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Orbital di Samantha Harvey ha vinto il Booker Prize 2024 ed è stato accolto da una generalizzata meraviglia da parte di stampa e critica. In italiano ha trovato casa da NN Editore, con la traduzione di Gioia Guerzoni. Io, che sui premi internazionali tendo a essere più reattiva che sui riconoscimenti nostrani, l’ho letto in inglese perché ero curiosa. Ci possiamo fidare ciecamente di Gioia? Direi di sì.

È un libro di indubbia originalità e peculiare esecuzione. Relativamente breve ma a suo modo densissimo, è un esperimento narrativo che si svolge per intero a bordo della Stazione Spaziale Internazionale nell’arco di sedici orbite attorno al nostro pianeta. Perché proprio sedici? Perché quello è il “percorso” normale e quotidiano della stazione nell’arco di 24 ore.
E che succede? Quasi niente.
L’equipaggio, composto da sei astronauti di provenienze terrestri differenti, lavora, mangia, dorme, pulisce, svolge esperimenti, fa manutenzione, fluttua, scatta fotografie.
La vita pratica che Harvey riproduce è fatta di routine ferree, indispensabili al buon funzionamento di un microcosmo d’intricatissima complessità e delicatezza, e di pensieri sospesi, di contemplazione rarefatta e di serie sempre identiche di incombenze parcellizzate. Le missioni durano mesi e chi arriva a farne parte – rispondendo a vocazioni viscerali – si trasforma in un ingranaggio della macchina e al contempo la modifica: ogni equipaggio diventa un organismo unico e irripetibile, fatto di pezzi meccanici e di anime in viaggio, di dati e di legami. Chi ci accompagna per queste sedici orbite finisce per ricoprire un ruolo dichiarato, negli spazi angusti della stazione. Anton è il cuore, Pietro è la mente, Roman è il braccio, Shaun è lo spirito, Chie è la coscienza, Nell è il respiro. La stazione procede imperterrita con loro nelle viscere, imprigionandoli e proteggendoli e, soprattutto, collocandoli in una posizione rara. Nessuno vive in pianta stabile così lontano dalla superficie del pianeta, nessuno esperisce il medesimo stato di sospensione – il moto orbitale è, tecnicamente, una caduta libera che raggiunge un punto d’equilibrio -, nessuno vede sorgere la Luna e il Sole così spesso. La Terra è un grande spettacolo che sfiora l’astratto e che evoca interrogativi incessanti, la stazione è un’impresa umana assurda e fragile. Che la vita perseveri, in entrambi i posti, è l’ultimo dei miracoli. 

Sì, ci troverete dentro anche questo quadro. Tornate poi a dirmi se concordate con l’interpretazione di Harvey e degli astronauti. 🙂

Harvey vi proporrà a ciclo continuo descrizioni liriche di quel che si può ammirare dagli oblò – fan della geografia, ve ne rallegrerete – e l’impasto dei pensieri e dei ricordi dell’equipaggio. Tre eventi emergeranno per ancorare gli astronauti al resto degli accidenti umani: un tornado mastodontico da monitorare, una persona cara che muore, un’altra missione che rende quasi puerile il movimento circolare della stazione. Saranno tre sterzate potenti? No, perché in questo romanzo – e nel come sceglie di raccontarci la vita umana in un contesto così unico – le proporzioni non funzionano come le intendiamo noi. E nemmeno il tempo, le distanze, i legami. Verremo a tratti investiti da un tedio infinito e sorpresi un istante dopo da un’illuminazione improvvisa, ci convinceremo di essere troppo insignificanti per mutare il corso delle cose e ci sentiremo, immediatamente dopo, paralizzati dall’immensa fortuna di esistere. È un libro strano: pesantissimo e incorporeo, claustrofobico ma vasto. Funziona, forse, come la forza di gravità su un essere umano che diventa un astronauta: il corpo smette di avere peso, mentre il cervello continua a gestirlo come se ci fosse ancora qualcosa che fa resistenza, che ti tira giù verso il suolo e ti obbliga a sapere sempre dov’è l’alto e dov’è il basso.

GRAVITY

Da piccola, per far contento il mio papà, dicevo che mi sarei laureata in ingegneria aerospaziale. Avevo letto da qualche parte che per diventare astronauta bisognava studiare quella roba lì. Ero molto lanciata, sulla storia dell’astronauta. Dopo la prima pagella del liceo scientifico, però, ho capito che non sarebbe andata a finire proprio benissimo, nonostante la mia sincera ed entusiastica fascinazione per lo spazio. Il fatto è che coi miei voti nelle materie d’indirizzo ci si poteva evocare il demonio. 6 in matematica. 6 in scienze. 6 in fisica. E 9 da tutte le altre parti. Per cinque anni. Che uno dice, succede un anno solo, può essere stato un incidente. Macché, cinque anni a far riemergere Satana da un abisso fiammeggiante. Non ne vado fiera, ma è andata così. Solo parecchio tempo dopo il mio papà ha avuto la forza di ammettere l’evidenza: obbligarmi a fare lo scientifico è stato un insulto contro Dio. Non c’è niente di più blasfemo del vedermi seduta lì che cerco di risolvere un integrale. Alla fine sono uscita con 95 lo stesso, dal liceo, ma se potessi tornare indietro e gridare qualcosa alla piccola me di terza media, griderei più o meno un MANDALI A STENDERE E SCAPPA DI CASA. E SFASCIA PURE IL PIANOFORTE.

gravity-debris

Comunque.
Nonostante la mia totale impermeabilità a qualsiasi genere di nozione fisica, adoro le imprese spaziali, voglio un bene dell’anima ai rover che vagano su Marte e, Lost in Space a parte, amo la fantascienza – sia quella fanfarona e sparacchiona che quella più “realistica”. La minuscola me che voleva fare l’astronauta, probabilmente, non si è ancora rassegnata. Ed è dunque con questo spirito (e con le poche informazioni fisico-gravitazionali ricavate da Angry Birds Space… gioco in cui, per altro, sono una pippa) che sono andata a sedermi di fronte a Gravity di Alfonso Cuarón. Con tanto di pop-corn.


da this isn’t happiness

E va bene. Ci sono un mucchio di robe che nello spazio non funzionano come nel film. E se me ne sono accorta io, vuol dire che sono cazzate grosse grosse.
E va bene. Sandra Bullock ad un certo punto si mette a ululare e ad abbaiare come un cane, il che non è proprio una trovata brillantissima, a livello di sceneggiatura e approfondimento del personaggio.
E va bene anche che vederla sopravvivere alla prima pioggia di sfiga-frammenti-orbitanti (in compagnia, per giunta), è già qualcosa di eccessivamente incredibile… figuriamoci poi il resto.
E va anche bene domandarsi come sia possibile che un medico dell’ospedale con sei mesi di addestramento astronautico sia lì che armeggia con Hubble come se fosse il frullatore di casa sua. Per non parlare di quello che riesce a fare dopo.
E anche a me è parso bizzarro che lo Shuttle, la Stazione Spaziale Internazionale e la Stazione Spaziale Cinese fossero lì tutti belli vicini, alla stessa altitudine e serenamente visibili a occhio nudo.
E le traiettorie di rientro? Cioè, è un attimo trasformarsi in orride palle di fuoco. Non si può mica precipitare a casaccio.
E quel qualcosa che non convince-convince quando George Clooney ti piglia al guinzaglio nello spazio e ti tira in giro.
Per non parlare dell’inverosimile sicumera e della totale assenza d’agitazione dell’astronauta Clooney, in modalità rassicurante-gattone-caffé-Illy-in-vena-di-chiacchiere.

Ecco, va bene tutto questo (e pure qualcosa in più). Ma a me Gravity è piaciuto moltissimo lo stesso. Sarà che ho una spiccata attitudine alla sospensione dell’incredulità, sarà che mi sono lasciata rincoglionire dall’aurora boreale, sarà che ad un certo punto ero così in ansia che mi andava bene pure Sandra Bullock rimbambita che ulula, ma mi è proprio sembrato di assistere a un degno spettacolo. Mi è quasi venuto da dire “ecco, è per queste cose qua più giganti della vita e anche del pianeta Terra, che uno decide di andare al cinema, certe volte”. A parte la meraviglia visiva di quel che c’era e il perenne interrogativo del “come diamine avranno fatto a fare questo film” mi sono sentita un po’ un giudice di X-Factor che, con Cuarón sul palco, gli fa “mi hai davvero trasmesso qualcosa, anche se magari potevi dare qualche soldo in più ai tuoi consulenti tecnici della NASA. Però, considerando anche che c’è un personaggio che parla da solo per due ore, non te la sei poi cavata così tanto male. Anzi”. Proprio io, che la storia del “mi hai emozionata” l’ho sempre odiata. Stavo lì a bocca aperta. E ho pure pianto dentro ai pop-corn, in mezzo a uno di quei super-crescendo musicali nel vuoto siderale. Quindi niente, sono uscita dal cinema piena di stupore… e spero che là fuori, parecchi ex-6 stiracchiati in fisica potranno fare dei grandi OOOH e AAAH davanti a questo film senza sentirsi troppo in colpa. Perché è un polpettone spaziale scaldacuore, e tutto quello che si vede è strabiliante… detriti compresi, anche se viaggiano a qualche migliaio di chilometri al secondo e manco per tutti i razzogomiti di Pacific Rim uno si accorgerebbe che stanno passando. Ecco. Azzarderei un chi se ne importa. Godetevi l’orbita geostazionaria. E arrabbiatevi per qualcosa di ben più importante, tipo le invidiabilissime chiappe sode di Sandra Bullock. Quelle sì che sconfiggono anche la più volenterosa delle sospensioni dell’incredulità.

Tegamini qua e Tegamini là! E prima che possiate dire “Tegamini anche basta”, vi informerò di una nuova collaborazione che mi rallegra immensamente e che, per osmosi e umana solidarietà, dovrebbe far saltellare anche voi. Perché da oggi potrete leggere delle Tegaminate anche su Gazduna!
Và che gioia, mi hanno anche fatto un foto-trailer:

Questo felice ritratto – che ha anche il pregio di nascondere le occhiaie – viene dal pratino verde dei TweetAwards 2012, luogo che ha sancito e benedetto l’incontro tra me+borsagallina – qui in veste di agente – e le adorabili fondatrici di Gazduna, che mi hanno pure donato quel magnete lì. Poco tempo dopo, le protettrici dei colibrì hanno segnalato Tegamini tra i blog indispensabili alle vostre esistenze, esortandomi a prendere parte all’ultimo blitz dell’anno. I blitz – momento tutorial – sono gli argomenti mensili di Gazduna, gli allegri contenitori tematici che ospitano, di volta in volta, i contributi dei fortunati postatori di articoli. Ecco, io a quell’ultimo blitz dell’anno non ho fatto in tempo a partecipare… ma poi ho comprato un quaderno per segnarmi le cose da fare e sono finalmente riuscita a saltare sull’allegro carrozzone.

Ecco il blitz di questo mese:

Cari gazduni, con questo Blitz! vi sveleremo alcuni dettagli della biografia del Buon Gaz che vi lasceranno con la boccuccia a O.
Ora, voi dovete sapere che quando gli uomini primitivi, dopo una notte di tempesta, trovarono un legno in modalità “tizzone arroventato” e inizarono a cuocersi costolette di pterodattilo, Gaz c’era. E che dire diquando l’uomo si accorse che le cose tonde corrono in discesa che è una meraviglia e inventò la ruota? Ebbene, Gaz aveva già la sua bicicletta. Si dice poi che all’altro capo del telefono senza fili di Marconi ci fosse un tal MacGaz.

Questi scintillanti e finora misconosciuti accenni biografici servano per rendervi noto che il prossimo argomento sarà: l’invenzione.

Saccheggeremi gli uffici brevetti, ci spremeremo le mengingi assieme ad Etabeta, ci faremo chiamare Genius (soprattutto in intimità), disegneremo macchine volanti che useranno l’Estathe come carburante, saremo un pacchetto di neuroni in preda alla follia creativa.

Ed ecco il mio post:

Il reggipetto di Neil Armstrong
Le tute spaziali della missione Apollo e i loro 21 strati di fashion