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Benvenuti, questo è il Vedileggi. La rubrica che esiste – suo malgrado – per raccontarvi che cosa ho letto e visto nel mese X. Questo mese – e solo per questo mese -, X = febbraio. Grande Giove! Sembrerebbe una gloriosa rottura di balle… e invece no. Perché ci sono le GIF animate.

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Lucy

Sono dieci minuti che provo a scrivere qualcosa su questo film di Luc Besson, ma non so da che parte cominciare. Sul serio, il disagio mi strangola. Atteniamoci dunque ai fatti. Scarlett Johansson, sfigurata da un infelice taglio di capelli, viene rapita da un pingue gangster asiatico e, dopo un intervento chirurgico incredibilmente rapido, si ritrova con la pancia imbottita di bizzarri sacchetti di droga. A questo punto, Scarlett-Tacchino-Ripieno-Johansson viene presa a calci da un carceriere poco lungimirante e, grazie a una qualche diavoleria cellular-metabolico-molecolare, la droga comincia massicciamente a fondersi con il suo nobile organismo, trasformandola in una specie di Gesù telecinetico che tutto vede, tutto sa e tutto può. Il domandone generale è il seguente: che cosa accadrebbe se usassimo il 100% delle nostre facoltà cerebrali? Che problema c’è, chiediamolo a Morgan Freeman. Il distinto signor Freeman, ancora una volta, viene chiamato ad interpretale uno dei tre ruoli che ha passato la vita a perfezionare: la divinità, il saggio, il presidente degli Stati Uniti. Qua, visto che fa il genetista – o qualcosa del genere – possiamo farlo passare per saggio. Senza riuscire a nascondere il proprio imbarazzo – ogni volta che dice qualcosa, infatti, Besson ci attacca dietro degli improbabili spezzoni di documentario pieni di mufloni che crepano, coccodrilli che nuotano e mangrovie che crescono -, Morgan Freeman accoglie Scarlett-Gesù nel suo laboratorio, assistendo alla sua trasformazione finale in un mucchio di nafta semovente.
Ma quindi il senso della vita…?
Ma allora l’umanità dovrebbe…?
Cioè ma cosa possiamo imparare da questa strabiliante metafora di…?
Ma noi…?
Ma allora la scienza…?
Non ci sarà dunque mai dato sapere come fare a…?
…io non lo so. Sarà che uso una porzione troppo esigua del mio cervello.
E un gigantesco WTF solcò il cielo.

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Nymphomaniac II

Cosa facevamo, ne guardavamo solo un pezzo? Giammai!
Mi ha messo una tristezza unica, questo secondo capitolo. E non tanto perché la povera Jo sia una che si diverte a farsi prendere a scudisciate da Billy Elliot, macché, è il finale. Ci sono rimasta male. Malissimo. Disperazione e scoramento. Non perché sia un “brutto” finale – anzi, è assolutamente glorioso -, ma perché è proprio uno sputo in faccia a tutto quello che di buono e bello ti aspetteresti dall’umanità. Una tempesta di cacca che investe il bucato bianco di vostra nonna. Una slavina che travolge una capanna piena di gattini e speranza. Il cavallo Artax che affonda nelle sabbie mobili, mentre il Nulla vi fa dei pernacchioni.
Aaaaah! Ma andatevene tutti quanti a quel paese!

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Marco Peano, L’invenzione della madre (Minimum Fax)

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Quando è uscito questo libro, l’intera galassia ha esclamato ERA ORA, PERBACCO! Non si sa perché, ma tutti sanno – da sempre – che Marco Peano è uno scrittore. Dev’essere l’andatura. La roba strana che ti racconta. O l’incredibile coerenza che lo spinge a vestirsi sempre e solo di nero. O Michele Mari che vuole essere seguito solo da lui, quando gli esce un Supercorallo nuovo. Non so, se si fida Michele Mari, chi siamo noi per dubitare. Insomma, si sapeva già, che Marco Peano avrebbe scritto qualcosa, prima o poi. E finalmente abbiamo L’invenzione della madre.
Non so cosa mi aspettavo, da questo libro. Quando una persona che conosci – anche solo un pochino – scrive qualcosa, si cerca di fare un passo indietro e di non partire prevenuti. Ti viene anche un po’ d’ansia… e se poi è una scemenza? E se non lo capisco? Insomma, se una persona che conosci scrive un libro, senti il bisogno di creare una piccola distanza, e di fartelo piacere. Ecco, L’invenzione della madre vi toglierà dall’imbarazzo. Una storia così non ti può piacere. Almeno non come potrebbe garbarti una tortina tutta glassatina, fruttatina e zuccheratina. L’invenzione della madre, tanto per farvi capire, è un po’ come pigliare uno che soffre di vertigini e appenderlo a un viadotto. È un libro durissimo, indigesto, doloroso. Vi verrà voglia di sbudellarvi in Piazza Duomo, coi piccioni che vi becchettano le palle degli occhi. Un libro capace di conciarvi in una maniera così miserabile è raro e prezioso. E sono felice che Peano sia finalmente riuscito a farcelo leggere.
Tié.

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Antonio Riccardi, Cosmo più servizi (Sellerio)

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In questo volumino troverete incresciosi segreti di famiglia, animali impagliati – a Parigi, mica a Buccinasco -, giardini congelati, pietrificatori di materia viva, diorami, montagne di gazzelle artisticamente carbonizzate, cimiteri monumentali e vecchie zie veramente devotissime. Questa raccolta di saggi, in pratica, è una puntata di Mistero… solo che non c’è Pinketts che ronfa su una seggiola. Ci sono, invece, curiosità super leggiadre e meraviglie nascoste, ricordi che si mescolano a pomeriggi passati al museo, cose antiche – spesso decomposte – e installazioni iper tecnologiche, libri, bellezza e carabattole.
Gioia, amici. Gioia.

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Birdman

Amore del Cuore, ma hai visto? Sembra un unico piano sequenza! E quanto è stronzo Edward Norton? Cioè, è proprio Edward Norton! Anche Michael Keaton è lì che racconta la sua vita! E c’è addirittura Carver! E gli occhi di Emma Stone SONO SEMPRE PIÙ GROSSI! Come diavolo è possibile! Non ci credo, la batteria che ci rintrona da mezz’ora? È quel tizio lì! …ma dici che vola veramente? Che dialoghi interessanti e ingarbugliati… va bene, certe volte parte un pippolone, ma mi sorbisco volentieri anche quello. Cielo, la magia del teatro! La telecinesi!
Birdman mi è piaciuto moltissimo. Sarà perché è un po’ un oggetto volante non identificato. Sarà perché è qualcosa di incredibilmente bizzarro e originale. Sarà che è bello quando il cinema, di tanto in tanto, ti spiazza con qualcosa che non ti aspetti. Stupore, amici dei cuccioli. Stupore.

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Better Call Saul – 1×01 + 1×02

Orfani di Breaking Bad, accorrete – ma non troppo velocmente! Saul Goodman è venuto a soccorrerci… anzi, Saul Goodman e una valanga di altra gente in vena di divertirci con assurdi cameoS. Cameo ce l’ha un plurale? Perché CAMEI mi suona veramente malissimo.
Comunque.
Better Call Saul comincia in bianco e nero. All’insegna della mestizia, del fallimento e della pasticceria industriale. E non è che la vita del nostro eroe, prima di diventare effettivamente il Saul Goodman che conosciamo, sia poi tutta questa gran festa. Scopriremo che, da giovincello, si guadagnava da vivere spaccandosi le gambe sul ghiaccio. Di proposito. Ci troveremo di fronte ad abissi di squallore senza fondo, da studenti che si accoppiano con teste mozzate ad uffici-ripostiglio nel retro di deprimenti saloni di bellezza cinesi. Better Call Saul è un mini-festival del grottesco, dell’espediente maldestro e del malinteso. E, no, per ora non è Breaking Bad, ma ho molta voglia di vedere come andrà a finire. Saul, d’altra parte, ha sempre bisogno di un pochino di tempo per carburare. In alto i bicchieroni di caffé.

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Vikings – 1×03 + 1×04

Ve lo dico con sincerità. Vikings lo guardo solo perché sono tutti incredibilmente arroganti, biondi e sbruffoni. E per imparare a farmi le trecce come una vera guerriera. Nemmeno nel diamine di Trono di Spade ci sono delle pettinature così gloriose, improbabili e barocche. Lagertha, conducimi dal tuo parrucchiere!

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Italiano medio

Maccio Capatonda ha allietato gli anni migliori della mia vita. Una sera l’ho pure incontrato nel posto meno avvincente del mondo. A Piacenza c’è questo locale che si chiama Baciccia. Una specie di cascina trasformata in un serraglio per gli amici della birra. Niente, una sera – come sempre senza senso – siamo andati al Baciccia e ci siamo accorti che, lì in mezzo agli altri esseri umani, c’erano Maccio Capatonda e Rupert Sciamenna. Perché erano lì? Che cosa speravano di trovarci? Da dove arrivavano? Avevano già fatto visita al sudicio paninaro in fondo alla strada? Che ne pensavano della mia città natale? Ci sarebbero mai tornati? Chi lo sa. Ci siamo fatti una foto insieme e tanti saluti.
Perdonatemi, ma ci tenevo proprio a raccontarlo. Tutti hanno un aneddoto insignificante, da qualche parte. Se c’è un VIP, poi, ancora meglio. Per dire, MADRE ripete da trent’anni che, una volta, Ornella Muti mi ha presa in braccio. Anche lì, nessuno ha mai capito perché. Ornella, ti prego, spiegamelo.
Dicevamo?
Ah.
Dicevamo che Maccio Capatonda è stato molto importante per me. Ho passato settimane bianche a intonare i lamenti di Mariottide in seggiovia. Ho cercato invano di scoprire che faccia avesse il piccolo Riccardino Fuffolo. Tutt’ora, alla bisogna, dichiaro di avere i pugni nelle mani. E, ogni volta che vedo un medico, la prima cosa che vorrei fare è strillargli DOTTORE CHIAMI UN DOTTORE. Maccio Capatonda è un genio. È il maestro indiscusso della trollaggine. Ed è il capo degli zarri, anche se riesce a farsi passare per un acuto e illuminato mago della satira.
Ma chi se ne importa.
SCOPARE!
Per me, alla fin fine, Italiano medio è soprattutto un collage di antiche felicità. Certo, fa ridere. Chiaro, si potrebbe addirittura sostenere che smascheri con sagacia e impareggiabile acume ogni bruttura della nostra società, dal menefreghismo dilagante all’ignoranza più gretta e distruttiva. Io, però, mi diverto un sacco anche a guardare cinque minuti di Anna Pannocchia in tutù rosa – e rasta – che balla in un corridoio.

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Lehman Trilogy (Piccolo Teatro)

Avevo vicino questa signora fastidiosa. La classica signora con il sedere ripieno di suricati, quelle che vanno a teatro perché così possono dire che sono intelligenti, quelle che fanno SHHHH se qualcuno osa ridere un po’ più forte degli altri e che si stizziscono se, accidentalmente, la codina della tua sciarpa finisce per invadere – di massimo un centimetro – il loro spazio vitale. Ebbene, io – che passo le giornate a guardare le lontre neonate su internet – ho spavaldamente affrontato cinque ore di spettacolo senza battere ciglio. La signora, invece, si è ingloriosamente addormentata a metà del primo atto, facendomi incazzare come una bestia. Ma che storia è! Vieni qua a fare la paladina delle arti, ci rompi i coglioni per un colpo di tosse e a “Lo spettacolo sta per iniziare. Si prega di silenziare i cellulari” commenti “Ah, sarebbe anche ora…”, e poi ti addormenti come una mondina devastata dagli stenti e dalla disidratazione. Non sai dove buttare i tuoi 40€? Dalli a me, invece di comprarti i biglietti di Lehman Trilogy! Maledetta!

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Sempre alla fine del primo atto – della durata di due ore e trentacinque minuti -, i vicini di Amore del Cuore ci hanno deliziato con la seguente conversazione.
Ah, ma no, il Giangi tirerà su duecentomila l’anno.
Vabé, capirai.
Eh. Ma ti pare?
Ma guarda te.
Senti, però. Ti chiedo una roba, che non so mica se ho capito.
Dimmi, ciccia.
Ma questi Lehman qua.
Eh.
Sono quelli della Lehman Brothers, no? Che magari mi sono persa qualcosa, non lo so.
Sono loro, ciccia.
Ah, ecco.
Sono quelli che hanno causato la crisi!
…merde!
Luca Ronconi, grazie al cielo, non è stato costretto ad assistere a questo scempio. Comunque, Lehman Trilogy viene da un libretto di Stefano Massini (che potete comodamente leggervi anche nella Collezione di Teatro made in Einaudi). E noi ce lo siamo visto al Piccolo (QUELLO IN VIA DANTE, PER CARITÀ, NON COMMETTETE IL NOSTRO ERRORE), con grandissima felicità. La storia è quella della famiglia Lehman, dei tre fratelli bavaresi che, arrivati in America alla metà dell’Ottocento, sono riusciti a costruire dal nulla – ma dal nulla vero – uno dei colossi della finanza moderna. È una storia di usanze, religione, origini, sangue e tradizioni. E di soldi, scambi e controllo. Meravigliosamente recitato, saggiamente minimalista e assolutamente ipnotico, Lehman Trilogy è istruttivo, affascinante e per nulla pomposone. Il capitalismo spiegato a chi non sa usare un foglio Excel! E, cosa non da poco, non dovete per forza vedervelo in cinque ore filate. Lo fanno anche spezzettato in due. Chiedete al Giangi se vi trova un paio di biglietti. Sempre che il crollo della Lehman non l’abbia mandato in rovina…

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Sentiti ringraziamenti ad Amore del Cuore per questo banner spaccainternet.

 

Visto che Steven Soderbergh me l’ha chiesto espressamente – ma proprio di persona, con un cabaret di pasticcini in mano e un ghepardo rosa al guinzaglio -, ho deciso di provarci anch’io. Perché l’idea è quantomai avvincente, nella sua grassa semplicità. Il domandone è il seguente: che cosa hai visto/letto nell’intervallo di tempo X? Valgono i libri, gli spettacoli teatrali, le serie TV, i film, le mostre, i fumetti, le etichette della crema idratante, l’opera, il burlesque e pure gli scontrini dell’Esselunga. Insomma, faccende culturali, ludiche e curiosone. Soderbergh, che non ama pettinare le bambole, la lista la mette insieme una volta l’anno. Io, che ambirei ad aggiungere anche qualche commentino a quello che ho masticato, vorrei provare a sfornare un piccolo papiro mensile, divertendo le folle e seminando il disordine. Il mostruoso esperimento, qua nei Tegamini, si chiamerà Vedileggi. E che il cielo ci protegga.
Provo?
Provo. In rigoroso ordine cronologico. E senza vergogna.
Molto bene.

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Fuori in 60 secondi

Sei sul divano con la sacra copertina di ciniglia, cambi canale a caso e, magimagia, esce il faccione di pietra di Nicolas Cage. In uno dei suoi ruoli più acclamati, poi. Vedi Nicolas Cage e una forza misteriosa ti impedisce di scappare. Nicolas Cage balena sullo schermo – con una certa flemma – e te devi per forza dargli retta. Che facciamo, Amore del Cuore? Cioè, è Fuori in 60 secondi. Dobbiamo guardarlo. È una missione, in pratica… se non lo facciamo, lo scaffale con la nostra sarcastica collezione di DVD di Nicolas Cage ci crollerà in terra. Anzi, cadrà sul gatto e ce lo acciaccherà irrimediabilmente. È proprio una questione di coerenza. E poi c’è anche Angelina Jolie coi rasta fatti col dentifricio. LA VITA.
E niente. Siamo rimasti lì a guardare Fuori in 60 secondi. Felici come gli ultimi imbecilli della Terra.

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The Imitation Game

Durante i primi ventisei minuti di questo film, la mia preoccupazione principale è stata una focaccia al pomodoro. Rovente. Untissima. Impossibile da mangiare al buio. Avevo questa focaccia sulle ginocchia, adagiata sul suo civilissimo cabaret. Nonostante il cabaret, un tovagliolo di carta al collo e pure le posate, sono riuscita a tirarmi addosso di tutto. Litrate di sugna. Pezzi di formaggio. Grasso di balena. Gnomi. Nasi finti. Mentre io lottavo con una focaccia, Benedict Cumberbatch – la lontra più espressiva del mondo – combatteva la sua personale battaglia contro il nazismo, i pregiudizi della società, Nonno Lannister, le parole crociate, le clavicole a punta di Keira Knightley, l’impressionante panza che è spuntata all’improvviso all’autista di Downton Abbey e le continue lamentele di Amore del Cuore – il laureato in storia più pignolo e rompicoglioni di sempre… soprattutto quando gli toccano la Seconda Guerra Mondiale.

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Come sottofondo generale – a parte il mio scartocciamento di focaccia e le puntualizzazioni stizzite del mio consorte -, c’erano i vecchi dell’ultima fila, telecronisti mancati. Quando s’è scoperto chi era davvero la spia sovietica, nessuno è stato più in grado di tenerli. Al mio fianco, per peggiorare ulteriormente la situazione, c’erano due fangirl (VECCHISSIME) di Sherlock. Quando il signor Turing s’è messo a correre in braghette corte, hanno praticamente cominciato a strofinarsi sul bracciolo della poltrona, mugolando come scimmie bonobo. E io là con la mia focaccia, troppo disorientata per riuscire a pigliarmi bene per questo film, nonostante l’infinita ammirazione che nutro per il genio di Alan Turing e l’immane sdegno per l’ingiusto e ripugnante destino che gli è toccato.

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Franca Valeri – Bugiarda no, reticente

Franca Valeri bisognerebbe utilizzarla come un oracolo. Costruirle una specie di salottino e metterla lì a dispensare saggezza, fino alla fine dei tempi. Questo libro è una specie di autobiografia, un album di ricordi che parla di carriera, amore, infanzia, teatro e storie. La roba davvero speciale di questo libro, però, è che riesce quasi a rendere comprensibile uno dei misteri più ingarbugliati dell’universo: l’ironia.

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Keith Gessen – Tutti gli intellettuali giovani e tristi

Sarò io che non sono abbastanza sensibile, ma questo libro mi è sembrato involontariamente buffo. Mark, Sam e Keith sono veramente tre cialtroni. Lo spaesamento, il declino post-Clintoniano, la becera era-Bush, gli ideali, le tesi di dottorato, i parcheggi che non si trovano, i grandi punti di riferimento, il viaggio come scoperta del proprio cuore, le differenze. La verità è che a Mark, Sam e Keith interessa solo scopare. Tutto il resto succede perché non ci riescono mai.

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Big Eyes

Ci provo sempre, perché è Tim Burton. Io ci provo, ma non c’è niente da fare. Tutto quello che mi piaceva di Tim Burton è praticamente scomparso. Alice in Wonderland è stato un duro colpo, e dubito che riuscirò mai a dimenticarlo. Dark Shadows mi aveva fatto ben sperare, visto che si trattava di una storia di freak, mostri e scherzi della natura. Ma niente, non ha funzionato neanche quello. I film che cercano disperatamente di essere divertenti mi mettono in imbarazzo. È una situazione tremenda. Ti si stringe il cuore e ti dispiaci un casino, ma proprio non riesci a spassartela. Ti prego, apprezza il nostro umorismo un po’ vintage e strambo! Ti scongiuriamo, amaci!
Zero.
Big Eyes, come succede sempre nella fase “Gente, esce un nuovo film di Tim Burton!” mi ispirava parecchio. Ci credevo. Ero pronta a sfidare il gelo serale e il torpore post-ufficio per trascinarmi al cinema. Insomma, c’è Christoph Waltz. C’è questa matta che dipinge bambini derelitti con gli occhi giganti! Sarà fantastico, me lo sento! Adesso… non è mica un brutto film, per carità. È un film dignitoso. Non ti fa arrabbiare, è pieno di colorini pastello e non insulta eccessivamente la tua intelligenza – a parte la battuta cardine di tutta quanta la baracca: “Perché disegni questi grandi occhi?”, “Perché gli occhi sono lo specchio dell’anima…”. Solo che… è un film senza cuore. E pure un attimino palloso. Cioè, poi magari è colpa mia, mi sarò trasformata in un’arida istitutrice con una gamba di legno… sarò diventata un personaggio di Bret Easton Ellis. Io non lo so, ma guardare Big Eyes è stato come sedermi per due ore a fissare un ragazzino che non ha voglia di fare i compiti.
Ma forse sono io che ho gli occhi troppo piccoli.

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Guardians of the Galaxy

Meritano tutto il nostro amore. Ora e per sempre.

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Nymphomaniac – Part 1

Tutti a pesca con Stellan Skarsgård!
Tutti ad abbracciare un frassino!
Tutti a prendere lezioni d’organo!
Diamine… CIT.
Non pensavo di essere tagliata per i polpettoni da intellettuali erotomani – ossessionati dalle tonalità più tristi del beige -, ma Nymphomaniac mi è garbato. Sarà che stavo sorseggiando del genepì, ma l’ho trovato estremamente interessante. È un documentario, in pratica. E io adoro i documentari. Non riesco ad accettare che il naso della giovane Jo si sia in qualche modo evoluto fino a trasformarsi nel canappione della vecchia Jo, ma consideratemi a bordo per tutto il resto. Giaguari compresi.

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Joan Didion, The Year of Magical Thinking

Cielo, c’è addirittura una recensione seria!

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La maschera di Zorro

Dopo circa una settimana di diretta dedicata all’elezione del Presidente della Repubblica, Mentana ha deciso di andare a farsi una doccia, lasciandoci in balia del palinsesto di La7. La7, quando non c’è il telegiornale o un talk-show di approfondimento o la Bignardi che intervista casi più o meno umani, si trasforma uno straordinario pentolone di assurdità cinematografiche. L’altra sera, dal niente, è apparso un film imperdibile: La maschera di Zorro, con Anthony Hopkins che fa Zorro vecchio, Banderas che fa lo Zorro-stagista e Catherine Zeta-Jones che fa l’emoticon della ballerina di flamenco. Tra peones cenciosi, sadici soldati ariani, il limone più duro mai apparso sul grande schermo e tramonti dipinti con le tempere, spicca il maestoso cavallo Tornado… vero uomo-partita-Sky della mirabile pellicola. Io me ne vergogno – anche perché non riesco più a distinguere Banderas dal mugnaio pazzo del Mulino Bianco -, ma mi sono divertita un casino. Con buona pace della pancera di Hannibal Lecter e dell’infelice gallina Rosita.

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Joan Didion, Play It As It Lays

Da qualche parte in copertina, c’è scritto che la Didion scrive col rasoio. Zac. Zac. Zac. Implacabile, affilata e precisissima. La copertina, per una volta, dice la verità. Play It As It Lays è il primo Didion-romanzo che leggo – visto che, purtroppo, L’anno del pensiero magico è una storia autobiografica – e continuo ad essere una piccola fan in pieno entusiasmo da super scoperta recente. In questo libro si sale in macchina con Maria, attrice dalla carriera breve e neanche un po’ folgorante, e si guida in giro per Los Angeles. È una storia di fuga, di vuoti perpetui, di aspettative disattese, di chiacchiere e lunghe giornate senza senso. Più che un essere umano, Maria è una specie di pianta che secca, una persona che si trasforma gradualmente in un fossile mentre il resto del mondo continua a girare – che tutto questo girare, poi, possa rivelarsi senza scopo e senz’anima, è un altro paio di maniche. E in queste maniche dovreste proprio infilarvici.
Team-Didion!

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E per questo mese, cari tutti, abbiamo visto e letto a sufficienza.
Per il prossimo Vedileggi – e per ammirare ancora una volta l’header più straordinario di sempre -, ci si ritrova a fine febbraio. Ho già chiamato il Piccolo Teatro per i biglietti di Lehman Trilogy, quindi potrò cominciare a darmi un tono anche come altolocata consumatrice d’impegnata drammaturgia – impegnata e costosissima, cazzo.
Che gli alpaca proteggano le vostre avventure da divano. E raccontatemi i vostri Vedileggi, se ne avrete voglia.