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Lo dichiaro all’istante: Love, Death + Robots è una delle mie cose preferite al mondo. La prima stagione ci era piombata addosso senza particolari fanfare, generando un entusiastico effettone-sorpresa dato dalla struttura e dal trattamento visivo estremamente eclettico delle storie. E anche la seconda – uscita il 14 maggio su Netflix – non smentisce il folle spirito delle operazioni. Al comando della ciurma ci sono David Fincher e Tim Miller (qui showrunner/ideatore e già regista direi assai applaudito dalla popolazione del globo per Deadpool), con Jennifer Yuh Nelson a fare da coordinamento registico e da collante creativo.
Love, Death + Robots, per far ambientare bene anche chi si fosse perso il primo giro in giostra, è una serie antologica d’animazione che funziona come una specie di multiverso sci-filosofico. Coi robot. E i mostri. E le navicelle spaziali. E i sentimenti. E lo spazio-tempo. E ROBA. Le puntate sono indipendenti le une dalle altre e hanno una durata variabile – alcune ve le vedete in 4 minuti e altre superano i 20 -, ma sono tutte accomunate dal tentativo di immaginare come l’umanità si proietterà nel futuro o come il mistero, l’ignoto e “l’alieno” possono innestarsi nella normalità che conosciamo, deformandola in mille modi rivelatori. È un grande esperimento narrativo che esplora le vaste potenzialità dell’animazione digitale – ci sono puntate che sembrano film con attori in carne e ossa ed episodi che potrebbero comodamente diventare anime che stanno in piedi da soli, più incursioni che combinano CGI e stop-motion – e che, pur ponendoci immancabilmente di fronte a questioni totalizzanti di vita o di morte non rinuncia al gusto per il bizzarro, l’ironia e il divertimento puro dello spettacolo. Sono due stagioni di paradossi e di ipotesi su quello che la tecnologia potrà farci – o ci ha già fatto. E sono estremamente piacevoli da guardare per varietà, durata ben modulata e imprevedibilità sia visuale che tematica.

Tim Miller ha già confermato che ci sarà una terza stagione – che vedrà il ritorno di un trio di robot EPICI già apparsi al debutto della serie e che sarà composta da otto puntate. In questo secondo volume c’è anche la partecipazione (in una motion-capture di un realismo assurdo) di Micheal B. Jordan, pilota precipitato su un pianeta desertico che se la vedrà brutta proprio nel modulo di salvataggio che dovrebbe tenerlo al sicuro.
Chicche letterarie aggiuntive: un episodio arriva da Joe Lansdale ma, soprattutto, c’è la trasposizione di The Drowned Giant di Ballard. Il racconto è stato una fissazione di lunga data di Miller, che dopo aver perseguitato praticamente per anni le figlie di Ballard è finalmente riuscito a ottenere la loro autorizzazione per lavorarci – ci aveva già provato per gli otto episodi d’esordio, ma le eredi l’avevano mandato a stendere. Siamo felici che abbiano acconsentito, anche se a scoppio ritardato. Il risultato è surreale, malinconico, struggente e assurdo… un po’ come tutta la serie.


Pur non essendoci un filo rosso esplicito a legare tutti gli episodi, le puntate si strizzano l’occhio e si passano la palla, mostrandoci quello che succede se decidiamo di fare un passo in più e di superare i tradizionali confini della fantascienza, della robotica, dell’intelligenza artificiale e dei what if classici del cinema o delle narrazioni libresche. Nonostante i robot malevoli, i mutanti fosforescenti, lo spazio profondo e le miracolose rigenerazioni cellulari, al cuore di ogni storia ci sono degli esseri umani che si specchiano nella loro solitudine o nel loro bisogno di stupirsi davanti alla vastità di quello che può esistere – Babbo Natale compreso.
Insomma, è un bel parco giochi… con ottovolanti senzienti che faranno tutto il possibile per uccidervi o per accartocciare in maniera meravigliosamente creativa e inquietante ogni vostra certezza.

A ogni piccolo essere umano instradato verso un destino importante pare serva un fedele Amico Artificiale. È un mondo così: alcuni avanzano e altri vengono lasciati indietro, anche se chi imbocca la via di un futuro auspicabilmente luminoso non è al riparo dalle minacce del presente e, in ogni caso, dovrà chiudersi in una sorta di bolla. Non ci si vede più a scuola, perché si studia da terminale, con tutori e tutrici che riempiono le giornate. I coetanei in carne ossa – quelli che appartengono al gruppo dell’eccellenza promessa, per lo meno – si incontrano durante eventi pianificatissimi di interazione sociale, spontanei quanto una presentazione a corte e altrettanto spietati. Si sta insieme da grandi o si passa il tempo con il proprio androide personale, che nasce – a modo suo – per esserci quando è richiesto, per vigilare con discrezione, per monitorare il benessere del bambino di cui è responsabile, per farlo felice dopo aver processato i parametri delle sue abitudini, delle sue parole e di quel che emerge dei suoi pensieri. Per replicare l’effetto che fa avere un amico.

Klara aspetta in vetrina che qualcuno la compri. Vede il mondo come un reticolo di scene da scomporre, osserva i movimenti del sole con pazienza e meraviglia, perché è dal sole che le sue batterie traggono nutrimento. La permanenza in negozio le insegna la speranza – perché solo quando troverà una famiglia potrà iniziare davvero a fare il suo lavoro – e le fornisce un rudimentale bagaglio di nessi causa-effetto, ricavati dall’osservazione di quello che capita in strada all’ombra di un grattacielo e nel viavai di auto e passanti, che formeranno lo scheletro della sua comprensione del “fuori”, della realtà. Klara crede nel potere benefico del sole e in una bambina che ha appiccicato il naso sul vetro e le ha promesso di tornare a prenderla. E Josie torna. Non sta bene, si capisce dall’andatura incerta e dall’apprensione inflessibile della madre, ma ha scelto Klara. E Klara l’ha aspettata. Che cosa diventeranno, l’una per l’altra?

Il premio Nobel a Kazuo Ishiguro, nel 2017, mi ha messo addosso una grande felicità, per quanto i suoi libri mi provochino immancabilmente dei magoni monumentali. Klara non fa eccezione, anche perché torna a indagare, anche se con modalità e protagonisti di matrice differente – e in parte sintetica, in questo caso -, i domandoni devastanti di Non lasciarmi.
Cosa ci rende umani?
Quanto possiamo sperare che qualcuno ci veda per quello che siamo, piuttosto che per quello che funzionalmente si può ricavare da noi?
Dove abita l’anima?
Klara racconta una dimensione alternativa in cui l’intelligenza artificiale non serve solo a impostare il timer per cuocere la pasta o a blandirci mentre aspettiamo che si palesi un operatore umano che risolva le nostre magagne, ma arriva a simulare in maniera credibile l’interazione interpersonale, lasciandone comunque intravedere i deficit. È un futuro (o un presente alternativo) in cui abbiamo imparato a fabbricare le relazioni, creando degli interlocutori che però possiamo spegnere a nostro piacimento o ignorare quando non abbiamo più bisogno di loro. E forse sta proprio lì la grande differenza, il mistero dei legami: una persona vera non ce lo permetterebbe mai, mentre un AA accetta di buon grado di essere riposto in uno sgabuzzino.
E Klara?
Klara è un miscuglio di ingenuità disarmante, ottusità intermittente e fede incrollabile. Circondata da una pletora di essere umani rassegnati, rabbiosi e scalfiti è l’unica entità che sembra aver conservato la capacità di credere. Stabilisce collegamenti tra fenomeni assolutamente disgiunti e ne ricava comandamenti, come farebbe una bambina piccola che non ha abbastanza informazioni per riempire i buchi – o per perdere la capacità di percepire il magico. Klara offre a Josie la soluzione meno “da macchina” che ci sia. Mentre la madre già si industria per riempire il vuoto che Josie non ha ancora lasciato – INSERISCI BRIVIDO -, Klara va a elemosinare un miracolo al cospetto dell’unico Dio che conosce, perché se non hai ancora metabolizzato i confini del possibile, finisci forse per spostarli un po’ più in là.

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Ma spezza il cuore – domanda obbligata quando si tratta di Ishiguro? Sì. E credo dipenda dal “tipo” di androide che Ishiguro ha scelto di costruire qui. È come se Klara – e i suoi colleghi – fossero al contempo troppo bravi a far finta di essere “veri”, così tanto da non poterci lasciare indifferenti, ma anche così vuoti da non concederci per un istante nemmeno uno spiraglio d’illusione.
Le persone, in prevalenza, trattano Klara come tratterebbero una macchina del caffè a forma di essere umano. Ne lodano le funzionalità, l’efficienza e il realismo, ma solo in circostanze estreme prenderanno in considerazione l’idea di abituarsi a lei come “persona”, ben sapendo che l’autoinganno non reggerà. D’istinto ci risulta abominevole ma, a ben pensarci, la tragedia di Klara è che non le pesa. Percepisce la gentilezza, quando ne è oggetto, ma non ha gli strumenti per esigere di essere trattata diversamente e non chiede altro che poter fare per Josie tutto quello che può. L’unico diritto che rivendica, diremmo per programmazione – o per concessione del Sole – è potersi prendere cura della solitudine di una bambina.

[In italiano è uscito nei Supercoralli Einaudi con la traduzione di Susanna Basso e tre copertine alternative firmate da Bianca Bagnarelli].

[Einaudi ha anche sfornato un test molto arguto per misurare il vostro livello di “fiducia” nell’Intelligenza Artificiale. Si può fare qui.]

[Se volete cimentarvi con il bellissimo inglese di Ishiguro, invece, io l’ho letto in quest’edizione].