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È bellissimo. Leggetelo.
L’udienza è tolta.
Potrebbe bastare, ma vi attaccherò comunque un piccolo pippone d’incoraggiamento. Gabrielle Zevin e il suo Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow – che trovate in libreria per Nord con la traduzione di Elisa Banfi – se lo meritano.

Nel 1995, Sam e Sadie si incontrano per caso in metropolitana. Sono entrambi arrivati a Boston dalla California per studiare – MIT e Harvard, per non smentire il percorso da bambini prodigio già ben consolidato. Si conoscono già da un’infanzia più tenera (e nel caso di Sam anche molto più impervia) ma non si parlano da anni e, senza quella zampata del destino e qualche decisione deliberata presa al momento giusto, resterebbero probabilmente degli estranei, privando il mondo di alcuni videogiochi straordinari. Giocare insieme è stato il cemento della loro amicizia, uno spazio in cui entrambi hanno accantonato maschere e paure per immaginare un posto sicuro e deporre le armi. I loro cervelli si completano, ma è sui loro cuori che si può fare meno affidamento.

Il romanzo parte da questo riavvicinamento fortuito per accompagnarci nei mondi di Sam e Sadie, quelli che hanno inventato e programmato insieme – invitando al gioco una vastissima moltitudine di altri gamer in erba – e quelli che hanno attraversato fianco a fianco vivendo, accapigliandosi e cercando di fare a meno l’uno dell’altra – fallendo sempre, come in un livello particolarmente frustrante di Donkey Kong. In mezzo troviamo genealogie che non bastano a definire un’identità, seconde generazioni di “nuovi” americani, mentori viscidi e magnetici, amicizie che sono famiglia, dispute lavorative, testardaggini creative, rivalità, bolle tecnologiche non ancora scoppiate, dilemmi etici mascherati da gioco, un piede inaffidabile – e mai accettato, nella sua fallibilità -, pizzerie coreane, attrici e attori, Macbeth e l’Iliade, successi clamorosi e cantonate.
C’è, con decisione, un impianto filosofico che unisce il gioco alla fiducia nel domani. Perché giochiamo? Per sconfiggere la morte, per convincerci che si possa sempre ricominciare da capo e fare meglio, anche se sappiamo fin troppo bene che non ci è mai davvero concesso.

“Cos’è un gioco? È domani, e domani, e domani. È la possibilità dell’eterna rinascita, dell’eterna redenzione. L’idea che, se continui a giocare, puoi vincere. Se perdi, non è per sempre, perché nulla è mai per sempre”.

Non c’è Game Over che regga, in un universo costruito per stupirti e per farti continuare a giocare: quell’infinita e inesauribile possibilità di afferrare un altro “domani”, indipendentemente da quanto tu possa aver fatto schifo nell’oggi, è una corazza confortante. Non ripara dal male, dal caso, dal caos e dal dolore – come Sam e Sadie ben sanno -, ma è un orizzonte che mantiene intatta quell’idea di potenzialità infinita, di “nessuna strada mi è ancora preclusa” che è la magia vera della giovinezza. Forse si gioca da “piccoli” con così tanta convinzione proprio perché ci si rispecchia in quell’attitudine da pioniere libero di scovare percorsi non ancora bruciati dal fallimento, dalla paura, dalle aspettative disattese. Non è una metafora d’originalità devastante, ma qua dentro funziona e trova un’anima degna – anche se le produzioni universitarie di Shakespeare non possono vantare un budget faraonico.

Ribadisco: è bellissimo.
È necessaria una vasta cultura videoludica? Secondo me no. Aiuta che v’interessi? Penso di sì. Ma non precludetevi un romanzo così meritevole e “vivo” (nonostante le ovvie licenze) per ipotetici deficit sul fronte dei giochi, specialmente se siete stati adolescenti nel primo decennio del Duemila. E se vi intrigano le storie aziendali (eccomi!), ancora meglio. Altra nota: siete da sempre team-Achille? Ne riparleremo a fine lettura. Tornate a dirmelo. 🙂

 

Ma noi, di preciso, che cosa ci facciamo qua [“qua” = uno qualsiasi dei tanti spazi digitali che frequentiamo]? Cosa cerchiamo? Come ci percepiamo – AKA ci sentiamo più “pubblico” o più “produttori” di contenuti? E ha ancora senso fare questa distinzione, segmentando magari anche i nostri consumi per cluster anagrafici? Il “nuovo” è in realtà solo roba vecchia che riappare in un posto diverso, teoricamente incontaminato? Ci siamo già inventati tutto l’inventabile? Quanto costa l’intrattenimento, sia in termini monetari che di libertà personale? Quali sono i nuovi cicli di vita della fama – ed è legittimo pensare che sia diventata molto più effimera e distruttiva? Cosa mai potrà saperne un algoritmo di quello che ci piace davvero? Perché dovrei guardare della gente che dorme? Perché dovrei investire i miei soldi per svegliare con violenza una persona che dorme? Da dove arriva questo assoluto timore del vuoto? “Io? Non lo farei mai. Ma nemmeno per tutto l’oro del mondo, guarda!”… e se te lo offrissero, tutto l’oro del mondo?

Animato da un interesse antropologico che a tratti lascia trasparire un “vi prego, fatemi scendere”, in Sei vecchio – in libreria per Nottetempo – Vincenzo Marino mappa alcuni fenomeni salienti del nostro abitare i posti digitali che abitiamo (con crescente vena polemica, sconfinati divertimenti, varie sindromi di Stoccolma, fatica e tragicomica rassegnazione) concentrandosi in maniera prevalente sull’ultima generazione entrata nei radar del sentire globale – a me questa cosa delle generazioni solletica sempre molto, anche perché cominciamo a occuparci ossessivamente di un dato segmento quando raggiunge un valore economico (cioè quando ha dei soldi, magari anche pochissimi, da spendere).
Insomma, che fa online la Generazione Z? Noialtri più “grandi” siamo finalmente ascrivibili tra i vecchi e possiamo cedere alle nuove leve l’ambito ruolo di cavie da laboratorio da dissezionare? Siamo autorizzati a partecipare anche ai fenomeni che anagraficamente non dovrebbero competerci più o che non sono nati per soddisfare il nostro “target”?

Dagli streamer che passano in diretta giorni e giorni al pubblico che paga per aggiungere minutaggio a queste maratone, dal terrore dell’irrilevanza a un’onnipresenza svuotata di motivazione o messaggio, dai salumieri napoletani ai profili selfhelpistici che inneggiano al successo duramente conquistato con una gagliarda forza di volontà – o all’ossessione per l’esteriorità mascherata da cura maniacale per il proprio benessere interiore -, Marino ci offre una carrellata di istantanee significative delle tendenze emergenti dei mondi digitali, dissolvendo il confine tra utenti attivi e passivi e tra evento “biografico” e potenziale contenuto.
È una panoramica che credo assolva più efficacemente al compito di dirci quel che c’è, più che scavare nei perché o nel cercare di immaginare una traiettoria futura. Se ne esce frastornati, legittimamente instupiditi dal rumore di fondo generato dall’immane accumulazione di stimoli e disperata ricerca di un guizzo di stupore, che molto spesso si manifesta sconfinando nella narrazione iperbolica del banale o in una volontaria trasformazione dell’identità in un mosaico di momenti vendibili, “creativamente” spendibili, perennemente pubblici.

Nulla di quello che ho letto ha suscitato in me il minimo AH SIGNORA MIA I GIOVANI D’OGGI, anzi. Mi sto rendendo conto che ci sono storture e fatiche trasversali, cicli di vita “personaggeschi” e dinamiche di  assimilazione del nuovo che si reiterano con caparbia uniformità in ogni mondo digitale, confermandosi per frequenza e prevedibilità di svolgimento pezzi dello scheletro vero di questo gigantesco golem multipiattaforma verso cui gravitiamo e che tanto del nostro tempo assorbe e da cui ricaviamo soddisfazioni altalenanti. Forse è per quello che insistiamo e perseveriamo: abbiamo bisogno di una dimensione potenziale, vogliamo convincerci che esista qualcosa di incredibile, vogliamo smentire il medesimo “ho visto già tutto” che soffoca la meraviglia sul nascere. Vogliamo credere che, da qualche parte, l’irrilevanza quotidiana delle nostre azioni minime – l’unica variabile che ci accomuna davvero – nasconda un miracolo e che, là fuori, ci sia qualcuno che non solo l’ha scoperto ma l’ha anche monetizzato.

[Se il tema vi intriga, forse vi verrà voglia di fare quello che ho fatto anch’io: mi sono iscritta a zio, la newsletter di Marino che prosegue (anzi, precede) il lavoro su questo libro.]

L’episodio scatenante, in Tutto per i bambini di Delphine De Vigan, è la scomparsa di Kimmy, una bambina di sei anni già veterana di YouTube. La madre, Mélanie, gestisce con enorme successo (e proventi notevoli) uno di quei canali “di famiglia” che documentano con dovizia ogni avventura domestica. Cominciato quasi per gioco – e forse per un’esigenza di visibilità in grado di compensare una carriera da reality-star mai decollata -, quello di Mélanie è diventato un lavoro a tutti gli effetti, che coinvolge i due figli imponendo loro i ritmi pressanti che conseguono al dovere di “esserci” online, costruendo di fatto una normalità posticcia, dove si recita a beneficio degli sponsor e anche i più piccoli di casa sono chiamati a contribuire.

Mélanie, non si sa se per ingenuità, opportunismo o mera ambizione, cerca di convincersi che tutto quello che lei ama fare, apparendo, sia un gioco e una gioia priva di vincoli anche per i suoi figli – oltre che per un pubblico sterminato e molto partecipe -, ma sarà davvero così? Se il maggiore, Sam, non manca mai di dimostrarsi collaborativo, lo stesso non si può dire della sorellina minore, che crescendo pare sempre meno entusiasta di guardare in camera e recitare il copione prestabilito…

Il romanzo (tradotto per Einaudi da Margherita Botto) si muove su diversi piani temporali e punti di vista, invitandoci a esplorare i trascorsi e il presente delle protagoniste (Mélanie e Clara, la puntigliosa investigatrice/archivista assegnata al caso). A inframezzare la narrazione troviamo capitoli che riproducono i verbali della polizia parigina: le trascrizioni delle deposizioni raccolte o la meticolosa mappatura di quel che si vede sul canale YouTube della famiglia e sui social di Mélanie. Insomma, Tutto per i bambini è un ibrido tra il giallo e lo scavo virtual-sociologico, dagli albori televisivi dei reality a un futuro in cui De Vigan tenta di immaginare quali potranno essere le ripercussioni di questa sovraesposizione strutturale, mediata dalle piattaforme social ma comunque profondamente invasiva (per quanto non scevra di benefici materiali che si fanno man mano sempre più paradossali).

Al di là dell’indagine per ritrovare Kimmy (che qua funge da pretesto per esplorare un tema ramificato, riuscendo comunque a risultare avvincente), De Vigan costruisce una riflessione pungente e assai sensata sulle potenziali conseguenze a lungo termine della spettacolarizzazione fai-da-te del tran tran domestico. Il confine labile è quello tra strumentalizzazione e buone intenzioni, tra ricerca del benessere e sfruttamento spintissimo della privacy, tra spontanietà e canovacci commerciali, tra etica e intrattenimento. È una storia che indaga la nostra identità di consumatori (sia di merci che di contenuti) e ci ritrae nel ruolo di spettatori famelici e giudici implacabili, di “cittadini” di contesti virtuali che stanno modificando sia il nostro modo di guardare che di presentarci al resto del mondo.

 

Dunque, Pietro Minto assembla già da un pezzo una delle mie newsletter preferite – Link Molto Belli. La newsletter fa esattamente quel che dice: mette insieme link pazzi e curiosi in una rassegna periodica a metà tra l’indagine antropologica e il puro gusto di perdere tempo su internet. Come annoiarsi meglio, forse, raggiunge uno scopo simile ma ulteriore: farci riflettere sul modo in cui usiamo il tempo e sulla capacità sempre più scarsa di cui possiamo fregiarci per controllarlo, uscendone alla fin fine sopraffatti (e insoddisfatti).

Ma sarà poi così male perdere tempo?
In realtà no, non è così male. Anzi, coltivare la noia, come antidoto alle distrazioni tecnologiche che ci intrappolano spesso in loop infiniti (e quasi sempre poveri di reale appagamento), può dimostrarsi una pratica salubre. L’idea non è tanto quella di tramutarci in asceti o di rimpiangere i tempi lontani in cui qua era tutta campagna, però. Lo scopo principale è renderci un tantinino più consapevoli del nostro modo di occupare il tempo, per intravedere delle maniere alternative di perderlo un po’ meglio, più serenamente, senza lasciarci strangolare dall’ansia.
E da dove si comincia? Mappando le distrazioni e identificando i meccanismi che ci tengono ancorati ad abitudini in bilico sulla china della compulsione. Insomma, cosa diamine ci aspettiamo che succeda se ricarichiamo per la decima volta in un minuto il feed di Instagram? Perché vogliamo sempre “dell’altro”, del “nuovo”?

A tratti assolvendoci (perché molti dei meccanismi di fruizione digitale che ci intrappolano sono progettati appositamente per agire su sistemi ancestrali di reazione) e a tratti facendoci sentire dei perfetti imbecilli (perché ci illudiamo che il vuoto possa essere riempito da altro vuoto), Minto analizza il nostro rapporto con gli schermi, con gli altri e con il mondo intero, fotografandoci nel presente mentre ci dibattiamo fra tecnologia, lavoro onnipresente e relazioni, perdendo pezzi per strada e lasciandoci cullare dalla promessa di incentivi sempre più effimeri, fugaci e transitori.

Insomma, è un vispo saggio tragisimpatico – e il debutto di un autore italiano nel catalogo caleidoscopico di Blackie – che mappa le trappole che ci siamo piazzati da soli lungo la strada e che prova a farci immaginare una realtà in cui la tecnologia può diventare una compagna d’avventure curiosa e funzionale, smorzando l’ansia da prestazione che ci assale anche quando siamo convinti di servircene come valvola di sfogo.

Michele Masneri mi sta suscitando un certo risentimento perché dopo aver letto Steve Jobs non abita più qui sento il bisogno di tornare in California, affrontando i luoghi e i costrutti antropologici locali con una consapevolezza che da turista giuggiolona mi è mancata. Il senso di inadeguatezza che provo – da ex visitatrice svagata di uno dei luoghi più carichi di mitologie stratificate tra le più varie ed eventuali del mondo – è, in realtà, un fattore positivo. Ci si può sentire manchevoli solo quando ci troviamo davanti a qualcosa di ricco, gustoso e approfondito… che poi forse è anche un po’ quello che mancava alla Valle oscura – se vogliamo dar voce a una delle obiezioni principali in cui Anna Wiener è incappata. Ma tenderei a staccarmi da lì, perché a parte la collocazione geografica e il tema del “tech”, son due faccende assai diverse.

Che fa Masneri?
Steve Jobs non abita più qui è una raccolta di multiformi reportage che nascono da una prolungata permanenza sul campo. Masneri ha stazionato abbondantemente a San Francisco ed è tornato a più riprese in California come inviato del Foglio – che poi è anche il primo posto in cui versioni più stringate di questi pezzi sono approdate dal 2016 in poi.
Di che parlano questi pezzi? In soldoni, di un contesto che riesce ad essere significativo in più dimensioni tematiche e dimensioni temporali contemporaneamente. Eleggendo San Francisco a campo base, per dire, ne ricordiamo la centralità storica per la comunità queer, ma studiamo anche la città come centro di smistamento di cervelli e capitali che, coi loro sforzi congiunti, ambiscono a scaraventarci verso il futuro. Ogni quadro tematico resta fluido e allunga i suoi tentacolini cablati verso un altro pezzettino della città o dell’umanità che lo occupa, restituendoci un mosaico di abbondanti sovrapposizioni.

Si parla inevitabilmente di tecnologia, ma troviamo anche Jonathan Franzen che dal suo villino quasi-boschivo riflette sul perché così tanta gente lo detesti, troviamo la storia di un nuovo filone stilistico-culinario, combattiamo con il mercato immobiliare – ossessione onnipresente prodotta da reali sconvolgimenti socio-economici – e ci addentriamo nella leggenda degli Hearst, passando anche a fare quattro chiacchiere con Bret Easton Ellis, che alle feste ci va molto meno di prima e fa finta di scrivere solo per la TV.
Da dove spunta Uber?
Come funzionano le serrature?
Che ne è stato del grande terrore dell’AIDS?
Com’è il funerale di un mostro sacro del surf?
È il Pride o una manifestazione fagocitata dalle PR aziendali?
Economia, innovazione, cibo, viabilità, personaggi mitologici, fissazioni, creatività… tutto contribuisce al grande puzzle del surreale presente californiano, che Masneri ci restituisce con senso dell’umorismo, arguzia e una salutare dose di spesso meritato disincanto.

[Le foto arrivano da una delle più grandi fonti di MA VERAMENTE del libro: la casa progettata (mobili compresi) da Ettore Sottsass a Palo Alto per David Kelley – designer a sua volta leggendario tra le cui gesta possiamo ricordare l’invenzione del primo mouse. Kelley sta vendendo la casa ma è molto preoccupato, perché teme che i potenziali acquirenti siano interessati solo alla “terra” – vera risorsa scarsa del circondario – e non tanto al lavoro di Sottsass. Insomma, “me la buttano giù e chissà poi cosa ci fanno”. STEI TIUND per futuri aggiornamenti].

Non è rilevante a livello macroscopico ma, in scala ridotta, un pezzo della mia parabola professionale somiglia un po’ a quella di Anna Wiener. Abbiamo entrambe esordito nel mondo del lavoro con un impiego editorial-librario – lei a New York come assistente in una piccola agenzia letteraria – e ci siamo successivamente spostate nel “tech”. Lei ha fatto i bagagli e si è trasferita a San Francisco per trovare la rampetta di lancio a cui sentiva di poter ambire nella terra promessa delle start-up, io mi sono stabilita a Milano e ho cominciato a lavorare in pianta stabile coi social. La mia era un’agenzia digital e, al contrario di Wiener, mi occupavo effettivamente di contenuto, ma trattandosi di un memoir che usa la cultura aziendale come chiave di lettura per tratteggiare un paradigma umano più ampio, qualche punto di contatto – mio malgrado – l’ho percepito a livello epidermico, innescando un certo meccanismo di riconoscimento che ha sicuramente aiutato il libro a far presa sul mio cervello aggrovigliato e perennemente distratto dai social.
Il fatto che si fatichi a spiegare che lavoro effettivamente facesse Wiener è un aspetto che oscilla tra lo sfizioso e il terrificante. Assistenza clienti. Prima per una start-up di analisi dati e poi per una blasonata piattaforma open-source. Non si fanno mai nomi, ovviamente, perché gli avvocati dei giovani miliardari della Silicon Valley sono molto più agguerriti di quelli che potrebbe permettersi l’autrice, quindi la si piglia sempre un po’ alla lontana… anche se non ci sono dubbi su come identificare il “il grande negozio online” o “il social network che tutti odiano”. Al di là delle pressanti necessità di raccontare la sua parabola professionale parandosi al contempo il deretano, Wiener costruisce una ricca cronaca socio-manageriale di un settore che ha completamente sballato le “proporzioni” finanziarie del passato e che, al contempo, è riuscito a modificare radicalmente le nostre abitudini e le nostre scelte di consumo, informazione, intrattenimento. Non mi impegnerò troppo a compilare un elenco, perché non ci sono elenchi da fare. L’impatto è totale, capillare, onnipresente. Così tanto da superare, di fatto, le nostre capacità di valutarne a pieno le implicazioni. Un po’ perché è complicato analizzare un fenomeno che sta ancora succedendo – e che ci coinvolge – e un po’ perché l’ambiente tecnologico in cui ci muoviamo è strutturato per darci l’illusione di essere decisori attivi. Siamo incoraggiati a compiere, di continuo, miriadi di micro-azioni, ingegnerizzate per generare soddisfazione istantanea e risposte immediate. E quello che si intuisce ancora meno è l’ordine di grandezza dei soldi che girano, soprattutto rispetto ad altre aree dello scibile produttivo umano e del mercato del lavoro.
Wiener parte per San Francisco anche perché a New York la vita è cara e l’editoria è pezzente. A venticinque anni non ha prospettive concrete di carriera e tutti i suoi amici che condividono con lei una medesima matrice lavorativo-antropologica fanno altre trentasette cose per mantenersi, perché lo stipendio che portano a casa con il loro impiego “nobile” e intellettualmente gratificante non è sufficiente. Nella Silicon Valley, i venticinquenni sono già navigati amministratori delegati che con una manciata di ingegneri che si occupano del codice e l’idea di un’app – spesso destinata a sorgere e tramontare nel giro di due anni – riescono a raccogliere milioni di dollari di finanziamenti. Si parla una lingua fittizia, fatta di slogan spiritosi, stronzate motivazionali, meme rimasticati e slang tecnico. Si allestiscono uffici giocosi e accoglienti perché ci si aspetta, più o meno tacitamente, che il tempo trascorso al lavoro superi quello da trascorrere “fuori”, come individui disgiunti dall’azienda. Si incoraggia artificiosamente il cameratismo, perché la narrazione della grande famiglia felice crea devozione alla causa. Perché c’è una causa, ovviamente. Nessuna start-up fa semplicemente quel che fa: implementare e vendere un prodotto tecnologico. Le aziende salvano il mondo, creano legami indissolubili, fanno fiorire la creatività e coltivano sogni. E i primi a cui si vende il sogno sono i potenziali dipendenti. L’offerta è attraente: alloggio, assicurazione sanitaria e dentistica, benefit materiali e possibilità di intrattenimento di cui tendenzialmente non avrai tempo di usufruire, perché stai lavorando. Sempre.

Wiener non smette mai di oscillare tra il desiderio di entrare a pieno titolo a far parte di quella specie di confraternita di eletti – brillanti, ricchi, realizzati, integrati nel contesto – e quello di fare un passo indietro per ricordarsi “chi era” e analizzare con più lucidità le evidenti storture di quel nuovo ambiente umano.
A più riprese ci fa notare con veemenza che sì, desiderava moltissimo che l’amministratore delegato di turno le dicesse quanto era brava e quanto il suo contributo fosse prezioso, ma era anche consapevole di trovarsi in un contesto dove il problema della diversity e del sessismo più smaccato erano talmente interiorizzati e “normali” da essere parte integrante, insieme al frigo delle birre, alle felpe col logo aziendale e ai giri in skateboard per l’ufficio, di quella stessa cultura aziendale finto-compagnona che continua a rappresentare uno dei benefit più gettonati del settore.
Tra scandali per molestie gestiti come scocciature periodiche da disinnescare mettendo in piedi un bel dipartimento per le pari opportunità – come diremmo noi con un gergo forse un po’ vetusto – da utilizzare come efficace leva per le pubbliche relazioni senza però generare nessun mutamento strutturale e il graduale riversarsi verso l’esterno, verso la città, verso i quartieri e gli appartamenti delle dinamiche della nuova bolla tecnologica, che di fatto finisce per inglobare anche il mondo materiale circostante, Wiener racconta il suo nuovo universo professionale e cerca di mapparne le implicazioni. Urbanistica, economia, mercato del lavoro, risvolti psicologici, consumo, cultura, controllo. Il punto di vista è ovviamente soggettivo e parziale… e l’intento non è quello di fornirci soluzioni per demolire un sistema che alimentiamo quotidianamente anche noi. Non percepiremo uno stipendio dal social network che tutti odiano (tanto per citare una delle tante entità), ma di fatto forniamo al social network che tutti odiano il materiale indispensabile al suo funzionamento e alla sua redditività: il nostro tempo, i nostri dati, le nostre interazioni, i nostri pensieri e la nostra attenzione. Non è un libro che ambisce tanto a farci impugnare i forconi. Forse è un libro che vuole farci riflettere – fornendoci un po’ di informazioni di contesto e qualche dritta su “quello che c’è dietro” – sul perché, tutto sommato, non ci dispiaccia lasciare i forconi dove stanno.

[La valle oscura è uscito per Adelphi nella traduzione di Milena Zemira Ciccimarra. È una traduzione leggibilissima che, qua e là, si ingoffa un po’ sul gergo tech o economico. Il problema, secondo me, è più che altro di definizione del pubblico di riferimento per questo libro. Perché venture capitalist resta così mentre flagship store diventa “negozio di bandiera”? Tanto gergo aziendale, tecnologico e di marketing è mutuato dall’inglese e viene usato correntemente anche nel nostro contesto – risultando dunque, comprensibile -, ma stabilire la linea di demarcazione che separa l’uso corrente dal lessico ancora troppo specialistico non è mai di semplice definizione e, inevitabilmente, a un pubblico più vicino al tema certi adattamenti balzeranno di più agli occhi e appariranno forzati.]

***

Sono convintissima che da qualche parte dentro di noi – a gradi variabili di profondità – esista la propensione ad ascoltare storie. A me, come a moltissimi di noi, da piccola ne hanno lette tante. E, quando mia madre o mio padre non potevano star lì mezz’ora con un libro sulle ginocchia, c’erano comunque le Fiabe Sonore. Il mangianastri Fisher-Price mi ha seguita in tutte le case che ho abitato da grande. Ed è ancora qui con me. Vetusto e marroncino – un colore che giammai ritroveremmo in un “giocattolo” a noi contemporaneo – aveva dei bottoni giganti e una pratica maniglia, più varie personalizzazioni a base di trasferelli di Paperino che mi sono preoccupata di aggiungere, deturpandolo quasi irrimediabilmente.

Ricordi a parte, le voci che leggono storie fanno parte di quello che siamo, credo. E l’esperienza è ovviamente diversa, rispetto alla lettura.

Quando leggiamo un libro la voce che ascoltiamo è la nostra. Il ritmo è il nostro. Le inflessioni che ci saltellano nella testa sono le nostre. E un libro da leggere con gli occhi – che si tratti di un volume “vero” o di un e-book – ci offre anche una serie di punti di riferimento visivi e materiali che l’ascolto, per forza di cose, non può garantirci. Ascoltare un libro inserisce altre variabili nell’equazione del racconto. La nostra voce si riposa e dobbiamo affidarci a quella di un altro interprete, che inevitabilmente aggiunge una stratificazione nuova al materiale letterario di partenza. E, di fatto, costruisce per noi una dimensione molto differente da quella che esploreremmo da soli.

Un altro aspetto importante, a livello generale, è la creazione di spazi “di lettura” nuovi. Ed è l’aspetto che per me, fra tutti, si è dimostrato decisivo. All’interno delle nostre giornate esistono tempi attivi e tempi passivi, se così possiamo definirli. Ci sono spazi morti in cui tendiamo quasi a metterci in stand-by in vista del compito successivo che assorbirà la nostra attenzione. Non mi riferisco a grandiose parentesi di decompressione in cui ci concediamo il lusso di fissare l’orizzonte riflettendo sulla condizione umana, ma a quella serie di incombenze sceme che ci obbligano a tenere impegnate le mani, a quei gesti ormai automatici che svolgiamo senza pensare, col cervello che potrebbe tranquillamente galleggiare in un vaso su una mensola polverosa. Stendere. Riempire la lavastoviglie. Svuotare la lavastoviglie. Piegare i panni. Spalmarsi in faccia i tredici prodotti previsti dalla beauty-routine coreana. Pettinarsi i capelli dopo la doccia. Rifare il letto. Raccattare venti chili di giocattoli sparsi per il tappeto. Camminare dal punto A al punto B. Farsi centordici fermate di metropolitana. Guidare nel traffico. Roba così.
Ecco, mi sembra di averli rianimati, quei tempi lì. Non dico che non vedo l’ora di fare il bucato per potermi ascoltare un libro, ma di sicuro mi pare di aver reso meno imbecilli i momenti che devo dedicare a quel tipo di attività. È un tempo che ha smesso di essere neutro e, anzi, è diventato produttivo. Un tempo felice. Perché il tempo occupato dalle narrazioni – indipendentemente dalla loro natura e dal supporto di fruizione – per me è sempre stato un tempo felice.

Ora, si potrebbero fare innumerevoli altre considerazioni strutturali sul consumo di audiolibri – e, a tal proposito, vi invito anche a leggere le riflessioni di Massimo Mantellini – ma penso sia sensato spendere due parole sulla “fonte” di tali considerazioni.
Era anche ora, dopo un mese di collaudo.
Chi già mi tollera su Instagram saprà bene che il mio campo-base per gli audiolibri è Storytel e che sono molto felice sia del servizio che del gioioso sodalizio con l’ufficio italiano.

Per riassumere il funzionamento del congegno: Storytel è una gigantesca libreria audiolibresca. Il catalogo è vasto – sia in italiano che in inglese – e non si risparmia sul fronte delle novità. I libri si possono ascoltare “in streaming” o scaricare per la fruizione offline. Si può creare la propria playlist per non perdere per strada gli ascolti che ci interessano e i lettori sono, di base, personaggi di considerevole bravura. Ci sono attori cinematografico-teatrali e, spesso e volentieri, anche gli autori. Il servizio funziona in abbonamento – come Netflix – e, a fronte di una quotina mensile di manco 10€, consente l’ascolto illimitato di tutto quello che vi pare. Ci sono libri, ma anche podcast (come quello di Francesco Costa, ad esempio) e produzioni originali – ovvero, contenuti narrativi che Storytel ha realizzato appositamente per la piattaforma o tradotto per il pubblico italiano a partire da un materiale creato per la fruizione audio. Il servizio si può provare gratuitamente per 14 giorni – che diventano 30 utilizzando questo link, attivo fino al 9 dicembre – e, se siete contenti, l’abbonamento parte in automatico. Quindi sì, in fase di registrazione vi chiedono i dati della carta, ma nessuno sta cercando di derubarvi o di farvi pagare cose in anticipo.

Lei è senza ombra di dubbio il mio nuovo punto di riferimento nella vita.

Ora, gestire – da utente – un catalogo così vasto è uno dei problemi principali di questo tipo di piattaforme. Visto, soprattutto, che l’accesso è da mobile e che la navigazione, per forza di cose, è soggetta ai vincoli del DEVAIS. A questo proposito, Storytel cerca di soccorrerci con una newsletter che segnala chicche e novità e, sull’app, propone periodicamente delle selezioni tematiche da esplorare per aggiungere ciccia alle nostre playlist – se può servire, c’è anche un piccolo box che contiene i frutti dei miei valorosi carotaggi e le mie future ambizioni di ascolto. Vi esorto ad andare a frugarci dentro… e mi prendo un po’ di spazio qui per una breve carrellata di quello che ho già ascoltato.
Come si “recensisce” un audiolibro?
Non ne ho idea, ma proviamo.

Chimamanda Ngozi Adichie
We Should All Be Feminists
(Letto dall’autrice)
Chimamanda – la chiamo per nome come se fosse amica mia, cosa che mi piacerebbe molto – è una perla rara. Legge con la stessa limpida chiarezza che ritroviamo nelle sue argomentazioni. Ed è un ascolto che può funzionare bene anche per chi non è proprio un fulmine con l’inglese. Il libro è una riflessione schietta ed elegantemente battagliera sul concetto di femminismo e sul superamento dei costrutti fittizi – legati al genere – che determinano ruoli, aspettative, gerarchie e gestioni arbitrarie del “potere”.

Amélie Nothomb
Stupore e tremori
(Letto da Laura Morante)
È il secondo libro della Nothomb che affronto – lo so, sono indietro rispetto al resto del pianeta. E, in tutta sincerità, la Morante un po’ mi preoccupava. Perché nei film è sempre alle prese con esaurimenti nervosi, porte che sbattono e piatti che volano… e temevo di non avere molta voglia di sentirla sclerare per un paio d’ore buone. Ebbene, che bellezza. Il libro racconta la discesa agli inferi di una neo-impiegata europea in una megaditta giapponese. I suoi tentativi di comprenderne il funzionamento, gli equilibri, le gerarchie. È una specie di ode alla catarsi che solo i fallimenti più monumentali possono regalarci, ma anche il resoconto quasi tragicomico della lotta contro un sistema che sfugge alla nostra comprensione e che, soprattutto, non ci vuole. La Morante è ipnotica. E ci incalza senza aggravare l’ansia.

Michela Murgia
L’incontro
(Letto dall’autrice)

Autrici sarde che leggono una storia ambientata in un paesino sardo. Mi pare assai appropriato. Ed è un buon esempio di come la versione audio di un testo possa arricchire la narrazione di partenza, perché il parlato rafforza il contesto e lo rende ancora più vivo. Al centro di questo libro c’è una guerra tra parrocchie, paesani e statue di santi. Ma ci sono anche i legami di amicizia che possono nascere (e sopravvivere alle avversità circostanti) giocando per strada, da bambini. È un’avventura comica, ma anche uno spaccato di mondo in cui si agitano ricordi, miti truculenti, ginocchia sbucciate e incenso che appesta l’aria. Cosa non trascurabile, contiene anche preziosi stratagemmi per liberarsi dalle pantegane.

Miriam Toews
Un complicato atto d’amore
(Letto da Linda Caridi)

Questo ascolto mi ha fatto capire che anche la produzione di audiolibri risponde a precise regole di casting. Nomi, la protagonista, ha sedici anni e vive in una comunità mennonita dalle molteplici contraddizioni e dalle ragguardevoli rigidità – almeno formali. È un racconto spezzacuorissimo di abbandoni seriali e un viaggio nella testa di chi rimane, cercando di venire a patti con un paesaggio dove i punti di riferimento non esistono più e quelli che ci sono – la chiesa con le sue regole – non fanno altro che esacerbare la distanza tra noi e gli altri. Linda Caridi è una giovane attrice italiana e, anche se questa è in assoluto la lettura più “calcata” che ho sentito, ha restituito bene la violenza emotiva dell’adolescenza, con le sue grandi disperazioni, i suoi vuoti, i suoi stordimenti e le sue gioie profondamente istintive.

Carlo Rovelli
Sette brevi lezioni di fisica
(Letto dall’autore)

Ho scoperto che Carlo Rovelli ha una bellissima rrr che penso si collochi all’intersezione tra un piacentino – lo so bene, fidatevi – e un nobile cortigiano dell’assolutismo francese. Inflessioni a parte, io di fisica non ho mai capito NIENTE, ma mi sono appassionata. Non posso dire di aver assimilato alla perfezione le sette lezioni qui proposte, ma il nobile scopo di fondo mi è chiaro: renderci partecipi della complessità delle forze che governano la struttura del nostro universo e spiegarci che, in fondo, la scienza è alla base di ogni avventura umana.
Povero Rovelli, ha letto per un’ora abbondante e quello che ne ricavo io è LO SO CHE NON CI ARRIVO MA LA SCIENZA È FANTASTICA.

Chimamanda Ngozi Adichie
Dear Ijeawele, or a Feminist Manifesto
(Letto da January LaVoy)

Perdonatemi, ma ogni dieci giorni ho bisogno di farmi dire dalla Adichie che cucinare non è un’incombenza che la biologia ha specificamente destinato alle donne. O che i papà che cambiano un pannolino non andrebbero applauditi come eroi conquistatori perché i figli sono anche i loro… e che il fatto che se ne prendano cura dovrebbe essere la normalità, mica un miracolo. Con i quindici suggerimenti contenuti in questo libro Chimamanda risponde a un’amica che le aveva chiesto consiglio su come crescere “bene” sua figlia e, nel farlo, porta ancora una volta allo scoperto le colossali stupidaggini con cui, nostro malgrado, siamo ancora costrette a confrontarci quotidianamente.

Neil Gaiman
Norse Mythology
(Letto dall’autore)

Qui sarò molto professionale: CHE BENESSERE. NEIL GAIMAN PATRIMONIO DELL’UMANITÀ.
L’epica norrena rielaborata da un maestro assoluto del fantastico: Norse Mythology è una sorta di antologia che raccoglie i miti più significativi della tradizione “scandinava”. Divinità, mostri, regni lontani, alberi del mondo, ponti arcobaleno, idromele, cavalli a otto zampe, giganti, malefatte, eroismo, poeti, trasformazioni e valchirie si alternano sul palcoscenico, ripercorrendo il grande arco temporale che congiunge le origini del mondo all’inevitabile crepuscolo della creazione – il Ragnarök. Gaiman non solo rende i miti assolutamente godibili – riproducendone l’impronta epica senza però privarli della sua impalpabile ironia – ma li legge anche con la passione e il piglio divertito di chi sa, sopra ogni altra cosa, quanto una storia ben raccontata possa toccarci nel profondo, e rimanere con noi ben oltre la fine dei tempi.

Ecco, ho finito.
Se vi interessa fare un esperimento con Storytel, vi ricordo il link per usufruire bellamente del periodo di prova “potenziato”: correte qui.
Se vi siete già invasati, invece, abbracciamoci forte mentre pieghiamo le lenzuola o sbattiamo padelle unte in lavastoviglie. Da parte mia, per quel che vale, continuerò a raccogliere i miei ascolti qui sul blog e, ovviamente, anche nelle beneamate Stories.
Per il resto, buon ascolto.
O si dirà “buona lettura”?
Chi lo sa.
Facciamo così: buone storie, come e quando vi pare. 

 

Ho salutato Amore del Cuore, prima di partire, con un sincero “Ti invidio tantissimo”. Stavo per affrontare una settimana al mare in compagnia dei miei genitori – esseri umani con cui non abito più dal 2009 – e di un sempre più irruento Minicuore – creaturona con cui, invece, abito moltissimo da 10 mesi -, mentre Amore del Cuore sarebbe rimasto a Milano per i fatti suoi. Sette giorni SETTE di perfetta solitudine. Giorni lavorativi, va bene, ma pur sempre giorni completamente privi di pannolini, pastine, piantini e passeggini.
“Ti invidio tantissimo”, dunque.
Ma anche “Cosa credi, la vera vacanza te la fai a Milano quando non ci siamo”.
“Ma no, non è vero. Mi mancherete. Tornerò a casa e non ci sarà nessuno”.
“MA MEGLIO PER TE, AMORE DEL CUORE”.
Tralasciando queste nostre divergenze prospettiche sul tema dell’alienazione e delle gioie domestiche, comunque, ho lasciato ad Amore del Cuore un collaudo da sbrigare. Un’incombenza veramente gravosa. Un fardello quasi intollerabile. Un peso sconfinato. Una menata apocalittica.
Insomma, mentre MADRE mi ordinava di stendere fuori le salviette ogni volta che mi asciugavo le mani – perché altrimenti in bagno c’è umidità e si ammuffisce tutto -, Amore del Cuore ha fatto del suo meglio per obbedire a un semplice imperativo: goditi una serata estiva. A casa tua. In pace. Trovi tutto nella scatola. Fai quello che ti pare.

fritz kit

Mentre io e i valorosi nonni percorrevamo per la quindicesima volta il lungomare di Loano (garrula località del savonese) spingendo un euforico Minicuore tra palme, gelaterie, gabbiani, anziani col deambulatore e maldestri mimi di strada, Amore del Cuore faceva del suo meglio per mettere a frutto le sconfinate potenzialità di un kit di intrattenimento domestico in grado di capirlo davvero. I Navigli sono pieni di gente sudata che fa l’aperitivo in una di quelle mangiatoie con le frittatine molli e i tramezzini umidicci? Lascia perdere. Cucinati qualcosa di decente, scandaglia Netflix e goditi il wi-fi in una corroborante nuvola di Autan.
“Mi mancherete tanto”.
Ma figuriamoci.

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Foto di Amore del Cuore, che intendeva dimostrarmi tutto il suo impegno.

Lo scopo dell’operazione affidata al mio consorte, comunque, non era prettamente culinario… anche se devo dire che si è decisamente applicato molto. L’idea di base era di collaudare il Fritz WLAN Repeateruno scatolino in grado di amplificare il segnale wi-fi domestico, rendendo la rete fruibile – in tutta la sua potenza – anche negli angoli più remoti della casa.
Ora, noi non abitiamo in un maniero e nemmeno possediamo dieci ettari di giardino, ma il wi-fi non circola con la medesima baldanza da tutte le parti. In salotto siamo messi bene, ma in camera – dove io, teoricamente, avrei il mio “studio” – va col freno a mano. Idem per la stanza da letto e per il bagnettino limitrofo – e che te ne fai del wi-fi in bagno? Presto lo scopriremo. Mi domando come facciano quelli che abitano in posti tipo il castello della Bestia – LUMIÉRE! PERCHÉ NELL’ALA OVEST NON RIESCO A NAVIGARE? Padrone, l’incantesimo che ci ha maledetti genera drammatiche interferenze, porti pazienza e faccia in modo di trovare l’amore, invece di prendersela con un candelabro. -, ma ho poi compreso che, in effetti, ci sono arguti stratagemmi in grado di sostenerci.
Amore del Cuore, in casa nostra, è senza dubbio il più fervente cultore del bagno nella vasca. Non vede l’ora di tornare a casa in motorino sotto a un temporale devastante per potersi concedere una corroborante mezz’ora di ammollo – “Ho preso freddo, mi faccio un bagnetto”. Di solito legge, quando si ritira nella vasca. Un po’ perché ha già buttato il cellulare nell’acqua e non vuole più correre rischi e un po’ perché col cellulare ci farebbe poco, visto che nel bagnetto il wi-fi è storpio. MA ORA NON PIÙ, a quanto pare.
“Amore del Cuore, sono contenta che tu abbia mangiato bene, ma l’aggeggio l’hai provato? Lo devi fare, è importante. Dobbiamo dire se funziona”.
“Sono in bagno. Adesso metto l’iPad sulla seggiola, attacco il coso e finisco di guardare Netflix”.
Ed è andata così. Dalle frammentarie informazioni ricevute da un uomo nudo che riempie una vasca da bagno ho potuto apprendere che il Fritz funziona in maniera assolutamente elementare – potete piazzarlo dove vi pare, basta che ci sia una presa. Per attivarlo e associarlo alla rete di casa vostra bisogna schiacciare un bottone, punto e stop. Non ci sono fili, mostruosità, ponti intergalattici da costruire e, in generale, l’arnese ha un aspetto poco invasivo e assai lineare. Ci sono delle lucette in grado di comunicarvi la solidità del segnale e, per farla breve, Amore del Cuore è finalmente riuscito a godersi un bagno guardando quello che gli piace. Perché diciamocelo, ci sono cose che su Netflix si guardano insieme e cose che, invece, preferiamo coltivare in solitudine. Amore del Cuore, ad esempio, in mia assenza mangia l’amatriciana (perché non sono fan né degli spaghetti né dei sughi prevalentemente a base di pomodoro CHE VI DEVO DIRE DENUNCIATEMI) e guarda i documentari sulla seconda guerra mondiale.
Ma non possiamo certo farci liquidare così, Amore del Cuore.
Ecco, dunque, la lista dei suoi preferiti.

– Better Call Saul
– Designated Survivor
– Limtless (ebbene sì, c’è anche una serie)
– Master of None
– The Propaganda Game
– Going Clear
– Auschwitz: nascita, storia e segreti di un incubo (ma si può?)
– Missione Anthropoid (questo non so come sia, ma se il tema vi appassiona vi consiglio di leggere HhHH)
– E, teniamoci forte, una pietra miliare che è riuscito a descrivermi solo così: “Hitler in Argentina o una roba del genere”

Mi piacerebbe molto mostrarvi il Fritz che garrisce spavaldo dalla presa del bagno di casa mia, ma non dispongo di documentazione fotografica.
“Amore del Cuore, le foto della cena sono utilissime e saresti un favoloso food-blogger… ma lo scatolino l’hai fotografato?”.
“Ah, quello no. Ma serviva?”.
“…”.
Tutto questo, ovviamente, mi è stato comunicato quando era già in autostrada.

Gli saremo mancati davvero? Chissà. Ma sono certa che il prossimo autunno sarà un tripudio di gite nella vasca da bagno. Il bisogno di relax – sostenuto da una solida rete domestica – non conosce stagioni, dopotutto.
Grazie, Amore del Cuore. E ben arrivato al mare, anche se fotografi solo piatti di pasta.

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Il mio amore per la cancelleria sta cominciando a produrre risultati imprevedibili. Adoro comprare quaderni bizzarri, adorabili blocchetti per gli appunti ed estrose biro dal tratto vagamente pennarelloso, ma non ci faccio mai niente. Le penne mi provocano scompensi minori, ma non c’è verso di convincermi ad aprire un quaderno BELLO e a scriverci dentro per davvero. Ho un’agenda “di servizio” che uso per annotare (A MATITA) gli impegni e la lista delle cose da fare, ma ho praticamente perso la capacità di tenere traccia di quello che mi capita o di scarabocchiare da qualche parte quello che vedo o quello che mi colpisce. Da piccola ero molto scrupolosa. Scrivevo tutto. Mi ricopiavo sul diario anche gli SMS che mi arrivavano, che con lo spazio che c’era sul 3310 mica si poteva andare avanti chissà quanto. Mettevo da parte i bigliettini, ritagliavo foto dalle riviste, immagazzinavo cartoline, catalogavo lettere e non buttavo neanche un disegno. Visto che non mi sentivo particolarmente padrona della situazione, cercavo di catalogare il catalogabile, sperando che – almeno sulla carta – le cose cominciassero ad assumere una forma vagamente comprensibile. Ora, nonostante l’accrescimento esponenziale della complessità delle mie giornate, percepisco un quaderno come qualcosa di decorativo e piacevole, più che come uno strumento in grado di aiutarmi a non prendere a capocciate il muro. Quello che continua a sembrarmi importante, però, è il bisogno di non dimenticare quello che, anche solo per un attimo, mi è sembrato speciale. E, visto che non riesco più a farlo con un quaderno vero, ho deciso di equipaggiarmi diversamente. Certo, adesso ho molti più strumenti per esternare le mie imprescindibili osservazioni e per collezionare quello che vedo, ma la sensazione è che l’universo sia vasto e che ci sia sempre qualcosa che mi sfugge. Un tweet di qua, una post su Instagram di là. E rimane comunque un gran casino. Le cose succedono, si accumulano, si disperdono e vengono dimenticate.
Ci vorrebbe un diario, ho pensato.
Ma un diario un po’ più realistico e maneggevole di quello che avevo da piccola.
Una sera, poi, il nostro amico Andrea ci ha fatto una foto. Avevamo mangiato, eravamo in giro e, in qualche modo, avevamo partecipato alla sua giornata. E siamo finiti nel suo diario. Belli tranquilli, così come eravamo. Curiosa come una bertuccia, mi sono fatta spiegare che cosa diamine stava facendo con il nostro prezioso ritratto… e ho scoperto Day One.

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Non mi pare un’app dal potenziale particolarmente rivoluzionario – è pure in giro da qualche anno -, ma mi è subito sembrata un’ottima invenzione.
A che serve?
Day One è fondamentalmente un diario. Le diverse entries si possono catalogare seguendo categorizzazioni pazze (dei sotto-diari, di fatto) o, semplicemente, creare e buttare dentro in ordina cronologico, lasciando alle label il compito di riordinare il mondo. Ogni contenuto può essere accompagnato da un piccola galleria di immagini – pescabili da rullino -, da un testo – io sono abbastanza laconica ma, volendo, uno può scriverci dentro anche Guerra e pace -, da un tag geografico – con tanto di meteo e temperatura – e da una serie di etichette che puoi inventarti a piacimento e che, fra mille anni, potranno aiutarti a ripescare quello che ti è successo.
Niente di clamoroso, insomma… ma Day One fa innegabilmente il suo sporco dovere. E mi sta regalando l’illusione di governare un po’ meglio il caos. Per ora mi sto solo divertendo a raccogliere ricordi quotidiani, ma potrei provare a inventare dei diari paralleli per gestire meglio – che ne so – quello che capita al lavoro, le menate burocratiche che ci devastano la vita – il 26 maggio hai stupidamente accettato di dare un milione di euro al tuo gestore telefonico, cretina! -, le avventure di Minicuore, una routine ginnica, la roba che leggo, i film che vedo.
E niente, tutto qua. Ve lo volevo dire. Il diario è l’invenzione più vecchia del mondo… e IL DIARIO SULLO SMARTPHONE non è sicuramente il miracolo del progresso moderno, ma mi trovo bene, che cosa devo fare. Sono una ragazza semplice. L’interfaccia di Day One mi capisce. Mi viene addirittura voglia di ricordarmi più cose, da quando uso Day One. L’ho pure pagata 4 euro e 99, questa strabenedetta app. Non compravo un’app dal giorno del mai! Che sta succedendo, mi sono rincoglionita all’improvviso o tutti quanti si ritrovano prima o poi a gestire abitudini diaristiche più o meno insensate?
Raccontatemelo, diamine.
Ho bisogno di capire se anche voi siete travolti dalle mie stesse preoccupazioni. Se temete l’oblio. Se ve ne fregate.
Avete metodi alternativi da suggerire?
Là fuori ci sono app ancor più stupefacenti di cui ignoro l’esistenza?
Ma, soprattutto, avete visto qualche quaderno bellissimo che posso ammirare, coccolare e apprezzare senza mai scriverci dentro neanche una riga perché ormai ho Day One e buonanotte al secchio?
Illuminatemi.
Ogni contributo, siatene certi, verrà catalogato con cura.