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Per far funzionare Destinazione errata di Domenico Starnone – in libreria per Einaudi – bisogna stabilire all’istante che il protagonista è un poveretto. Se partiamo da quel presupposto lì, se decidiamo che lui è un mollusco, un pavido, un inetto e anche un viscido opportunista si può procedere, altrimenti è un po’ complicato seguirlo e credere in questo inspiegabile harakiri sentimentale.

Cosa succede. Il poveretto in questione fa lo sceneggiatore e lavora in prevalenza con questa Claudia a una serie che s’è inventata lei. Invece di scrivere “ti amo” alla moglie – intelligente, in carriera, bellissima – lo scrive per sbaglio a Claudia e Claudia gli risponde subito una roba tipo “finalmente ti sei deciso!”. Ciò basta a sprofondarlo in un vasto panico esistenziale.
Non sappiamo cosa Claudia ci trovi, in questo qui, ma a quanto pare lo ama in silenzio da un pezzo. Anche lei è sposata e dotata di prole. Lui, che di figli ne ha tre e che adora sua moglie – ricambiatissimo – e gode dell’ammirazione che la sua famiglia visibilmente perfetta suscita negli altri, non ha manco mai percepito Claudia come un potenziale oggetto del desiderio, ma tanto basta. Lei lo lusinga con questa confessione e lui, anche se non l’ha praticamente mai guardata in faccia e nemmeno si ricorda di che colore ha i capelli, decide che non può ferirla dicendole “scusa Claudia ho sbagliato a pigiare non era per te quel ti amo lì”. Visto che la semplice verità tende a spezzare le tibie alle storie, questo tentativo d’avventura extraconiugale viene sviscerato nel libro nell’arco di un’impervia settimana.

Due sventurati. Sia presi singolarmente che assieme. Claudia è sventurata anche affiancata al marito, si insinua lentamente nel corso della narrazione, ma lui no – ci pensa da solo. Quanto può tediarci la felicità per andare a incistarci in una situazione così mesta? Ma che ci frega di limonare nei portoni, a quasi quarant’anni, imponendoci pure una passione che non è mai esistita e che rantola per tirare la testa fuori da un oceano di Lego Duplo?
L’aspetto innovativo, qua, è che si rovescia una verità istintiva ben radicata: il corteggiamento è romantico, il corteggiamento è pieno d’emozione e di passione travolgente che spazza via la ragione e t’invade la vita. Il corteggiamento è quel momento che si racconta perché mai più forse ci si amerà con così tanta foga e sprezzo del pericolo. Starnone ce l’ha presente, questa faccenda, ma alza la mano per dire no, non sotto la mia giurisdizione. Guarda che tristezza, che meschini problemi pratici, che pulsioni fiacche. Non è un romanzo sulle corna o una storia di relazioni, è speculative-fiction con due persone in crisi di mezza età al posto di alieni, civiltà al collasso e androidi senzienti. Il cuore di questo libro non sta nel pretesto narrativo del messaggio spedito alla persona sbagliata, ma sta forse nella rappresentazione di un corteggiamento brutto, nato da una noia millenaria e da uno struggente complesso d’inferiorità – mi dedico a Claudia, che pare aver davvero bisogno di me. Occorre essere disperati davvero – o troppo felici – per sperare di dare uno scrollone alla propria vita con una storia d’amore così. E lui, che ha l’unico talento di complicare il semplice, meriterebbe una sediata sui denti meno obliqua di quella che gli offre Starnone. Resta il santo patrono delle corna? Sì, ma dovendo scegliere continuo a tifare per Lacci.

Niente, non mi sono accorta in tempo che prima di Long Island – in libreria per Einaudi con la traduzione di Giovanna Granato – c’era Brooklyn, sempre di Colm Tóibín, e sono partita con il sobborgo sbagliato ma, se proprio mi impegno e provo a far tesoro di questa svista, posso rivelarvi in serenità che sta in piedi anche per conto suo. Saranno gli amori che si sviluppano su strane strutture poligonali, probabilmente: partono sbilenchi, che sarà mai approcciarli a metà strada.

Il problema che qua si palesa all’istante è un signore incollerito che suona alla porta di casa per informare Eilis Lacey che lui, fra nove mesi, le scaricherà sullo zerbino un neonato. O una neonata, quel che è. A lui in ogni caso non interessa, perché non è roba sua. La moglie gravida sì, ma il padre della futura creatura è il marito di Eilis, idraulico italoamericano che in casa loro doveva aver trovato parecchio da fare. Eilis cade dal pero e, fra lo sbalordimento e una quieta collera, informa l’invadentissimo clan di Tony che non ha la minima intenzione di occuparsi della prole illegittima altrui. Lei i suoi figli li ha già cresciuti e per quell’amore ha già sacrificato radici e accumulato rimpianti. Anzi, sai che c’è? Visto che nessuno mi tratta come un essere umano degno d’ascolto o di rispetto io torno per un po’ a casa mia in Irlanda, che mia madre e mio fratello son due decenni che mi vedono solo in foto.

Al paesello d’origine, Eilis ritrova dinamiche che sembrano cristallizzate nel tempo, ma scopre anche che il mondo non sta di certo lì ad aspettarti. L’unico che, per quanto può saperne lei, non ha messo su casa ma si è limitato a gestire con successo un pub, è Jim, l’uomo che in gioventù l’aveva quasi convinta a non attraversare l’oceano per costruirsi una vita con Tony. 
Mi avrà dimenticata? Che effetto mi farà rivederlo? Ma possibile che sia ancora scapolo? E cosa diamine ci fa la mia antica migliore amica a gestire una friggitoria fetente? È troppo tardi per pensare che si possa ricominciare?

Tóibín imbastisce un polpettone sentimentale da manuale, lasciandosi sostenere anche dal fascino “vintage” dell’epopea dell’emigrazione, con nostalgie, distanze siderali che gridano NON TI PERDERÒ ANCORA e frizioni inevitabili tra luoghi d’origine e luoghi che si scelgono con grandi atti di fede ma che, forse, ci rigetteranno sempre. Le macchinazioni del cuore restano però ingovernabili e quel che di interessante c’è qui è l’innesto dell’amore in una realtà che si considera già consolidata, chiusa, definitiva. Tutti e tutte hanno un percorso, molto da perdere e un rigoglioso giardino di illusioni da coltivare, oltre a un ramificato sistema di responsabilità da amministrare. Il fatto che Tóibín non metta nessuno in una posizione “facile” e che non permetta a nessun cuore di straripare e di crederci troppo regala al romanzo una cruda franchezza che ci fa deporre i bandieroni del tifo in favore di interrogativi ben più tremendi e ricchi: ma io….. che cosa farei? Quanto stupida mi sentirei? Sto amando una persona reale o l’idea di possibilità che ancora riesce a farmi intravedere? Perché ci ostiniamo? Perché facciamo finta di non capire?
A peggiorare le cose, per i personaggi, c’è l’abile gestione di Tóibín delle asimmetrie informative: in un piccolo paese dove per strada ti fanno la radiografia, il sotterfugio è una scorciatoia per il quieto vivere, ma anche una comodissima e ragionevole scusa per non affrontare mai la realtà. Noi, leggendo, sappiamo e vediamo tutto… e possiamo scuotere il capo con una saggezza che mille volte avremmo voluto sfoggiare nella vita vera. Cosa combiniamo, invece? Dei gran casini. Come Eilis, Tony, Jim e la volenterosa vedova che frigge. Forse, sperando, si sbaglia sempre. Ma è in quei traballanti spiragli che combattiamo davvero per la felicità.

[Long Island si può serenamente leggere, ma lo trovate in versione audio anche su Storytel.]

Credo che il target di (Non) disponibile di Madeleine Gray – in libreria per Mondadori con la traduzione di Alessandra Castellazzi – sia la gente che va a impelagarsi in relazioni extraconiugali di rara mestizia. Ma di quelle proprio con pesanti asimmetrie informative, numerose e continue promesse, illusioni a grappolo, perdita della dignità, vergogna diffusa, sotterfugi, codardia… è tutto troppo spiacevole per non ispirarci moti di crudeltà meschina mista a perentori MA SVEGLIATI TIRATI INSIEME DAI PER LA MISERIA strillati al libro.
Che nella vita abbiate o meno ricoperto il ruolo di amante o tenuto in piedi una tresca clandestina, Hera vi farà imbestialire. E no, non sto producendo spoiler perché è già tutto in bandella.

Che succede, a grandi linee?
Una ragazza totalmente impantanata – vuoi per contesto e tare generazionali, vuoi per personalissimi inghippi irrisolti – trova finalmente lavoro in un’agenzia/redazione e, pur volendosi appendere al lampadario per il tedio professional-esistenziale che prova, conosce un collega più grande di lei e gli appalta il suo cuore, il suo futuro, ogni ambizione di felicità e una porzione significativa della sua anima. Lui, flagellandosi a ripetizione e caricandola pure dei sensi di colpa che un vertebrato come si deve eviterebbe di delegare, ci sta.
Ma ha una moglie.
Quanto è probabile che la lasci?

Vorremmo rimuovere a colpi di scarpone da sci le fette di Parmacotto – *noadv* – che foderano gli occhi di Hera, ma poterla osservare scuotendo il capo e mormorando POVERACCIA GUARDA CHE ROBA è una paradossale forma di consolazione.
Se siamo state delle zerbine anche noi – come è probabile – proveremo solidarietà e sollievo, sentendoci anche delle divinità saggissime PERCHÉ ADESSO NON MI SI FREGA PIÙ BASTA È FINITA HO CAPITO. Se siamo immerse fino al collo nelle ruvide setole dello zerbino che siamo diventate, invece, Hera potrebbe risultare d’ispirazione e indicarci le uscite di sicurezza.
Non so se invitarvi o no a seguire il sentiero luminoso, perché la prolungata disfatta di una mia simile non mi rallegra, come mai ho ricavato sollazzo o lezioni preziose dai miei, di magoni. Non ho voglia di provare pena per Hera, così come non vorrei mai ispirare pietà. Ma è anche vero che ci si arrabbia e si “partecipa” se una storia ci fornisce il materiale adatto per farlo – e Hera, nostro malgrado, qualcosa riesce a dirci. Anche se vorremmo turarci le orecchie.