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Paolo Nori è un felice esempio di come un libro si possa leggere volentieri e ascoltare ancora più volentieri. Allo stesso tempo, è inaccettabile che qualcuno che non è Nori legga Nori, secondo me. Cioè, ci può provare, ma verrà fuori una roba dissonante, depotenziata, loffia. Ma Nori, credo, è capace di leggere anche gli altri. Li trasforma e se li porta vicini, come se non ci fosse una riga al mondo che non lo riguarda. È proprio bello incontrare, di tanto in tanto, qualcuno che sembra aver imbroccato una vocazione. Il come sia accaduto, in mezzo a mille altre cose, è una delle tante ossa di Chiudo la porta e urlo – in libreria per Mondadori e anche ascoltabile su Storytel.

È un romanzo, in teoria, che vuole raccontarci chi è stato Raffaello Baldini, un poeta di Santarcangelo di Romagna che abitava a Milano e scriveva nel suo dialetto, traducendosi da solo in italiano e parlando di gente solitaria e matta che gravitava solo su Santarcangelo. Nori ci legge Baldini e ci legge anche tutto quello che succede mentre si vive, si scrive, ci si pianta e ci si rimane male quando disgraziatamente si fa bella figura.

Ogni volta che leggo o ascolto Nori ho la sensazione nettissima di non aver solo letto qualcosa, ma di aver passato del tempo insieme a una persona. A me piace, che Nori ci tiri dentro ai fatti suoi, che ci porti a presentazioni e discorsi e nei libri che sta traducendo o che ama da quando ha scoperto che era il caso di studiare la letteratura russa. Non mi convincerà ad andare a correre perché noi di Piacenza qualche riserva verso un’esortazione che ci arriva da Parma la dobbiamo comunque avere, ma sentirlo parlare di dialetti e delle città piccole – che magari non ti mangiano come le grandi e son sempre casa tua, anche se scappi – è una specie di riconciliazione. Non so se quest’anno vincerà IL GRANDE PREMIO, ma mi viene da dirgli che è andata a meraviglia già così.

Loris, il trentenne protagonista dell’ultimo romanzo di Giulia Caminito – in libreria per Bompiani –, sembra ingegnerizzato per farsi detestare. Il suo tratto principale, predominante e totalmente invasivo è l’ipocondria. Ne ha sempre una. Gli fa male la pancia, gli sanguina il naso, non riesce a tirarsi su dal letto, tampina dottori, spende i soldi che non ha in farmacia, suda freddo, si indigna quando al pronto soccorso gli assegnano un risibile codice bianco, prenota analisi a ripetizione e ci rimane male quando non gli trovano niente di anomalo perché lui SOFFRE TANTO e nessuno gli crede o gli offre una soluzione. Il mondo intero dovrebbe riorganizzarsi per mettere al centro questo suo perenne star male ma il mondo, con la crudeltà che lo contraddistingue, prosegue senza badare a Loris e alle sue colonscopie aspirazionali. Il male che non c’è, insomma, pare affliggere Loris con spietata costanza, anche se l’unico che ne percepisce la distruttività e il potere deformante è proprio lui, lasciandolo doppiamente disarmato. Non solo non riesce a “funzionare” come gli altri ma non riesce nemmeno a farsi capire e, anzi, a lungo andare finisce per esasperare e allontanare chiunque, in una spirale di precarietà, frustrazione e isolamento in cui è proprio la certezza di star male a trasformarsi in un’ancora rassicurante, in una fonte di paradossale conforto.

Il presente di Loris si alterna, nel romanzo, ai ricordi cruciali della sua infanzia al fianco dell’amatissimo nonno e sarà proprio questo intreccio fitto – e forse mai del tutto “digerito” – a far luce sul disastro dell’adesso. Potremmo limitarci a volerlo prendere a sberle, Loris, a dirgli – come gli dice suo padre – che dovrebbe darsi una svegliata, uscire da quella crisalide molliccia e portare a compimento la necessaria metamorfosi in adulto indipendente, inserito e “normale”. Sarebbe giusto? Forse no. Perché Loris, anche se magari non soffriamo in prima persona di malanni immaginari e non vediamo una diagnosi di cancro come un traguardo soddisfacente – in assenza di altri traguardi raggiungibili -, è la nostra malattia psicosomatica. Prende quello che c’è di storto e di ingiusto a livello strutturale e lo trasforma in un nodulo sul collo, in uno sfogo sulla pelle, in un cagotto invalidante. Si adegua, col corpo, all’inettitudine che ci viene attribuita. Si sottrae e aspetta speranzoso di poter morire sapendo esattamente cosa lo ucciderà, perché il nostro momento non arriva comunque mai. E recrimina, capriccioso, diventando bambino… perché è un po’ l’unico momento in cui si è percepita una dimensione di cura – per quanto soffocante la trovassimo.

Loris mi fa rabbia e non lo posso sopportare, ma come mi fa rabbia e non sopporto l’idea di fallire, di dover tornare a casa a chiedere aiuto, insieme agli anni che ci sono voluti per camminare davvero con le mie gambe e alle varie declinazioni del “con tutto quello che abbiamo fatto per te”. Ce l’avevo anch’io, il mal di pancia. E se ci penso mi sale in gola un rospo indiagnosticabile ma cattivo. Loris, lamentoso e perennemente scansato dalle opportunità veramente buone, è la cellula pronta a marcire che da qualche parte ci portiamo a spasso pure noi. Vogliamo investire 150€ per una rapida visita privata? Magari no, anche perché nessuno lo individuerebbe, il nostro rospo. Il peggio è fuori, non dentro di noi. Ed è lì che si dovrebbe guardare.

[Il male che non c’è si può leggere e si può anche ascoltare su Storytel – letto BENISSIMO da Eduardo Scarpetta. Come di consueto, qua trovate un bel link per la prova gratuita di 30 giorni.]