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L’esordio di Dizz Tate – tradotto da Annalisa Di Liddo per Neri Pozza – è senza dubbio da apprezzare per il quadro tematico che apparecchia, ma non possiamo manco far finta che sia un libro chiaro, leggibilissimo e limpido. Insomma, Bestie va da qualche parte e ci va con pagine potenti e con rara padronanza di una voce narrante originale – ci torniamo, perché è un punto centrale -, ma s’impantana anche in un’opacità strutturale che mi ha fatto faticare e mi è spesso parsa pretenziosa. Si son sprecati i paragoni con Le vergini suicide – perché se la vicenda ruota attorno a un gruppo di ragazze alle prese con vari orrori, interiori e/o mutuati dal mondo ECCO vuoi non tirare a mano Eugenides? Non sia mai! – ma la somiglianza col romanzo delle sorelle Lisbon mi pare resti un lontano auspicio. Bestie  è un libro che fa decisamente dell’altro… per quanto risulti astuto vendercelo così.

Che succede, in sintesi?
Le “bestie” sono un gruppo di tredicenni. Vivono in una cittadina della Florida, in una sorta di stretta simbiosi. Si appostano e osservano quel che succede nei dintorni dei loro palazzoni in riva a un lago fetido e scuro, guardano TUTTO nella speranza di essere viste, amate, scelte, ma restano ai margini. Vengono da famiglie senza padri, girano scalze, nessuno si prende la briga di accudirle davvero e nessuno sa cosa facciano, in fin dei conti. Quando  Sammy – ragazzina d’oro che le nostre bestioline idolatrano e osservano con particolare trasporto – sparisce nel nulla, tutta la comunità si mobilita per cercarla. Possibile che loro non ne sappiano niente? Lo scopriremo strada facendo.

Il racconto della ricerca di  Sammy è il pretesto che serve per addentrarci in un microcosmo ermetico, inserito in una landa desolata. Le ragazze si nutrono di sogni di fuga e biglietti da conquistare per volare a Los Angeles e diventare delle star. La cultura della celebrità è lo specchio delle loro grossolane illusioni, ma anche del loro candore disarmato, riottoso, cattivo. Si ripetono come un mantra “sei bellissima, potresti fare la modella”, ma hanno i piedi mangiati dalle formiche rosse, i denti blu per i ghiaccioli zeppi di coloranti e i capelli sporchi. “Ti amo, sei speciale”, vorrebbero sentirsi dire, ma il ragazzo di cui si invaghiscono in blocco resta un miraggio da spiare col binocolo. 

Tate mette in scena il loro legame trattandole come una coscienza collettiva. Parlano col “noi”, come i Borg. Il “noi” ci racconta quel che capita durante le ricerche di Sammy, ma il libro prosegue dedicando capitoli proiettati nel futuro alle singole bestioline. Che fine han fatto? Quell’estate ha lasciato segni indelebili? Che adulte sono diventate?
Ecco, quel “noi” è interessante da leggere. È ipnotico, zeppo di ritualità, terrificante nella precisione con cui riesce a cogliere determinate sfaccettature dell’adolescenza. I capitoli “individuali” fan confusione, secondo me. Inseriscono altra roba che dovremmo intuire in filigrana ma invece di alimentare il mistero – dov’è Sammy? Cosa è successo davvero? – introducono elementi tra il mostruoso e lo straniante che pasticciano un orizzonte narrativo già estremamente opaco. Ci son cose che emergono a livello tematico – il bisogno d’amore, l’esclusione, il degrado, il divario di potere, la violenza, l’illusione – che sarebbe stato bello vedere forse affrontate di petto, con meno giri metaforici o ricorso a mostruosità che sembrano ridicole in confronto a quanto di mostruoso possono farsi le persone. Che si tratti di un tentativo di riflettere sulla validità dei ricordi traumatici? Quanto possiamo fidarci (a posteriori) del nostro punto di vista, in situazioni che ci hanno terrorizzate e che non avevamo gli strumenti per gestire? Non si sa, perché finiamo pure noi con la testa nell’acqua scura del lago. E nessuno viene a cercarci, perché nessuno cercherebbe le bestioline… loro non sono Sammy. Noi non siamo Sammy.

 

Un sedicenne di Harlem è in prigione in attesa di giudizio. È accusato di aver fatto da palo in una rapina finita malissimo: il proprietario del drugstore preso di mira è rimaso ucciso e la dinamica del colpo è a dir poco nebulosa. Tra rimpalli di responsabilità, accordi opportunistici con la procura e testimoni inattendibili, Steve Harmon rischia grosso e sta per essere risucchiato da un sistema che più che riabilitare e correggere preferisce puntare il dito contro i “mostri” e consolidare quei pregiudizi che rassicurano chi ha già il coltello dalla parte del manico, con buona pace di dialogo e parità.
Per ricordarsi chi è e provare a elaborare quello che gli sta succedendo, Steve si arma di quaderno e racconta il processo e i giorni in carcere con il linguaggio che gli è più congeniale: il cinema.

Monster di Walter Dean Myers – in Italia pubblicato da Marcos y Marcos nella traduzione di Paolo Ippedico –  alterna la struttura del diario a quella della sceneggiatura cinematografica, che Steve sta imparando a costruire a scuola durante i laboratori di un insegnante che conosce poco le dinamiche reali del suo quartiere ma sembra, per fortuna, più interessato a trattare i ragazzi per quel che sono: studenti con un futuro da costruire, lo stesso futuro a cui Steve forse dovrà rinunciare in caso di verdetto sfavorevole. Dipinto come mostro, inizia a dubitare anche delle sue certezze più basilari, facendo sedere anche noi lettori tra i giurati chiamati ad ascoltare testimonianze e arringhe per impartire una punizione adeguata. Quanto puoi essere innocente, se vieni da un certo posto? Quanto puoi essere innocente, se respiri quell’aria? Quanta simpatia e comprensione puoi sperare di suscitare in un giurato che, al contrario di te, ha la pelle del colore “giusto”?

Uscito nel 1999, Monster è stato un libro fortunatissimo negli Stati Uniti. Walter Dean Myers, cresciuto ad Harlem come molti dei suoi protagonisti, è stato a sua volta etichettato come “ragazzo difficile” e nella sua vastissima produzione letteraria ha cercato di illuminare con franchezza, precisione e – come in questo caso – originalità strutturale le disparità sistemiche della società americana. È scomparso nel 2014, ma di certo il suo lavoro è ancora – nostro malgrado – ben lontano dall’obsolescenza.