano e di generazioni giovani che non riescono ad accedere a un avvenire dignitoso perché son sommerse dai debiti prima ancora di riuscire a laurearsi – impresa in cui ci si imbarca con l’idea probabilmente superata che il titolo di studio basti a poter star meglio di come stanno le famiglie d’origine.
È una storia tremenda (e preziosa) perché una popolazione “aziendale” in cui il rapporto donne-uomini è di 1 a 50, residente in villaggi fatti di container in mezzo al nulla più assoluto e impiegata in turni che non permettono un contatto significativo con la rete sociale e affettiva di provenienza ECCO è un contesto che trasforma le più basilari norme di convivenza e di umanità, riscrivendole a favore di una situazione liminale, dove la responsabilità si edulcora e l’essere perennemente “di passaggio” fornisce un alibi di ferro per un cameratismo tossico, esasperato e concretamente violento.
È un libro importante perché parla di soldi, di risorse naturali e di impatto ambientale a livello “macro”, ma ci interroga anche sui vari gradi di complicità che possiamo esprimere in via indiretta, magari mentre cerchiamo con gran fatica di guadagnare anche solo il minimo indispensabile.
È una storia di migrazioni economiche e di sconfitta della retorica del “se vuoi puoi” – che di solito ci viene propinata da chi può molto perché parte con le spalle più che coperte -, di scelte impossibili tra radici e futuro, di ambizioni e patti infelici con la realtà, di opportunismo travestito da opportunità dorata. “Che vuoi farci, il mondo va così”, ci ripetiamo quando i problemi che si affastellano sono troppo grandi per essere maneggiati e ci sentiamo estremamente irrilevanti per poter fornire un contributo che faccia una qualche differenza. Forse è vero… ma è una fortuna che spunti, ogni tanto, una voce capace di rendere palese questa sconfitta, che ci racconti un posto “limite” che diventa crocevia di molto di quello che ci preoccupa e che, inevitabilmente, ci riguarda. La nostra storia non sarà mai sovrapponibile a quella di Beaton, ma a quello servono i testimoni attendibili: ci dicono quel che è successo, quello che noi non potevamo sospettare e, per fortuna, anche che quello che mai avremmo voluto sentire.

The End di Anders Nilsen – in libreria per Add con la traduzione di Francesco Pacifico – ha conosciuto diverse iterazioni, revisioni e limature. Descrive un sentimento complesso – la perdita – e l’ha fatto negli anni cercando di rendere giustizia ai nuclei più significativi di quella circostanza, avvalendosi di volta in volta di quel prezioso “senno di poi” a cui sarebbe bello potersi appoggiare per non affrontare con strumenti irrimediabilmente inadeguati il peggio che può succederci. Ogni lutto è di tutti, perché la morte è un destino comune, ma chi rimane lo assorbe come se fosse un evento unico e incomparabile rispetto alle esperienze altrui, perché quel che perdiamo non è un concetto astratto ma una persona vera, che ha occupato uno spazio “pratico” e ideale nel nostro orizzonte concreto.

Nilsen ha messo insieme The End, disegnando e scrivendo, dopo la malattia e la morte della sua fidanzata – una morte che tenderemmo a definire inopportuna e precoce, data la giovane età – nel tentativo di ricavarci consolazione e anche una sorta di messaggio “universale” capace di attutire l’insensatezza delle condanne irreparabili e arbitrariamente distribuite. Tra metafore visive e documentazione delle minuzie di una quotidianità che pare aver smarrito il suo centro, Nilsen analizza il rapporto con un’assenza inaccettabile e con la fatica di abitare un presente monco, perché per concepirci davvero nel punto mediano tra passato e futuro deve esistere un futuro possibile, una vita da costruire con la persona che amiamo e che non c’è più.

È legittimo continuare a vivere? È rispettoso? È auspicabile? Nessuno verrà a rilasciarci un’autorizzazione in carta bollata, ma quel che si apprende qui è che abbiamo tutti diritto a dettare delle condizioni di sopravvivenza “gestibili” e che, molto spesso, è complicato lasciar andare il dolore, perché il dolore riempie ed è pur sempre meglio del vuoto completo.
Non è un libro allegro, ma è onesto e prezioso proprio per la testimonianza di lungo periodo che offre, per il discorso che si sviluppa facendosi sempre più rarefatto e libero dal caso specifico, nella benevola ambizione di poter diventare fonte di conforto in una moltitudine di altri casi. Non si dimentica, ma si impara a tenere la fiamma accesa e a portarla vicino al cuore, dove ci scalda anche se non produce più la luce brillante e visibile che eravamo abituati a seguire.

Ho sempre avuto il terrore delle storie radicate nell’infanzia perché trovo inevitabile fare paragoni sciocchissimi e immotivati con l’infanzia che ho avuto io – a volte ci si sente in difetto e, ben che vada, ci si sente banali. Ora che ho dei figli è ancora peggio, perché insieme alle menate che riguardano me arriva anche la proiezione futura di quello che di me potrebbero pensare i miei bambini, una volta cresciuti (ma pure ora). Ci si chiede costantemente se quel che facciamo va bene, se è sufficiente a garantire loro serenità, pace, salute e allegria. Crescere delle altre persone espone a un genere di fallimento irrimediabile e, soprattutto, imprevedibile. Quel che ci segna non è governabile e sovrasta ogni buona intenzione di partenza, sia nel bene che nel male. Nulla è innocuo ma tutto è vita e, prima o poi, si farà ricordo. La mia unica ambizione è essere ricordata come una presenza benevola, come un essere umano che si frequentava volentieri e con fiducia, indipendentemente dagli obblighi di parentela.

Ho detestato e invidiato Guadalupe Nettel per la sua tersa lucidità, per il modo in cui ha saputo rievocare lo scheletro dell’infanzia – pur avendone vissuta una disparatissima dalla mia, cerotto sull’occhio “pigro” a parte – e per la serenità antica con cui mostra di aver digerito le umanissime manchevolezze di chi l’ha cresciuta. Il corpo in cui sono nata – in libreria per La Nuova Frontiera con la traduzione di Federica Niola – è un memoir che parte da un “difetto” corporeo per farsi storia di formazione solitaria e ostinata, è la storia di una bambina sballottata che sembra vedersi sempre “da fuori” e che mai dispone al momento giusto delle informazioni vitali per decifrare quel che le capita.

Sono figlia e sono stata bambina, sono madre e non sarò mai Nettel e quel che si trova qui è un grande miscuglio di identità in flusso. A fare da sfondo c’è un’epoca non lontana che assume però una rilevanza per me relativa, perché i legami di prossimità creati dal prendersi cura di qualcuno – indipendentemente dal sangue – sono un assoluto. Quel che succede, anche, è il bisogno di interrogarsi sull’attendibilità della memoria, sul potere irriducibile del filtro del tempo e della nostra capacità di sopravvivere all’avverso o alle felicità che non sappiamo contenere. Nettel si domanda, a un certo punto, cosa può saperne lei di quel che le è successo davvero. Sembra un paradosso, ma è lì che incappiamo nei mostri che vale la pena temere: in quel dubbio c’è la consapevolezza di non poter ambire a una giustizia assoluta, a una verità impossibile da smentire. Siamo quello che ci ricordiamo… e ricordiamo a sentimento, per accumulo di reazioni e certezze che maturiamo in un dato istante con gli strumenti che abbiamo lì per lì a disposizione.

Raccontarsi nell’infanzia è un esercizio spietato e gioioso, perché si rimaneggia col senno di poi quello che a lungo è risultato misterioso. Lo si fa quando non c’è più nessuno che si occupa di omissioni atte a proteggerci o quando ci si rende conto che quella protezione non ci occorre più – perché abbiamo sviluppato un’utile armatura… o forse perché abbiamo deciso di far tutto esponendoci al peggio, nella convinzione di aver già saputo sopportare molto. Nettel sceglie una protezione minima e, nel coraggio drittissimo di quel che sceglie di condividere, c’è la grande libertà di riconoscersi carenti, inattendibili, persi. Come figli, genitori, ricordi.

La Grande Era dell’Autofiction ha fatto anche cose buone? Dipende. Ci son traumi su cui si mira a costruire (con furbizia nemmeno troppo mascherata) un rimbalzo emotivo che poco contribuisce alla generale crescita del mondo attraverso la collezione di testimonianze che riecheggiano nell’universalità – così, per farvi capire le pretese che ho quando leggo storie autobiografiche – e ci sono traumi che diventano “materiale” valido perché sono sostenuti da una voce che funziona o che, come in questo caso, sperimenta sul confine sempre complicato dell’umorismo, proprio dove non ci sarebbe un bel niente da ridere.
Chiara Galeazzi è sopravvissuta a un’emorragia cerebrale che, dal nulla, l’ha colpita a 34 anni. Poverina – in libreria per Blackie Edizioni – è il memoir che ha deciso di scrivere per raccontare cosa le è successo. Visto che di lavoro fa (anche) la “persona divertente”, questo è un libro divertente. Non si capisce come, dato il tema centrale, ma è innegabile che lo sia.

Non mi metterò a ripercorrere le tappe cliniche che incontrerete nel libro perché preferisco pensare meglio all’approccio generale. Come anche Galeazzi nota, da “vittima” di un grande malanno, parlare o scrivere di sventure mediche è un groviglio complicato. Il confronto con gli altri segue logiche che sorpassano le reazioni istintive del singolo per produrre una sorta di rituale collettivo capace di tenere insieme doverosa compassione, composta serietà, complimenti per il coraggio e l’impegno dimostrato nel percorso terapeutico, ferme esortazioni per una rapida ripresa e forme di sensibilità che spesso somigliano di più a un soffocato “guarda, meno male che non è toccato a me”. Esorcizziamo il terrore come possiamo. Vogliamo partecipare e sostenere. Manifestiamo una solidarietà che, se fin qua ci è andata bene, non può fondarsi su una vera immedesimazione. Produciamo frasi di circostanza e perdiamo spesso la capacità di regolarci, anche se siamo mossi da nobili intenzioni.

Quel che ho apprezzato, qui, è la fondamentale decisione di non badare a quello che collettivamente tendiamo a ritenere opportuno, decoroso, conforme al momentaccio. Galeazzi, a cui è toccata una roba orrenda che non ha di certo chiesto e che le ha invaso la vita all’improvviso, si riprende il diritto di metterla giù come le pare, di non lasciarsi trasformare in via permanente in quello che le è capitato. È una rivincita da sopravvissuta, certo, ma credo sia anche un invito all’ascolto che arriva un po’ più in profondità, perché ci ricorda che non esistono esorcismi codificati e socialmente accettabili ma solo persone che provano a venire a patti, come possono, con quello che non sempre si può controllare. E la vita, probabilmente, ricomincia davvero quando si ritrova la propria voce – o non la si perde strada facendo.

Veleggiando splendidamente verso gli 80, Bianca Pitzorno decide di raccontarsi nel modo forse più azzeccato per una scrittrice dall’eredità così vasta, varia e avventurosa: che lettrice sono stata? Che posto hanno occupato nella mia vita i tantissimi libri che prima o dopo mi hanno accompagnata? Cos’hanno lasciato a me e cosa spero la lettura possa lasciare agli altri?
Alla vicenda personale di una bambina precoce, felicemente disordinata, curiosa e aperta a un sano conflitto si mescolano, in Donna con libro, ricordi, imprevedibili lessici famigliari e pure un bel pezzo di storia d’Italia – prima insulare e poi “continentale”.

Da Salgari a Mann, passando per la sconfinata BUR e le tante collane “inventate” decennio dopo decennio per ospitare storie e pensieri, Pitzorno ci accompagna alla scoperta di una biblioteca interiore che funziona come fucina inesauribile di identità e prospettive sul mondo, come polmone di formazione continua.
Non c’è la minima boria, in questo libro. Non c’è traccia di quella seriosità parruccona e arrogante di chi pare leggere più per farti pesare una posizione di presunta superiorità che per autentico trasporto e gioia privata. A Bianca Pitzorno frega pochissimo di leggere con quell’ansia strumentale di “posizionamento”. Legge – e ci spiega com’è leggere per lei – perché non può farne a meno, perché la fa felice e perché le piacerebbe trasmetterci il medesimo sentimento di soddisfatto abbandono e inesauribile stimolo alla scoperta.

Insomma, in un universo di tacchini da combattimento, siate il più possibile delle Bianche Pitzorno. Perché no, non è un caso che chi è capace di leggere e di parlare di libri con questo serafico affetto istintivo abbia anche scritto così tante storie che hanno contribuito in maniera decisiva a farci diventare lettrici e lettori.

*

Un’altra signora ragguardevole che di recente ha deciso di auto-ritrarsi attraverso i libri – quelli che di “peggio” le hanno fatto nella vita, nel caso specifico? Daria Bignardi. Ecco qua Libri che mi hanno rovinato la vita (e altri amori malinconici).

Orbene, Dentro la vita di Luciana Boccardi riparte da dove eravamo collettivamente approdati con La signorina Crovato, confermandone il gradevolissimo e avventuroso andazzo.
Per inquadrare meglio, l’inizio-inizio ci colloca a Venezia nel 1936, a casa di una famiglia di musicisti – di illustre per quanto rovinosa discendenza – che sprofondano in una dignitosissima e alacre miseria dopo una disgrazia capitata al vulcanico padre clarinettista, Raoul. Cercando di sbarcare il lunario, la madre decide suo malgrado di allontanare temporaneamente Luciana. La bambina, crescendo, verrà chiamata a dare una solida mano per sostenere l’economia domestica, tra peripezie di ogni genere, la malaugurata ascesa del fascismo e impieghi assai variegati. Piena di risorse e di una forza d’animo invidiabile, date le grame circostanze, Luciana si industria per studiare e per trovare un impiego alla Biennale, polo culturale dell’arte, della musica, del teatro e del bel mondo dell’epoca. Ed è qua alla sua scrivania, non ancora diciottenne e fiera del grembiulino nero che porterà per quasi tutta la sua permanenza in Biennale, che la ritroviamo all’inizio del secondo volume della sua epopea personale.

Dentro la vita : Boccardi, Luciana: Amazon.it: Libri

Vera e romanzesca insieme, la parabola di Luciana Boccardi è uno spaccato di storia (e di storia del costume) che dai padiglioni in perenne fermento del Lido ci porta fino alle passerelle della moda parigina, tra macchine da scrivere, matrimoni non convenzionali ma funzionanti, grandi nomi e scorci lagunari. Una modernissima donna d’altri tempi, che ripercorre con orgoglio le tappe fondamentali di un’esistenza che forse poche e pochi – disponendo di una differente predisposizione d’animo – sarebbero riusciti ad affrontare con la medesima grazia divertita e con quella singolare capacità salvifica di cambiare pelle al momento giusto, riuscendo comunque a non tradirsi mai.

[Luciana Boccardi, firma storica del Gazzettino di Venezia, è scomparsa poco tempo fa, ma per darvi un’idea del piglio narrativo – che ben ritroviamo anche nei primi due capitoli della sua storia – ecco qua la sua ultima intervista. Era stato annunciato anche un terzo volume a concludere il ciclo, ma vediamo che accadrà…]

Orbene, Annie Ernaux è un’autrice che sto pian piano affrontando e che fa della rielaborazione autobiografica – nella speranza di toccare corde universali – la sua cifra narrativa. È asciutta, precisa, inflessibile e acutissima, soprattutto nello sviscerare il sommerso. Ognuno ha il suo, di sommerso, ma lei sommerge anche per gli altri.

Qua sotto ci sono due dichiarazioni d’intenti – usate da esergo per L’evento – che credo inquadrino bene il suo progetto.

Il mio duplice auspicio: che l’evento diventi scritto, che lo scritto diventi evento. – Michel Leirs
Chissà che la memoria non consista solo nel guardare le cose fino in fondo. – Yuko Tsushima

Comunque, in questo capitolo della cronaca del suo transito su questo pianeta, Ernaux ripercorre un’esperienza dai vasti risvolti, l’interruzione di gravidanza a cui ha deciso di sottoporsi nel 1963, a 23 anni, quando in Francia la procedura era ancora illegale.

Se il tema vi angustia, siete avvisati e avvisate: si parla di aborto, con dovizia e nel suo complesso. Se ne parla in termini psicologici, pratici, “sociali” – perché è all’interno di una società con regole che imbrigliano la possibilità di decidere sul corpo femminile che Ernaux si trova ad agire, in quel momento.
Se ne parla come impatto potenziale sul futuro, come reazione istintiva, come estraneità a un ruolo che l’autrice non è pronta ad assumersi. Se ne parla come evento che trasforma e segna, restituendo qualcosa nel togliere.

Ernaux, in mancanza di alternative legali, finisce per ricorrere alla clandestinità, tra rischi sia fisici che “penali”. È un libro facile? No. È una testimonianza che fotografa un punto di svolta totalizzante? Certo. È uno spunto per pensare, nella sua totalità, al valore fondamentale del diritto di decidere? Sì.