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Forse salterà fuori che il nostro unico e autentico pregio è stato quello di aver tenuto i piedi in due epoche, di aver visto arrivare un orizzonte nuovo e di essere stati testimoni di un cambiamento mastodontico, incomparabilmente più grande delle nostre capacità di governarlo o di renderlo un fattore di indubbio e generalizzato progresso. Custodiamo i nostri ricordi con la tenerezza ossessiva e un po’ stucchevole di chi ha lasciato perdere, di chi ha decretato che quel che poteva andare male è già andato male e che mai ci si imbatterà di nuovo in un tempo “facile”, relativamente più prospero e privo di responsabilità come l’infanzia. Quei ricordi ce li teniamo volentieri, insomma, a costo di fare la figura degli stupidi e dei piagnucoloni. Ogni generazione sarà la barzelletta di quella successiva, ma è possibile che la mia – quella dei Millennial – sia l’unica che tende ad accanirsi più volentieri su sé stessa che sulle compagini anagrafiche limitrofe. Abbiamo combattuto strenuamente per il ritorno del Winner Taco e, quando ce lo siamo finalmente potuto ricomprare, ci siamo accorti che era piccolissimo. Ecco, Doveva essere il nostro momento di Eleonora C. Caruso – in libreria per Mondadori – esplora quello spazio di delusione lì, quell’operazione sistematica di ridimensionamento delle aspettative che si scontra col “rimanerci male” lo stesso. Non possiamo farne a meno, perché barcolliamo da sempre su una sabbia mobile fatta di pupazzoni, benesseri promessi e perentori “sforzati, l’impegno verrà ripagato”. Ma quel che c’era a disposizione è rimasto dov’era e noi non abbiamo capito come prendercelo, come farci valere, come farci vedere. E ci incazziamo per il Winner Taco, perché incazzarci a livello “macro” è difficile, se alla coscienza collettiva siamo stati abituati a preferire rarissime punte di straordinarietà individuale che la realtà spazza puntualmente via.

Caruso si appoggia alla struttura “classica” del viaggio per produrre un’avventura ideale che, qua e là, si trasforma con grande naturalezza in una specie di atlantone sociologico che riesce a tenere insieme il confronto generazionale, l’impatto del web su ogni sfera delle nostre relazioni e quella condizione di incertezza traballante e precaria – nel lavoro, nei sentimenti, nel legame con la famiglia d’origine, nella costruzione del futuro, nelle condizioni “materiali” di vita – che ha cessato di scomparire all’affacciarsi dell’età “adulta”. Caruso prende tutto questo magma ribollente di menate, maldestre rivendicazioni, riflessioni sul “ma che abbiamo che non va” e lo colloca in un luogo narrativo capace di trasformarlo in un impianto teorico dotato di coerenza interna, regole e principi. Insomma, fonda una “setta” e la usa come laboratorio.

La setta romanzesca di Caruso dimora in un baglio – una masseria – in rovina nelle campagne del catanese. Ospita una gioventù (più o meno fresca) usurata dal mondo esterno e spremuta o ormai rifiutata dal mondi virtuali. È una capsula del tempo di raro potere evocativo, perché l’idea di base è che il mondo in cui valeva la pena soggiornare è finito nel 2001 e che tutto quello che è arrivato dopo sia maceria, rovina, tabù innominabile. Insomma, gli adepti di Zan – fondatore e responsabile dell’impresa – vivono negli anni Novanta. La moneta corrente delle comunità sono i ciucci di plastica, si guardano i Duck Tales in videocassetta, Cesare Cremonini sgasa sui colli bolognesi, i Tamagotchi pigolano con insistenza per essere nutriti e Pippo Baudo salva un aspirante suicida dalla balconata del teatro Ariston. Chi ha effettivamente vissuto gli anni Novanta è un Ritornato, chi mai ne ha fatto esperienza diretta è un Non Nato – e viene educato di conseguenza. Non sono ammessi smartphone, si comunica con l’esterno per lettera e non ci si connette a un bel niente.
La storia comincia quando Leo, trentaquattrenne che vive a Milano su un divano-letto in una casa che condivide con un numero imprecisato di coinquilini antipatici come la sabbia nelle mutande, parte alla volta della comunità di Zan per recuperare il suo amico Simone, che era andato a visitare quella sorta di utopia anni Novanta con l’intento di tirarci fuori un articolo succoso e auspicabilmente sarcastico. Ma passano i mesi e Simone non torna. Leo si presenta lì con l’intento di fermarsi giusto il tempo necessario a “salvare” il suo amico, ma anche lui finisce per trattenersi e per partecipare alla vita di quel microcosmo disancorato dal presente con un trasporto del tutto inaspettato.
Il libro si biforca qui – da una parte seguiremo quel che succede quando Leo fa effettivamente i bagagli e, dall’altra, scopriremo come è stato il suo soggiorno al baglio. Caruso dosa con grande abilità il racconto del viaggio verso nord e i flashback della “setta”, che si mescolano a tutto quello che è funzionale a farci conoscere meglio i personaggi. Simone un po’ ce lo possiamo dimenticare – è stato un utile pretesto -, perché il suo posto in macchina verrà occupato in maniera inattesa ma fatidica da Clorofrilla – o Cloro, per follower e conoscenti -, celeberrima youtuber dalla chioma rosa caduta quasi irrimediabilmente in disgrazia dopo un pionieristico passato da bambina prodigio. Cloro e Leo appartengono a due generazioni diverse, non si sono quasi mai parlati al baglio e hanno all’apparenza molto poco in comune, a parte un legame più “intenso” della media con Zan. Arriveranno indenni a Milano? Cosa scopriranno lungo la strada? Cosa scopriremo di noi durante il loro accidentato percorso?

Questo romanzo mi ha suscitato una calorosa ammirazione e spero verrà letto tanto e in tutte le sue matte stratificazioni. Lo si può leggere perché ci interessano gli ingarbugli fra i personaggi, lo si può leggere da incattiviti o da romantici, con l’occhio clinico di chi vuole capire il presente e con l’occhio pesto di chi pensa al presente con un disincanto che rasenta il disgusto. Mi sono sentita – a livello “anagrafico” – ritratta con una lucidità rara e trattata al contempo con una severità complessa e ben radicata in una visione consapevole. Diamine, Caruso sa di che parla e rivolta i nostri Pisoloni infeltriti – sempre che qualcuno ce l’abbia mai comprato PERCHÉ IO A SANTA LUCIA L’HO SEMPRE CHIESTO MA NON È ARRIVATO – per fotografare quel che resta di noi e cosa cerchiamo di mascherare con la nostalgia. Il riflesso che inseguiamo è molteplice, perché tantissime sono diventate le superfici riflettenti e le piazze di auto-rappresentazione in cui ci cimentiamo, sperando ci restituiscano rassicurazioni e validazione. È una storia che prova a riedificare i confini di tante identità prive di centro ma disperatamente in cerca di uno scopo, di una promessa in cui credere davvero, su cui ci sentiremo capaci di costruire finalmente qualcosa. 

L’ho tirata in lungo, ma quel che vi serve sapere è che è proprio un bel libro e Caruso scrive come se Zan, Leo e Cloro fossero persone con cui ha appena finito di parlare al telefono. Di tatuaggi brutti, probabilmente. O di chi ha appena sbroccato su Instagram. O di quanto è diventato piccolo il Winner Taco, porca miseria.

 

L’episodio scatenante, in Tutto per i bambini di Delphine De Vigan, è la scomparsa di Kimmy, una bambina di sei anni già veterana di YouTube. La madre, Mélanie, gestisce con enorme successo (e proventi notevoli) uno di quei canali “di famiglia” che documentano con dovizia ogni avventura domestica. Cominciato quasi per gioco – e forse per un’esigenza di visibilità in grado di compensare una carriera da reality-star mai decollata -, quello di Mélanie è diventato un lavoro a tutti gli effetti, che coinvolge i due figli imponendo loro i ritmi pressanti che conseguono al dovere di “esserci” online, costruendo di fatto una normalità posticcia, dove si recita a beneficio degli sponsor e anche i più piccoli di casa sono chiamati a contribuire.

Mélanie, non si sa se per ingenuità, opportunismo o mera ambizione, cerca di convincersi che tutto quello che lei ama fare, apparendo, sia un gioco e una gioia priva di vincoli anche per i suoi figli – oltre che per un pubblico sterminato e molto partecipe -, ma sarà davvero così? Se il maggiore, Sam, non manca mai di dimostrarsi collaborativo, lo stesso non si può dire della sorellina minore, che crescendo pare sempre meno entusiasta di guardare in camera e recitare il copione prestabilito…

Il romanzo (tradotto per Einaudi da Margherita Botto) si muove su diversi piani temporali e punti di vista, invitandoci a esplorare i trascorsi e il presente delle protagoniste (Mélanie e Clara, la puntigliosa investigatrice/archivista assegnata al caso). A inframezzare la narrazione troviamo capitoli che riproducono i verbali della polizia parigina: le trascrizioni delle deposizioni raccolte o la meticolosa mappatura di quel che si vede sul canale YouTube della famiglia e sui social di Mélanie. Insomma, Tutto per i bambini è un ibrido tra il giallo e lo scavo virtual-sociologico, dagli albori televisivi dei reality a un futuro in cui De Vigan tenta di immaginare quali potranno essere le ripercussioni di questa sovraesposizione strutturale, mediata dalle piattaforme social ma comunque profondamente invasiva (per quanto non scevra di benefici materiali che si fanno man mano sempre più paradossali).

Al di là dell’indagine per ritrovare Kimmy (che qua funge da pretesto per esplorare un tema ramificato, riuscendo comunque a risultare avvincente), De Vigan costruisce una riflessione pungente e assai sensata sulle potenziali conseguenze a lungo termine della spettacolarizzazione fai-da-te del tran tran domestico. Il confine labile è quello tra strumentalizzazione e buone intenzioni, tra ricerca del benessere e sfruttamento spintissimo della privacy, tra spontanietà e canovacci commerciali, tra etica e intrattenimento. È una storia che indaga la nostra identità di consumatori (sia di merci che di contenuti) e ci ritrae nel ruolo di spettatori famelici e giudici implacabili, di “cittadini” di contesti virtuali che stanno modificando sia il nostro modo di guardare che di presentarci al resto del mondo.