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Marta Zura-Puntaroni

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Mia MADRE funziona in questo modo. Se stai male e vai a dirglielo, lei non ti soccorrerà immediatamente (a meno che, va bene, tu non abbia una frattura scomposta, una ferita che zampilla sangue o il manico di un coltello che ti spunta dalla pancia). Prima di accudirti o di offrirti conforto, un rimedio, una soluzione plausibile, MADRE dovrà capire perché hai quel che hai. Inizierà, dunque, a passare in rassegna tutte le possibili cause del tuo malanno e solo dopo aver trovato una spiegazione soddisfacente si deciderà a passare all’azione. Non lo fa perché è sadica, malvagia o perché ci gode a lasciarti lì a patire, lo fa perché ha bisogno – credo – di trovare un’origine alla sofferenza. Deve dare la colpa a qualcosa o a qualcuno (nel 99% dei casi finisce che è colpa tua perché non hai obbedito a una sua specifica direttiva in grado di proteggerti da ogni sventura, ma questa è un’altra storia), deve attribuire la responsabilità a un fattore controllabile, deve potersela prendere con un obiettivo preciso. Sono cresciuta, quindi, con l’idea che per stare male ci fosse bisogno di un motivo molto valido. Che servissero delle prove capaci di giustificare la sofferenza fisica così come quella psicologica. Ho passato anni, quindi, a non sentirmi in diritto di provare una tristezza che c’era e che esisteva in una maniera molto “solida”, fregandosene di ogni tentativo di razionalizzazione o di ogni spedizione esplorativa che mirasse a localizzare una causa scatenante. Ma che hai da lamentarti. Fai quello che ti pare, non ti manca niente, hai degli amici, a scuola non hai dei gran problemi, vai in vacanza, se hai bisogno di qualcosa ti arriva. Che altro c’è. Che cosa vuoi. Dovresti vergognarti. I problemi sono altri.

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Leggendo il primo romanzo di Marta – che seguo da tanto tempo sul suo blog, che è uno dei pochi che non mi perdo mai – ci ho ripensato. Perché è un libro che ti ci riporta, ai momenti meno luminosi della tua vita. Perché ne racconta tanti e racconta quello che succede quando cerchi di combatterli senza sapere come fare, anzi, scegliendoti man mano le armi che ti sembrano più adatte. O i diversivi che pensi possano aiutarti a dribblare quello che ti succede e che non capisci. È un romanzo di formazione che so di poter definire spiacevole senza che Marta se la prenda, è un libro che mi ha continuamente fatto pensare a quanto fosse stata coraggiosa a tirare fuori quello che ha scritto. È un libro pieno di errori e di prospettive prive di equilibrio, è una cronaca del disastro continuo, un disastro in cui si rimane impantanati in attesa che una forza sconosciuta arrivi a tirarci fuori. È una storia di soluzioni che si susseguono per approssimazione – facendosi pagare care – e di sovrastrutture che creiamo per continuare a portare in giro la nostra faccia. Ma è anche la storia di tutto quello che rimane a bollire sotto la superficie e di come, spesso, dare un nome alle cose le renda ancor più complicate da accettare. Almeno lì per lì. È un libro combattivo, pieno di rabbia e di volontà malfunzionanti, di uomini dannosi, superficiali e deludenti e del segno che le persone lasciano inconsapevolmente dopo il loro passaggio. È un libro spiacevole perché dimostra il fallimento di quasi tutto quello che proviamo a fare per capire chi siamo e ci butta in faccia quanto di poco sereno ci sia nel lavoro necessario per riconquistare una forma di serenità che possa funzionare anche per noi, indipendentemente da dove pensiamo che arrivi la tristezza – sempre che individuare un’origine ci sembri indispensabile. Perché no, secondo me non lo è. Quel che è indispensabile, invece, è prepararsi a ricacciarla nel nulla. Dove dovrebbe stare.