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Sono in difficoltà. Anzi, fatico ad elaborare un parere razionale PERCHÉ SONO TUTTI INTOLLERABILI. Mi capita raramente, ma ogni tanto capita. Un personaggio solo si salva – e ho a più riprese cercato di gridargli SCAPPA ANIMA BELLA TU PUOI FARCELA ALTROVE, pur sapendo che non poteva sentirmi. Il tema è spinoso ma non sconosciuto da queste parti: Quello che non sai di Susy Galluzzo – che ho ascoltato su Storytel ma che trovate anche in libreria per Fazi Editore – è una storia di maternità e di assimilazione difficoltosa del ruolo. Ci sono responsabilità enormi che andrebbero rette insieme ma che finiscono solo per alimentare dei grandi dossier immaginari del “te l’avevo detto”, c’è il tema di un distacco impossibile perché c’è la paura di non servire più, c’è l’adolescenza e c’è l’abitudine orrenda di misurare col bilancino quanto ci si vuole bene, quanto si fa per la famiglia e a quanto si rinuncia – e non perché ci fa felici, ma per avere abbastanza elementi da rinfacciare alla controparte.

Il nostro punto di vista è quello di Michela, ex cardiochirurga di sopraffino talento che ora fa la mamma quasi a tempo pieno e deve gestire sostanzialmente per conto suo – perché suo marito Aurelio è ancora un medico impegnatissimo – una figlia protoadolescente “difficile”. Leggiamo quello che Michela sceglie di affidare a una specie di diario scritto per la madre, ormai scomparsa da una quindicina d’anni ma ancora ben viva nella memoria e snodo fondamentale della vicenda.

Tutti, qua, vivono gestendo un rancore invalidante.
Michela e sua figlia sono intrappolate in una simbiosi che soffoca entrambe e che si incrina sul tramontare dell’infanzia, lasciando la madre alle prese col vuoto e con una serie di gelosie meschine e la figlia sempre più avviluppata in rituali compulsivi e scatti d’ira. Michela non ne pare consapevole, ma sta facendo penitenza. Ilaria paga altrettanto involontariamente il fatto di non corrispondere alle aspettative, trasformandosi anche nel ricordo perenne di un grande abisso.L’evento che scatena una reazione a catena di scenate, aggressività e ostilità asfissianti è una macchina che arriva e sta per mettere sotto Ilaria, mentre Michela resta a guardare senza muovere un muscolo – pur avendo ampio margine per intervenire. Da lì e tutto finito, non c’è meschinità o colpo basso che si risparmino.

È un romanzo davvero indigesto ma potente – sarà anche l’ottima lettura di Teresa Saponangelo, che resta espressiva ma ben calibrata – da cui si riemerge quasi con disgusto, perché contrasta ogni immagine felicemente stereotipata e ci proietta invece in una dinamica basata sul risentimento e sull’impotenza, sul senso di colpa e sul bisogno asfittico di controllare tutto per non rischiare di tornare più in un angolo molto buio. Non lo so, forse funzionerebbe meglio se le circostanze di Michela non fossero così estreme, peculiari e fin troppo ben apparecchiate per utilizzare il trauma come spiegazione “plausibile”. Nell’essere tremendo e claustrofobico, però, è anche un romanzo spericolato e pieno di pietà, nonostante le numerose ruvidezze e la generosa distribuzione di situazioni iperboliche.

[In collaborazione con quei cuoroni di Clementoni. :)]

Dopo il listone funzionale a tema “che serve quando arriva un nuovo essere umano”, eccomi di ritorno con uno spin-off tra il ludico e l’utile. In qualità di fratello maggiore, Cesare è stato un apripista molto autorevole e ora veleggia verso i sei anni continuando ad apprezzare molto il “catalogo” Clementoni. Tante delle trovate e delle soluzioni per la primissima infanzia che ci hanno aiutato con lui fungono da base anche per la piccola guida che troverete qua. Lo spirito è sempre il medesimo: fornirvi consigli rodati ed essenziali, sia per preparare il nido domestico – se volete immaginarvi come grandi uccelli da cova – che per indirizzare eventuali doni in entrata. Anche in questo caso, insomma, il senno di poi ci assiste con sollecitudine: meno cose ma cose che davvero si sono rivelate funzionali, preziose e sensate nelle operazioni di sopravvivenza all’arrivo di un neonato o di una neonata a casa.
Chiariti gli intenti, ecco i baldanzosi suggerimenti.


Sleepy Moon

Esordirei col grande spauracchio del sonno. Ci sono lucine “da culla” di ogni genere, forma e dimensione e tendono a supplire a due funzioni principali: creare un’atmosfera paciosa e rilassante per favorire la nanna (spesso con una combinazione cromatico/sonora) e dare una mano pure a voi a non brancolare nel buio quando si tratterà di disinnescare il neonato piangente. Noi tenevamo accesa la lucina durante l’addormentamento e la riaccendevo quando mi riappropriavo di Cesare per allattare di notte o placare i risvegli – abbiamo sempre avuto lampade da comodino un po’ troppo luminose per non devastare la vita a tutti. Insomma, le lucine da culla sono un buon compromesso. Qua, per esperienza, tendiamo a non amare molto gli aggeggi musicali – dopo un po’ possono condurre alla pazzia -, ma sul fronte del sonno si sono rivelati benefici. Questa lunina non è ingombrante, illumina il giusto e può fregiarsi di Mozart – che se dovete sentire qualcosa pure voi che sia roba degna, insomma.

 

Coccinelletta-proiettore

Altra soluzione sonoro-luminosa: i proiettori. Personalmente non amo le giostrine o i tralicci che penzolano sulla culla – i neonati vanno tirati fuori e rimessi giù un sacco di volte ed è già laborioso a sufficienza anche senza dover schivare attrezzi telescopici – ma è vero che qualcosa “da guardare” o da percepire nei dintorni possa favorire serenità e relax. Insomma, i proiettori non intralciano ma intrattengono e si possono anche spostare qua e là, aiutandovi ancora a non manovrare nel buio pesto.

 

Coniglietto confortante

Quello dei doudou – o comforter – è un vasto universo. Sono oggetti di transizione che devono essere facili da afferrare (ecco perché hanno prevalentemente una forma a “straccino”), piacevoli da stropicciare e, per sostenere le esplorazioni sensoriali dei primi mesi, interessanti abbastanza da offrire stimoli diversi (ecco perché ci sono nodi, linguette, orecchie che fanno rumorini croccanti o porzioni morsicabili). Coniglietto, contiamo su di te.

 

Soft Spiral Happy Animals

Sempre con l’idea di fornire un avvincente (per quanto compatto) parco giochi sensoriale, sono comodissimi anche i giochi a spirale. Si possono attorcigliare ovunque – dai maniglioni dei passeggini alle cinture delle sdraiette, ma anche ai bordi delle culle – e intrattengono allegramente con un mix di forme e materiali diversi da toccare, suscitando accesissime fascinazioni. Oltre al tatto, “esercitano” anche le orecchie: pure qua gli animalini contengono sonagli o imbottiture scrocchiettose da scoprire.

 

Palestrina (in bianco e nero)

Le palestrine sono una specie di Megazord concettuale: sono dei quadratoni morbidi dove gli infanti possono stazionare in modo sicuro e beneficiare di stimoli di diverso tipo, sia da fochine spiaggiate sulla schiena che durante i primi tentativi di rotolamento sulla pancia. Memore della lotta per la conservazione della mia salute mentale, tenderei a consigliarvi una palestrina come questa, che non ha luci o diffusori musicali. Son più snelle a livello di struttura e, se proprio devono far rumore, lo fanno per rispondere a un’azione del bambino. Qua c’è chiaramente la possibilità di appendere creaturine schiacciose qua e là o di spingersi in esplorazioni visive – perché il bianco e nero? Perché i bambini molto piccoli non ci vedono come gli adulti e assimilano più efficacemente i colori a contrasto.

 

Cuscino Kitty Cat Tummy Time 

Sempre in ottica di “guarda mamma mi hanno installato l’aggiornamento SAPER STARE A PANCIA IN GIU’ 1.0!”, un isolotto su cui far approdare i vostri coraggiosi bruchi striscianti. Anche in questo caso, il cuscinotto offre un supporto per i gomitini ma anche delle opportunità tattili per baloccarsi e/o decidere di spingersi un po’ più in là. Volendo, diventano anche dei cuscini da pisolino.

 

L’orsetto Bob

Concluderei con un suggerimento un po’ sentimentale, visto che conservo ancora l’orsacchiotto che ho più amato da piccola e che mi trascinavo OVUNQUE. Un orsetto ci vuole. Un orsetto è per sempre. Viva gli orsetti. 🙂

Un ricapitolone? Ecco qua il nutrito angolo del sito Clementoni che ospita le cuorosità di questo elenco e molto altro. Che dire, in bocca al lupo e felici primi mesi a voi!

 

 

I fumetti si confermano un luogo efficace per affrontare l’argomento della maternità, soprattutto per quanto riguarda quel limbo complicato di trasformazione fisica e identitaria che si attraversa nei mesi immediatamente successivi a una nascita. Prendo spunto da una lettura recente, La sostituta di Sophie Adriansen e Mathou, per assemblare una piccola lista di narrazioni disegnate che in questi anni ho trovato preziose per esplorare il territorio della maternità e della genitorialità in generale.
Come spesso accade, non è necessario andare alla rigorosa ricerca dell’immedesimazione perfetta, ma mai come in quegli ambiti ancora soggetti a una forte attitudine collettiva al giudizio – più o meno corroborato dall’umana sensibilità e dall’empatia che ogni tema delicato meriterebbe – è prezioso poter contare su prospettive che sfiorano anche gli anfratti meno luminosi di uno specifico fenomeno. Siamo collettivamente educati ed educate a dimostrare competenza, padronanza della situazione, ottimismo e solide capacità, a impegnarci per superare le difficoltà e a non alzare disonorevoli bandiere bianche. Il trauma è un banco di prova, un’occasione per dar mostra di caparbietà, spirito di sacrificio e indomito coraggio. Si può fare tutto, se lo si desidera abbastanza e un’eventuale sconfitta (sovente assai più probabile di un trionfo) si trasforma in colpa, in una testimonianza di inadeguatezza o di demerito. In questo trappolone precipitano anche le neo-madri? Certamente, Vostro Onore. E probabilmente ci precipitano in maniera ancor più rovinosa e potenzialmente dannosa rispetto a quello che ci tocca in qualità di abitanti “normali” di quest’universo collettivo. Alle madri si fanno pochi sconti e perseveriamo nel trascinarci dietro un lungo e ingombrante retaggio popolato da angeli del focolare e sante martiri. Senza dilungarmi in ulteriori pipponi, ecco qua qualche potenziale lettura che può accompagnare – o aiutare a comprendere meglio – cosa succede mentre cerchiamo di assestarci e, soprattutto, di perdonarci quando non ci sentiamo brave abbastanza.

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La sostituta - Sophie Adriansen-Mathou - copertinaCon La sostituta – in libreria per BeccoGiallo –, una scrittrice e un’illustratrice uniscono le forze per raccontare un periodo di assestamento non idilliaco o consolatorio, ma pieno di quei dubbi che sintetizzano lo scontro tra aspettative e realtà, senso d’inadeguatezza e nuove responsabilità, istinto e paura di non essere all’altezza, pressioni “esterne” e sensazioni intime.

Non si tratta di “vendercela” bene o male, di atterrire con un eccesso di franchezza le aspiranti madri volenterose o di metterla giù dura per amore della spettacolarizzazione anche traumatica di un momento complesso, ma di prestare ascolto e restituire dignità a quel che si discosta da romanticizazzioni forzate o dall’obbligo di nascondere una difficoltà per non sentirsi ancor più “sbagliate”.

Il celebre e sempre celebratissimo “istinto materno” è azionato da un infallibile interruttore che si attiva nell’istante esatto della nascita? Quella sicurezza inscalfibile nelle proprie capacità è un congegno che si innesca immediatamente?
Per la mamma di questa storia – che arriva “felice” al parto dopo una gravidanza desiderata, all’interno di una coppia solida e unita da un grande amore e da una quotidianità appagante – c’è ben poco di automatico. Marketa passa mesi in compagnia del fantasma di una mamma perfetta – “la sostituta” del titolo – che altro non è se non la proiezione ideale di quel che vorrebbe fare ma non le viene, il prototipo della puerpera radiosa e straripante d’affetto che non fa fatica ad assimilare i cambiamenti, accetta il suo corpo senza battere ciglio (anzi, torna praticamente subito “come prima”), pare immune a stanchezza e dolore fisico e, soprattutto, è capace di gestire la situazione con accecante ottimismo e mano ferma.

Oltre alla cronaca pratica di quel che capita a Marketa, Clovis e alla minuscola Zoe, al cuore di questo fumetto c’è uno dei più avvincenti misteri che si affacciano alla vigilia di ogni grande evento che altera lo status quo: come la prenderemo, chi diventeremo. Si ascolta più volentieri chi non alza la mano per manifestare un disagio e si accoglie con più semplicità chi “sta bene”, forse. Ammettere che questo “stare bene” non è necessariamente un merito o un fattore che ci connota come esseri umani migliori – dotati o non dotati di prole – credo sia un buon passo per dare spazio senza stigmi anche a chi non sta beneficiando del medesimo stato di grazia. Perché si è più propensi a chiedere l’aiuto che serve (e a riconoscere di averne bisogno) quando il contesto che ci ospita non tratta con sufficienza o con intransigenza una difficoltà, convincendo anche noi di sbagliare se non ci sentiamo sufficientemente capaci.
Non ce la fai? Va così perché non sei abbastanza brava, non perché stai oggettivamente facendo una cosa difficile che può metterti di fronte a ostacoli e intoppi.
Accogliere un’esperienza di maternità che ingrana superando scogli più ditti e aguzzi di quanto ci sembri più rassicurante ritenere “normale” non toglie nulla alle puerpere felici ma, di certo, alleggerisce il bagaglio di quelle a cui sta andando (o è andata) meno liscia.

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Lucy Kinsley ha un tratto adorabile e la limpida capacità di scomporre con chiarezza e sentimento le cose “difficili”. In Molto più di nove mesi non racconta soltanto quello che accade dopo la nascita del suo biondissimo Pal, ma anche il percorso accidentato che ha preceduto il suo arrivo.
La narrazione è inframezzata da approfondimenti sul funzionamento del nostro corpo, informazioni sulla gravidanza e riflessioni sociologico-sistemiche sulla genitorialità e le trasformazioni della coppia. Per quanto si capisca già dalle prime pagine che un bambino alla fine è arrivato, Kinsley dedica ampio spazio alle fasi della gestazione e alle conseguenze fisiche e psicologiche dell’aborto spontaneo che ha subito prima dell’arrivo di Pal. Kinsley si concede il margine di manovra necessario a metabolizzare il colpo subito e, tra emotività da ricomporre e razionalizzazioni non sempre semplici da digerire, ci fa da guida in quel limbo di incertezza (e di fallimento) che precede il concepimento e che spesso le coppie affrontano isolandosi e negando dolori e legittima frustrazione.
È un libro che può contare su un senso dell’umorismo delicato, capace di rischiarare anche le parentesi meno liete. Ma è anche un libro spigoloso, che non indora la pillola e ha il coraggio di chiamare le cose orribili col loro nome.

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Marion Fayolle è una disegnatrice di relazioni. Tra cespi d’insalata ed evocativi lumaconi si è già occupata di coppie e sessualità e, in questo silent-book, ci trasporta sul pianeta dei figli. Talvolta sono giganteschi e ingombranti, altre volte fungono da collante o erigono barriere, giocano con i nostri pezzi o ne portano alla luce di nuovi. Modificano il paesaggio attorno a loro e producono nuovi equilibri. Senza bisogno di parole ma avvalendosi di immagini evocative e argute, Fayolle mappa la cura e la crescita di una famiglia intera che si destreggia in un paesaggio affascinante, accidentato e complesso, tra istanze protettive, nevrosi che proiettiamo su chi ci circonda e serenità ritrovate.

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Cenni rapidi ma attinenti.
Di Pigiama computer biscotti parlo spesso perché Alberto Madrigal produce su di me un effetto rassicurante. Qua racconta il suo apprendistato da papà con candore benevolo e disarmante sincerità: chi può insegnarti a crescere un figlio? Sarò capace di dargli tutto l’amore che merita? Ha senso percepirmi come uno che si limita ad “aiutare”? Cosa succede alla routine lavorativa, soprattutto per chi fa un mestiere creativo? Tra ricerca di nuove fonti di ispirazione, riclassificazione delle priorità e momenti di limpida meraviglia, Madrigal riordina i ricordi e schiude per noi uno spiraglio di calore.

Visto che un papà l’abbiamo incontrato, mi viene spontaneo piazzare qui anche Bastava chiedere. Le dieci storie che Emma raccoglie in questo volume palano di femminismo e di assurdità quotidiane con cui ancora ci tocca scontrarci. Il capitolo più “famoso” e di cui forse si è discusso di più è quello sul carico mentale. Non c’è stortura mappata in questo libro in cui io possa dire di non essermi immedesimata, ma è stato il capitolo sul carico mentale a far scattare quella scintilla di riconoscimento ulteriore che mi ha aiutata ad esternare davvero alcuni bisogni che inconsciamente stavo insabbiando. Ed è capitato proprio negli anni successivi all’arrivo del mio bambino, un momento che penso per molte tenda ad accentuare disparità già presenti ma probabilmente meno pesanti da gestire. Discutere di una fatica è faticosissimo, farla riemergere dal sommerso e non darla più per scontata – o non assumersene la responsabilità in maniera automatica, quasi con determinismo biologico – può creare fratture e disarmonia, ma alla lunga può salvare davvero e creare mondo più abitabile (per mamme e non).

Il mondo dell’editoria per l’infanzia è un posto bellissimo. E non solo “visivamente”. I libri per i piccoli sono oggettivamente favolosi da vedere, ma rispondono anche a una vocazione progettuale e creativa che fa dell’invenzione il suo strumento principale. Il mio infante va per i tre anni e, dopo aver palpato e stropicciato tutto il palpabile e lo stropicciabile, è passato all’analisi meticolosa delle illustrazioni e all’ascolto (assai attivo) di una storia. Abbiamo accumulato tanti titoli che vengono ciclicamente amati con grande trasporto e che, in tutto il periodo del nido, si sono rivelati preziosi alleati nelle perenni operazioni di intrattenimento  della prole. Qui c’è qualche suggerimento per popolare le librerie dei vostri bambini – o quelle di amichetti, minuscoli parenti, nipotini e compagnia saltellante.
Lista – lacunosa ma collaudata.

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Marianna Coppo – Petra

La storia del sasso meno statico di sempre. Lanci! Avventure! Trasformazioni! Illustrazioni adorabili!

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Le mie prime 100 parole

Animali, oggetti domestici, cibo, operazioni quotidiane, veicoli… una specie di riassunto per immagini del mondo, per dare un nome alle cose. Esistono anche degli approfondimenti tematici, nella medesima collana. Cesare si è infervorato molto anche per I miei primi 100 animali e Numeri colori forme.

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Angela P. Arrhenius – Dove sei Signora Gallina?

Cavallo di battaglia assoluto durante il primo anno di nido, Dove sei Signora Gallina? è un libro interattivo con delle sagomine di feltro da sollevare per trovare bestie nascoste in luoghi PALESISSIMI. Grasse risate e diversi ambienti da esplorare, visto che la collana non si è fermata all’aia della Signora Gallina, ma ormai abbraccia gli ecosistemi più remoti. Per espandere la collezione, infatti, ci sono anche Dove sei Signora Zebra?Dove sei Signor Pinguino?Dove sei Signor Orso?Dove sei Signor Leone? Dove sei Signor Cane?. Ma non finisce qui, secondo me. DOVE DIAVOLO SIETE, BESTIOLE. DOVE!

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Mathew Neil – La mia prima biblioteca. I dinosauri

UN COFANETTO MIRABILE CON MONOGRAFIE ILLUSTRATE E RIMATE SUI DINOSAURI PIÙ EMINENTILa collana è ricca. Per dire, c’è anche il cofanetto Leggo e imparo con i numeri, le forme, le letterine… noi, ovviamente, ritenevamo prioritario insegnare a Cesare come campa uno stiracosauro.

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Agathe Demois & Vincent Godeau – Borgo nascondino

Qua serve molta guida da parte dei grandi, perché le illustrazioni sono stilizzatissime e anche la fruizione non è proprio elementare. Ciò detto, evviva. C’è una grossa lente da spostare sulla pagina per far apparire e scomparire pezzi di disegno, riportando alla luce particolari nascosti.

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Emilie Collet – Gli animali nella musica classica

Compositori celebri che raccontano, in musica, il mondo degli animali. Ogni pagina è dedicata a un brano, che si può ascoltare passando il polpastrellino su un bottone.

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Con un ditino – Nella notte blu

I libri con le finestrelle sono una pietra miliare dell’interattività analogica. Qua succede un po’ di tutto. Si possono far crescere i tulipani, viaggiare da una sponda all’altra del mare, cavalcare arcobaleni. Tutto con un ditino.

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Jo Lodge – Roar! Roar! Dinosauri!

Il principio del ditino può essere esteso anche ai grandi rettili della preistoria. Qui non ci sono millemila pagine, ma i dinosauri combinano cose avvincenti. Apatosauri che allungano il collo… pterodattili che sbattono le ali… stegosauri che pestano i piedi… alé.

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Agnese Baruzzi & Gabriele Clima – Buongiorno, pettirosso!

In pratica è un romanzo di formazione che ripercorre le vicende quotidiane di due pettirossi e dei loro genitori. Il libro è pieno di fustellature interessanti, che animano il bosco e aggiungono una dimensione ulteriore al racconto. Ci sono anche Buongiorno, leprotto! e Buongiorno, farfalla!.

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Galia Bernstein – Uno di voi

Grandi felini VS un gattino che sostiene di essere come loro… ma in piccolo. Un libro per imparare ad accantonare le differenze per pensare a quello che ci unisce.

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Eric Carle – Il piccolo Bruco Maisazio (Edizione pop-up)

Classico imprescindibile dell’editoria per l’infanzia, il Bruco Maisazio continua a prosperare, divorando tutto quello che si para sul suo cammino. Questa è un’edizione pop-up di grande impatto scenografico.

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Emilia Dziubak – Un anno nella foresta

Solo illustrazioni. Il medesimo scorcio di foresta, ridisegnato in maniera diversa per ogni mese dell’anno. Che cosa ci si può tirare fuori? Un ragionamento sulle stagioni e sul ciclo della natura. Ma può diventare anche una caccia al tesoro, perché gli animali appaiono e scompaiono – c’è anche una doppia pagina dedicata all’habitat notturno -, vivono la loro vita, si inseguono, si moltiplicano, vanno in letargo, si svegliano, FANNO COSE. Ricchissimo e super divertente da analizzare.

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I piccoli Montessori – Le forme da toccare

L’Ippocampo ha sfornato una piccola collana di scatoline montessoriane che esplorano diversi temi e che, per quel che ho visto giocandoci a più non posso, sono strutturate in maniera molto funzionale e coinvolgente per gli infanti. In questa dedicata alle forme, ad esempio, diverse tesserine con disegnati sopra oggetti quotidiani o “riconoscibili” (dal biscotto alla piramide, per dire) vanno associate alla forma corrispondente, stampata in rilievo ruvidino su un altro cartoncino.

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Che verso fai?

I libri coi buchi sono un’altra meritevole tradizione che vale la pena perpetrare. Quelli della Coccinella, poi, sono invariabilmente corredati da mirabili testi in rima – penso anche a Il gufo e gli altri – oltre che da disegni e soluzioni sceniche assai estrose.

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Hervé Tullet – Un libro

Semplicissimo e geniale. Ogni pagina offre delle istruzioni da eseguire. E alla pagina successiva bisogna vedere che cosa succede. Schiaccia il pallino! Soffia! Scuoti! Genera invasamento istantaneo, all’interno di una perfetta sospensione dell’incredulità.

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Tom Fletcher – C’è un mostro in questo libro

Stesso principio di Tullet, ma qui le cose succedono a un mostrino blu invece che a una schiera di pallini colorati.

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Britta Teckentrup – Ape

Illustrazioni pregevolissime e articolate peregrinazioni boschive alla scoperta della natura, seguendo il percorso dell’alacre ape operaia.

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Chris Hadfield – Il giorno della Luna

Hadfield è uno dei miei astronauti preferiti su Twitter e sono felice che la sua opera di divulgazione scientifica e spaziale sia arrivata anche ai più piccoli. Qui si parte dalla paura del buio (e dei mostri che si nascondono nell’ombra) per arrivare fin sulla superficie della Luna.

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Piccoli libri con adesivi – La fattoria

Gli adesivi sono una fonte perpetua di intrattenimento. Quelli di Usborne hanno un tratto gradevolissimo e, per quel che ho visto, procedono per aree tematiche. La fattoria è rappresentata in diversi ambienti, tutti da popolare con la corrispondente pagina di adesivi. In un momento di particolare machismo, Cesare ha anche preteso di manovrare dei camion.

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Emma Dodd – Quanti tesori!

Emma Dodd riesce immancabilmente a farmi piangere. Perché le sue sono storie di mamme e di papà che insegnano a cuccioli di ogni genere come si sta al mondo. Alla fine del libro tendo ad abbracciare Cesare con foga gridando che gli voglio bene. Di base, mi risponde ANCH’IO TI VOGLIO BENE MAMMINININA. Sì, gli è partita la fase del vezzeggiativo estremo. Comunque, Emma Dodd funziona. E ho amato anche Quel che conta di più.

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Nicky Benson & Jonny Lambert – Ti voglio bene, cucciolo mio

Non lo so, ho un debole per gli animali che insegnano teneramente quello che sanno ai rispettivi cuccioli, esplicitando con efficacia l’ampiezza del loro spettro emozionale.

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Tom Schamp – Il più folle libro illustrato del mondo

Da bambina abituata ai fasti di Richard Scarry, non posso che approvare questa specie di atlante più o meno immaginario dello scibile umano. C’è di tutto. Ci sono le stagioni, i mezzi di trasporto, i supermercati, gli strumenti musicali, gli abiti… ogni vasto insieme concettuale viene esplorato nei dettagli più minimi, aggiungendo personaggi immaginari zoomorfi a cui ne succedono di ogni. Un altro testo da esplorare insieme, spiegando e inventando collegamenti.

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Colorami – Chi c’è sott’acqua?

Una piccola collana di libri-bagno (solo illustrati) da far fluttuare nella vasca. I librini sono di plastica galleggiante e partono in bianco e nero. Si colorano quando vengono immersi… e le strategie possono essere molteplici. Cesare è passato da un repentino tuffo dei volumi nell’acqua a una fruizione più paziente, colorando con il ditino bagnato le pagine. Coccosissimi.

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Tupera Tupera – Le mutande di Orso Bianco

La transizione pannolino-mutanda (accompagnata dalla transizione mi faccio tutto addosso/mi siedo sul water) è una grande tappa evolutiva. Fior di testi affrontano la scottante tematica. Uno dei nostri preferiti è questo, che racconta la storia di un Orso Bianco che perde tragicamente le mutande e va a cercarle per mare e per terra con indomito coraggio.

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Claudio Gobbetti & Diyana Nikolova – Teniamoci stretti

Un trattato sull’utilità dell’abbraccio, pratica benefica che viene qui esplorata ripercorrendo le avventure di una famiglia di lontre particolarmente affettuose e affiatate.

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Gek Tessaro – I bestiolini

Che cosa succede quando si guarda da vicino un prato? Succede che si scopre un mondo, fatto di creaturine minuscole con un’identità ben definita. Un maestro della narrazione per l’infanzia che si diverte a raccontare la complessità della natura e la necessità di rispettare anche chi è più piccolino di noi.

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Mi sarò dimenticata qualcosa? È molto probabile. Ma buone letture lo stesso a tutti quanti. :3

Ah, Francesca! Tu a un anno recitavi a memoria le poesie! E quando andavi ai giardinetti con la tata sgridavi sempre gli altri bimbi che volevano tirare i sassi nella fontana. Sai cosa gli dicevi? SE BUTTI A SASSI A FUNTANA VIENE A CARAMBINIERI LEGA I MANI E METTE A PRIGIONE. Ma ti ricordi Bruno? Eri piccola, ma tutte le volte che lo vedevamo gli davi del nano. Bruno non è mai stato altissimo, ma tu niente, glielo dovevi chiedere. MA COME SEI BASSO BRUNO. MA BRUNO MA SEI UN NANO? Che figure che mi hai fatto fare, che figure. Anche coi nostri cugini di Chivasso. Ti ricordi, dalla zia per capodanno? Dovevi fare tre anni. C’è anche il filmino. Vero, Mimmo? L’avevi fatto il filmino. Avevamo il vestito di velluto uguale, io e la bambina. Quello nero con i fiori. Niente, non volevi stare nel seggiolone. Cercavo di farti sedere, ma tu ti eri stufata e volevi andare in giro. E a un certo punto ti sei girata e mi hai detto PUTTANA. Ma forte e chiaro. Si è capito proprio bene. Bello scandito. Pensa te, cosa mi è toccato sentire. Davanti a tutti, poi.

Ogni famiglia dispone della propria mitologia.
La nostra, come quella di tutti quanti, è zeppa di episodi discutibili di questo genere.
Pericolosi criminali alti un’ottantina di centimetri da consegnare alle forze dell’ordine. Malcapitati vicini di casa che, sull’onda dell’entusiasmo per Willow, venivano reclutati tra le fila degli eroici nani ribelli. E c’è, in effetti, una poesia antichissima che ancora mi ricordo – a spizzichi e bocconi -, ma dubito di averla declamata per mari e per terra prima ancora di imparare a camminare. Quanto al PUTTANA, MADRE di certo non se lo meritava, ma la provenienza dell’epiteto risale di certo ai viaggi in macchina con lei. MADRE ha sempre guidato molto bene, ma non si è mai dimostrata tenera con gli altri automobilisti, che venivano apostrofati nei modi più incredibili e con grande veemenza. Io, evidentemente, ero una passeggera molto ricettiva.

L’episodio più celebre, però, resta anche il più incomprensibile. Perché in casa mia non bestemmiava nessuno. Persino mio nonno e mia nonna si limitavano a ingiuriarsi in piacentino, senza però avvalersi di nulla di particolarmente blasfemo. L’unico che cristonava parecchio era il Nando, il nostro vicino in campagna, un signore altissimo e un po’ sdentato che ha passato la vita in canottiera bianca e salopette. Ma il Nando non bestemmiava con rabbia o con dell’autentico rancore verso il divino nel suo complesso, era più un intercalare. Quasi un gioviale apprezzamento nei confronti del cosmo e della sua benevolenza. C’è il sole? Il Nando non poteva limitarsi a dire “Che bellezza, c’è il sole!”, la Madonna (fantasiosamente deturpata) andava in qualche modo invocata per sancire l’estrema piacevolezza della giornata.
Anche se nessuno è mai riuscito a capire il perché, dunque, e sempre durante le fatidiche feste natalizie del PUTTANA, MADRE aveva deciso di portarmi a vedere questa sublime mostra di presepi nella cripta di un’antica chiesa cittadina.
Ettari di presepi. Presepi giganti, super complicati, accessoriatissimi e dotati di pecore quasi vive. Acqua corrente, lucette, dromedari, pastori devotissimi, angeli, chili di vera sabbia, muschio VIVO.
Uno di questi presepi artistici ospitava anche una grotta infestata da un piccolo demonio cornuto che appariva a intermittenza fra le fiamme. Credo fossero dei listellini di carta sospinti da un mini-ventilatore e illuminati come il set degli Occhi del cuore. Le fiamme si agitavano in pianta stabile, ma il piccolo Satana sbucava solo di tanto in tanto, allietandomi oltre ogni immaginazione. MADRE, che di certo non m’aveva portata alla mostra dei presepi per adorare il Maligno, doveva comunque star lì piantata davanti alla grotta per permettermi di gioire ogni volta che il demonio decideva di onorarci con la sua presenza, intoppando il passaggio e causando ingorghi fra i devoti visitatori. Non si sa bene quando accadde, perché MADRE non si è mai diffusa troppo sull’argomento, ma ad un certo punto, animata da un’incontenibile felicità per l’ennesima apparizione del diavoletto fiammeggiante, si narra che io, bionda e boccoluta, col ditino puntato in direzione della spelonca infestata dalle forze del male, abbia strillato fortissimo: IL DIAVOLINO PORCO ***!

Stacco.
Montaggio ravvicinato delle espressioni inorridite degli astanti.
Un prete, sullo sfondo, estrae il crocifisso.
Una signora anziana impugna il rosario come farebbe Wonder Woman col suo lazo magico.
E MADRE, vedendosi ormai accerchiata, mi trasporta di corsa fuori dalla chiesa, tenendomi come un pallone da rugby. O come una bomba pronta ad esplodere.

Cosa non darei per ricordarmelo.
Il diavolino, in realtà, ce l’ho in mente. È quel che ho detto che mi manca. Le concitate conseguenze della mia esclamazione devono aver generato un tale vortice di confusione da cancellare nella mia memoria ogni traccia verbale dell’episodio. E MADRE, ancora oggi, racconta la faccenda del diavolino con un misto d’orrore e divertimento, come una specie di sopravvissuta a una catastrofe (potenzialmente ben peggiore di quella che poi si è effettivamente verificata).

Perché è vero: i bambini dicono delle enormità. Anche se in casa loro, magari, son tutti dei poeti, dei santi o dei navigatori. No, magari dei navigatori no, che poi si sconfina subito nel gergo portuale.
Comunque.
Il bambino è, per definizione, imprevedibile. Perché non controlla i nessi causa-effetto, perché non sa ancora cosa aspettarsi dal mondo e perché i costrutti della socialità sono una faccenda complessa da amministrare. A me Bruno stava anche simpatico, ma a tre anni trovavo perfettamente legittimo investigare sulla sua altezza. C’è gente che sui social continua a comportarsi come mi comportavo io a tre anni con Bruno, ma il tatto verso gli altri esseri umani non è soltanto una qualità innata, c’è pure una considerevole componente sociale. Ci mettiamo un po’ a capire come stare insieme alla gente o a individuare il confine tra comportamenti accettabili e inaccettabili e, mentre prendiamo le misure, diciamo cazzate di ogni genere. Soprattutto se siamo piccoli e chiacchieroni.
Ecco.

Dati i miei vivaci trascorsi verbali infantili – nell’epoca precedente al sopraggiungere di una razionalità lievemente più strutturata -, vivo nel terrore. Perché ora un figlio ce l’ho io e, di certo, non sono pronta a sentirlo bestemmiare in chiesa. Nemmeno nei film esoterico-apocalittici con le mamme che scoprono di aver messo al mondo l’Anticristo c’è il piccolo Anticristo che bestemmia in chiesa (fosse anche in aramaico). Cesare si è approcciato al linguaggio con serena pigrizia. È da quando ha compiuto i due anni e rotti che ha deciso di parlarci oltrepassando la soglia dei suoi bisogni più immediati. Capiva tutto, ma non era particolarmente interessato a dircelo o a cimentarsi più di tanto nelle acrobazie dell’arte oratoria.

Ora, in compenso, non tace mai. Si esprime con un miscuglio di storpiature, termini precisissimi e onomatopee che lo fanno somigliare a una specie di Dario Fo a un passo dal coma etilico – ma più mobile. Assorbe tutto. Ripete tutto. Rielabora implacabilmente e, quando meno te lo aspetti, ti risputa fuori una roba che aveva sentito sei mesi prima in piazza a Rivergaro. E gli esiti non sono sempre edificanti.

Quand’è che bisogna bandire del tutto il turpiloquio dalle conversazioni domestiche?
Quand’è che va calata la scure della censura?
Quand’è che devi astenerti dal gridare CAZZO! quando t’arriva una multa?

Accidenti!
Caspita!
Perbacco!
…quando in realtà vorresti salire su una rupe e urlare VAFFANCULO STRONZI CHE NON SIETE ALTRO FICCATEVELA IN GOLA QUESTA MULTA DI MERDA!
O qualcosa del genere.

La risposta da vincitore delle Olimpiadi della Genitorialità dovrebbe essere la seguente: gli ultimi improperi vanno pronunciati in sala parto. Nulla di disdicevole, dal momento della nascita in poi, dovrà anche solo sfiorare le tenere orecchie della prole.
Ora, noi non so se mai ci qualificheremo per le Olimpiadi della Genitorialità. Va già bene se arriviamo alle selezioni provinciali. Milano è grande, mica è uno scherzo. Nel nostro piccolo, però, stiamo facendo il possibile per trasformarci negli sceneggiatori di Topolino. Innumerevoli personaggi di Topolino esternano a più riprese il loro disappunto, la loro rabbia e il loro legittimo furore senza scivolare nella trivialità più assoluta. Anzi. Non c’è nulla di più bello di un personaggio di Topolino che prorompe in una serie di esclamazioni desuete per prendersela con qualcuno. O che sceglie di canalizzare un dolore fisico LANCINANTE in una cascata di CORBEZZOLI e CORPO DI MILLE POLENE. Sempre con classe e pacatezza. Con dell’immaginazione. Con un lessico sublime, per quanto prestato a una situazione che fa incazzare.
Nonostante le nostre ottime intenzioni, però, ci troviamo spesso di fronte ad eventi imprevedibili. Perché il nostro infante, come tutti gli infanti, crea mostri anche là dove non c’era altro che innocenza. Tra le loro numerose qualità, infatti, i bambini hanno anche il dono della decontestualizzazione. Una roba “normale” viene presa, assimilata, processata e scomposta, per poi scaturire nuovamente da tuo figlio in un momento a caso, ubbidendo a una struttura che vive di vita propria e che tu non puoi governare.
Io, che qualche mese fa mi divertivo con PANDA che al plurale fa PANDI – o con UOVA/UOVI -, ora ho il terrore di sbucciare banane in presenza del mio erede perché, un pomeriggio, ho inconsapevolmente commesso un errore.
Adesso la mamma ti sbuccia la banana, Cece. Ecco qua. Togliamo tutto e… accidenti, si è rotto il culetto qua in fondo.
E per i quindici minuti successivi, Cesare ha urlato a pieni polmoni CULO ROTTO! CULO ROTTO!

Non c’è scampo.
Non c’è speranza.
Chiaro, potevo usare il termine “sederino” o buttarmi sul puntiglioso con un “accidenti, si è rotta la parte terminale della banana” e/o “l’estremità inferiore della banana”. Ma mica sono una tata-robot. Sono una madre che sbuccia banane al meglio delle sue possibilità. E ogni tanto i culi si rompono.

A onor del vero, però, va specificato che Cesare dice anche cose bellissime.
Anzi, le cose bellissime sono quasi sempre la norma.
La prima volta che ha risposto a un “ti voglio bene” con ANCA IO MAMMA TANTO TANTO BENE credo di aver pianto per due ore e mezza, soffiandomi il naso a più riprese e spedendo messaggini di giubilo anche ai vicini di casa che non ho mai visto.
Tralasciando per un attimo il rischio di creare (anche accidentalmente) delle bombe a orologeria verbali, però, quello che forse mi sto chiedendo davvero è che cosa “arriva” di quello che dico.
Cosa assimilano questi infanti? Come elaborano e fanno proprie tutte le chiacchiere che ci scambiamo? Sarò capace di trasmettere a Cesare qualcosa di importante, come le coordinate basilari della felicità, della sicurezza nelle sue capacità, del rispetto per gli altri e dell’amore? Riusciremo a fare un po’ di luce sulla vastità delle faccende del mondo? Riusciremo, in sintesi, a trovare un modo per farci ascoltare, quando vorremo (e vogliamo) provare a spiegargli quello che conta di più?
Come al solito, non ne ho la più vaga idea. Ma persevero nel descrivergli anche le azioni più piccole. Parlo di mele, lamponi, talloni, apatosauri, castori, pettini, pigiami e bambù. Parlo di quello che si vede e di come mi sento, di come mi sembra che si senta lui, di come si coccolano i gatti e di che cosa è successo oggi, anche se non è successo niente di decisivo per le sorti del mondo. Che ne farà di tutte queste parole? Un gran pasticcio, probabilmente. Diventerà un piccolo calderone da cui usciranno periodicamente robe inaccettabili – CAZZO! -, robe tenere – APATOALLO MANGIA EBBA – e immagini di una certa specificità – PAVONE FA UOTA, NONNA! – mentre sul fondo rimarranno a bollire altre storie, i ricordi antichi, le scoperte nuove. E, magari, anche le cose “grandi”, i piccoli fari con cui speriamo di guidarlo. Nonostante i culi rotti.

Non so di preciso che cosa voglio dire, ma magari lo scopro se comincio a rifletterci.
Dunque, il mio bambino ha compiuto due anni da poche settimane – il che significa che anch’io, in qualità di mamma, ho compiuto due anni. Non sono tanti, ma neanche pochi. E ho il sospetto che, per capire fino in fondo che cosa vuol dire essere “una mamma”, occorrerà ancora parecchio tempo. Forse è un’identità che si costruisce pian piano, ogni volta che soffiamo un naso o prendiamo al volo un bicchiere di plastica con stampato sopra il pesce Dory – magari prima che si schianti sul pavimento. Ogni volta che sentiamo una parola nuova – che combacia, possibilmente, con quello che un ditino sta indicando – o che facciamo del nostro meglio per renderci conto che no, il sabato mattina non si dorme più fino a tardi.
Sono proprio quattro esempi in croce dei millemila esempi possibili. Perché gli esempi non ci mancano. E nemmeno le narrazioni.
In questi due anni, oltre ad interrogarmi sulla metamorfosi identitaria che mi ha investita, ho cominciato a fare molto più caso a come tendiamo a raccontare l’esperienza della maternità. Ma anche a come questi racconti vengono “accolti” e metabolizzati all’interno delle reti sociali (tridimensionali e non) che popoliamo.

Mi utilizzerò come esempio non perché io ho ragione e gli altri sono scemi, ma perché faccio parte della casistica e mi pare una metodologia agevole.

Se uno va a vedere il mio profilo Facebook – ma quello personale, proprio – sembro una che non solo non ha un marito, ma manco si è mai riprodotta. Anzi, sembro una in coma da cinque anni che ogni tanto condivide (per chissà quale miracolo medico) dei link a quello che scrive o che fa per lavoro. E gli altri miei social non sono molto diversi, come approccio – anche se li utilizzo in maniera decisamente molto più “umana” rispetto al profilo Facebook. Sulle Stories di Instagram parlo tanto, in generale. E parlo anche di Cesare. Ma non è una presenza preponderante. Così come non lo si incontra molto spesso nella gallery. Quando c’è, poi, non lo si vede in faccia, ma sempre impegnato a scatenare la sua magnifica assurdità su oggetti, giochi, balocchi e scenari naturali. Non sono neanche una che manda a raffica foto del figlio agli amici. O che, parlando, riconduce immancabilmente la conversazione alla prole. Sempre a livello di contenuti multimediali, invece, amministriamo i parenti stretti con un’applicazione di photo-sharing che ci consente di caricare su questo super cloud condiviso tutti i video e le foto del bambino – i nonni e gli zii (che vivono tutti a un’oretta da noi), quindi, finiscono per avere in mano una fotocopia delle gallerie di immagini che ci sono sui nostri DEVAIS… e il resto lo integriamo telefonandoci indefessamente durante la settimana. Visto che coi social ci lavoro, poi, mi sono anche accorta di non essermi riconvertita a “mamma blogger”. Ho scritto spesso di Cesare e di noi – e ho anche accettato di partecipare a qualche progetto “da mamma” – ma, se una persona volesse leggere dei suggerimenti per organizzare la festa di compleanno perfetta per degli umani che arrivano a stento al metro d’altezza, qui non troverebbe assolutamente nulla.

Ecco.


Io, ogni tanto, mi sento a disagio. Perché, da un lato, mi pare di non “esternare” a sufficienza l’amore e la felicità che provo – considerando soprattutto la frequenza standard con cui i bambini rientrano nelle narrazioni degli altri. Dall’altro lato, però, percepisco il fastidio – spesso manifesto e fiero – di chi si trova a intercettare questi racconti.
Per farla breve, il timore di rompere i coglioni al prossimo che provo quando salgo su un mezzo pubblico con un bambino piccolo che potrebbe mettersi a piangere all’improvviso e per un tempo imprecisato (nonostante i miei sforzi di tenerlo allegro, di intrattenerlo e di ammansirlo) è lo stesso timore che mi sfiora SEMPRE quando mi viene voglia di pubblicare una foto di mio figlio, di inserirlo in una conversazione con il mio prossimo o di scrivere qualcosa che lo riguarda.

L’indole è indole, penso. E sono anche sicura che sia più un problema mio che una vasta piaga sociale. Cioè, anche in un contesto tra i più bambino-friendly del pianeta forse non passerei le giornate a creare album su Facebook dedicati a Cesare o a scrivere pensierini sulle sue gesta nelle caption di Instagram. E non risponderei alla domanda “Che ore sono?” con “Le cinque… proprio il momento in cui Cesare ieri notte ha tossito per tre volte svegliandoci di soprassalto. Ci siamo alzati tutti, siamo andati a vedere se si era scoperto e gli abbiamo accarezzato la testolina”.
Io, semplicemente, sono una che non lo farebbe “così tanto”… ma forse un po’ di più sì.

È anche vero che ci sono narrazioni con cui fatico a empatizzare, nonostante la condizione comune della maternità sia un fattore di avvicinamento. Per esempio, non ho voglia di leggere nessun libro sulle avventure di mamme pasticcione che nella loro consolante imperfezione cronica dovrebbero farci sentire meno inadeguate e più sprint. Così come fatico a identificarmi nelle foto con le mamme ricoperte di veli d’organza che stringono neonati al cuore, accompagnati da un immancabile “6 l’amore della nostra vita, kucciolo”. O con la maggior parte delle caption “da blogger” che vedo su Instagram.

Se non apprezzo tutto questo sono dunque uguale a quelli che dichiarano apertamente di odiare i bambini, anche se ne ho uno? Non lo so, ma non credo.
Perché sono sinceramente felice di imbattermi negli aneddoti di tante persone che seguo volentieri e che condividono anche molto spesso le gesta dei loro infanti, foto comprese. Di sicuro, crescendo, ho anche imparato ad analizzare meglio le classiche situazioni in cui ti viene da stramaledire i bambini perché “disturbano” o non si adattano a uno specifico contesto come piccoli Lord. Chiaro, non sono Santa Rita… se un bambino mi prende a pedate per quindici minuti su un autobus senza che nessuno gli impedisca di malmenarmi tendo a indispettirmi, ma spesso mi accorgo che le madri e i racconti delle madri vengono quasi sempre recepiti con un velo di compatimento. Con un “rieccola qua, a menarcela coi figli”. E non mi soffermo sulla deriva di scherno che accompagna le famigerate “pancine” (nelle loro accezioni più o meno immaginarie o strumentali), perché lì si spalanca un abisso che ha come risultato finale “mamma = povera imbecille dell’alto medioevo”.


Nessuna mamma, forse, ha idea di come regolarsi quando comunica la sua esperienza, nel nostro specifico presente. In fin dei conti, non abbiamo punti di riferimento pregressi. Le nostre mamme non avevano questo problema, se così poi possiamo chiamarlo. Al massimo dovevano preoccuparsi della vicina di casa impicciona o dei parenti che dovevano per forza ficcare il naso nelle loro scelte educative. Non si mettevano a fare, a livello analogico, quello che facciamo noi con le storie e le immagini dei nostri bambini sui social (se abbiamo dei profili pubblici, ovviamente). Cioè, se ci pensiamo, è come se ci mettessimo in mezzo alla strada a distribuire fotografie della nostra prole (con tanto di didascalia) ai passanti. È un paragone scemo, perché i comportamenti si evolvono con i contesti e la normalità di quello che succede è misurata sulle abitudini che sviluppiamo (e che gravitano su un concetto di “accettabilità” che muta con le norme condivise in un certo periodo). Però ci penso, ogni tanto, a mia madre che si mette nel parcheggio della Società Canottieri Vittorino da Feltre a fare volantinaggio con le mie foto di Natale.
Noi, di contro, possiamo scegliere come approcciare la questione (nessuno ci obbliga a “comunicare” i nostri infanti), ma molto spesso continuiamo a non poterne controllare a pieno le conseguenze.
Io, per dire, quando voglio farmi del male vado a leggere cosa scrive la gente sotto ai post della Ferragni col figlio. Se voglio provare del furore vero apro i commenti sotto agli status di qualche amica che ha incautamente dichiarato di dover portare un neonato a fare l’esavalente o, peggio, che si è proclamata felice per il passaggio al latte artificiale.

Ma lasciando perdere i temi ritenuti scottanti o i personaggi famosi – che tirano sempre fuori il meglio dai frequentatori della rete, proprio -, nemmeno coi racconti più innocui e tranquilli si va via lisci. Perché in mezzo ai tanti “ma che bel bimbo!” e “ma che tenerezza!” c’è sempre, se ci fate caso, almeno una voce inopportuna che sceglie di staccarsi da coro per ricordarci che le vicine di casa rompicoglioni continuano a esistere. O per domandare con finto interessamento “ma scusa perché non fai così e così?”. O per farti notare una mancanza, un deficit, un “potevi farlo meglio”. O per esplicitare l’irritazione che i bambini suscitano immancabilmente quando vengono a contatto con situazioni non pienamente strutturate per loro, ma che comunque fanno parte della realtà e del vivere comune.

Racconti una marachella?
Non sei una persona responsabile, stai crescendo un criminale, siete un pericolo per l’ordine pubblico.
Racconti un momento di fatica?
Eh, capirai. Io ho scalato il K2 con due gemelli nello zaino da trekking. E avevo anche il cagotto.
Racconti un traguardo?
Awwww, che bello. Due righe sotto: ma scusa, ha un anno e mezzo e non camminava ancora?


Quando voglio raccontare qualcosa di felice mi chiedo sempre “ma non sarà TROPPO coccoloso?”. Perché è un attimo. Diventi LA MAMMA RIMBECILLITA.
È come se non ci fosse una via di mezzo ancora codificata.
Ci sono dei costrutti e dei nessi causa-effetto prestabiliti. Dei “modelli” di mamma che in un dato periodo sono da ritenersi più accettabili e digeribili – o meno fastidiosi – di altri.

Se ti lamenti troppo era meglio se i figli non li facevi, se non ti lamenti neanche un po’ stai sicuramente fingendo che la tua vita sia un idillio, se parli troppo di bambini sei pesante, se ne parli troppo poco vuol dire di certo che nascondi qualcosa o che non li ami abbastanza. Se dici che sei contenta di come te la stai cavando vuol dire che te la meni GUARDA CHE NOI QUA NON DORMIAMO DA SEI ANNI, se dici che sei scoraggiata stai sputando sul dono più grande che il cielo poteva farti, se lavori come hai sempre lavorato sei una che non sa dare la giusta priorità alle cose, se vai in vacanza lasciando il bambino ai nonni sei un’egoista, se vai in vacanza e ti porti il bambino dovresti prendere in considerazione che anche gli altri sono in vacanza e forse è meglio se stavi a casa tua con quel neonato che strilla, se non vai in vacanza stai chiaramente privando una giovane mente delle esperienze necessarie al suo arricchimento, se racconti tre delle ottantasei cose buffe che ha fatto tuo figlio durante la giornata sei una che se le inventa perché è in cerca di attenzione.
Tutto questo accade contemporaneamente.
E accade, soprattutto, quando sei sincera. Quando non stai cercando di dare spettacolo o di somigliare a un canovaccio noto.
In generale, mi pare che le mamme si dipingano con molto più cinismo e distacco di quello che provano veramente. O che, all’estremo opposto, entrino in modalità “mamma onnipotente” – quella sempre bella, attiva, che lavora, che va a pilates, che s’abbona a teatro, che ha tempo per la famiglia ma anche per farsi i fattacci suoi e che ha sfornato solo bambini prodigio.
Non escludo che nelle due categorie ci siano davvero mamme sinceramente ciniche o mamme sinceramente onnipotenti, ma entrambi gli schieramenti – nelle loro varie sfumature di autentica adesione al principio cardine – hanno il sacro terrore di poter in qualche modo ricascare nello standard della mamma lobotomizzata dalla prole, occupando un punto qualsiasi all’interno dello spettro che va da “sono due anni che proviamo a invitarla fuori ma sai… col bambino… dice sempre che non ce la fa” e finisce con “presa per il culo conclamata su tutte le piattaforme perché ha cucinato la placenta”.

Sembra che non esista nulla di più disdicevole di una donna precedentemente in grado di funzionare all’interno di un contesto socio-lavorativo che, dopo aver avuto un figlio, dà segni di essere in qualche modo stata modificata dall’esperienza. È come se, inconsciamente, cercassimo costantemente di dire “ah, sì, sono mamma. Ma sono ancora una persona normale! Non lasciatemi indietro!”.


Sono andata a rileggermi alcune cose che ho scritto in questi due anni sul tema della maternità. E lo ripeto anch’io, immancabilmente: un mio grande obiettivo, tra i tanti, è quello di rimanere NORMALE.
Che volevo dire? Forse che è importante non dimenticare come eravamo prima. Che possiamo far lievitare la nostra identità per creare dello spazio nuovo che la maternità possa occupare senza sovrascrivere tutto quello che c’era già. O che, per qualsiasi cosa, vogliamo poter continuare a contare sulla rete di fiducia e di rapporti sociali che coltivavamo da nullipare.
Sono ambizioni legittime, mi pare.
Ma in quel SONO ANCORA NORMALE credo si nasconda anche un “non preoccupatevi, non vi ammorberò notte e giorno parlando di cacca. Lo so che è una rottura intollerabile”. Perché io, quello slancio empatico lo faccio. “Sarò menosa?”. “Come posso rendere sereno questo viaggio in treno?”. Il fatto è che, spesso, non percepisco uno slancio simmetrico che proviene dalla direzione opposta.

Per me, che ho passato a casa con Cesare un anno intero, in pratica, conservare la presa sulla normalità rappresentava un obiettivo importante. Perché, di punto in bianco, ti ritrovi a gestire tutto quello che sei in una maniera completamente diversa. Certo, hai nove mesi di gravidanza a disposizione per immaginare il cambiamento di paradigma che ti aspetta… ma poi, quando ogni mattina la porta si chiude e tuo marito va in ufficio, le ore che ti separano da un nuovo contatto con un adulto che ti racconta cos’ha fatto quel giorno sono parecchie. Si diventerebbe un po’ autoreferenziali anche ritrovandosi a gestire una responsabilità minore o un senso di meraviglia molto più limitato. E nemmeno una persona che tende a over-analizzare tutto – salve, eccomi qua! – riesce a prevedere davvero come la prenderà, come reagirà e quale sarà la portata dei suoi sentimenti. Perché sì, gli esseri umani si riproducono dall’alba dei tempi e la faccenda non dovrebbe causare un particolare scalpore, ma per il singolo (e specialmente per la singola nuova mamma) l’evento rimane rivoluzionario. Ma non perché, magari, l’hai presa un po’ troppo sportivamente e sei una che non si rende conto della portata del compito – massì, facciamo un figlio, in qualche modo ce la caveremo -, ma perché un bambino che nasce È un evento rivoluzionario.
C’è chi scopre una vocazione all’accudimento che non pensava di avere.
C’è chi abbandona la modalità Erode e si candida a rappresentante di classe al nido.
C’è chi diventa ferocemente intollerante verso i ventenni spensierati.
C’è chi si mette a chiacchierare in mezzo alla strada con chiunque stia spingendo un altro passeggino.
C’è chi si lamenta delle difficoltà CONTINUAMENTE, ma è felice lo stesso.
C’è chi si lamenta e lo sta facendo per manifestare un grande disagio sommerso.
C’è chi scopre di avere a fianco un padre inadeguato o un uomo che, di contro, “migliora”.
C’è chi riconverte ogni sua narrazione personale alla narrazione della maternità.
Che ne sappiamo. Succede di tutto.

Ci sono tanti racconti lontani da me. Così come ci sono tante esperienze che sono diventate, nei mesi, fonte di incoraggiamento, di utilità pratica e di supporto emotivo. La “normalità” da conservare, per me, è sempre stata un po’ un’arma di difesa. Perché, specialmente all’inizio, ti rendi conto che il resto del mondo procede mentre tu ti trovi in una bolla di tempo sospeso dove esisti – a lungo – quasi esclusivamente in funzione del tuo ruolo di mamma. Ci sono donne più pronte a votarsi alla causa, donne che non sapevano di essere così “adatte” a un compito del genere e donne che si riconfigurano con più difficoltà. E ogni incontro che facciamo, mentre cerchiamo di capire come cavarcela, è un incontro che ci segna un po’. Nel calderone vanno a finire le amiche che insistono per sapere TUTTO quello che sta succedendo, ma anche i colleghi che alzano gli occhi al cielo quando ti suona il telefono e dall’asilo ti dicono che il bambino ha la febbre e devi andarlo a prendere. Ci sono i ragazzi che ti aiutano a portare il passeggino su per una scalinata ma ci sono anche quelli col cane al guinzaglio che, su un marciapiede stretto, si piantano in mezzo e ti guardano infastiditi, senza capire che dovrebbero scendere loro, non tu che hai una carrozzina ingombrante.


Quello che volevo dire, forse, è che mi piacerebbe percepire un po’ più di cameratismo tra esseri umani. Detestare i bambini è un diritto sacrosanto, ci mancherebbe. Non capisco tanto, però, come proclamare il proprio odio per un’intera categoria umana – anzi, per due categorie: i figli e i genitori – possa tramutarsi in un tratto desiderabile. Ciao, sto dichiarando con fierezza di non essere in grado di empatizzare con questa fetta di mondo. Wow… complimenti.
Mi rendo conto che, spesso, la paura che abbiamo di risultare fastidiose e inopportune
– sia mentre ci raccontiamo che mentre “viviamo”, a livello pratico – frena un po’ la possibilità di condividere il bello. Quello su cui inevitabilmente è più difficile allinearsi e concordare è tutta la parte “felice”. Siamo più propense a far venire fuori le menate, perché le menate sono invariabilmente condivisibili. A chi piace svegliarsi quattro volte a notte? A chi piace la scarlattina? A chi piace l’assoluta irrazionalità di un bambino di due anni che strilla come un condor perché non può portare in giro un cane di plastica di due chili e mezzo? A nessuno, porca miseria. Forse, allora, è anche per quello che la felicità viene sempre descritta in maniera esagerata e stereotipata. La madre “soddisfatta” è un susseguirsi di frasi da Baci Perugina, nomignoli ultra-stucchevoli, luoghi comuni di ogni epoca ed estrazione, feste di compleanno faraoniche. La felicità dev’essere ENORME, dev’essere DI PIÙ per riuscire a farsi sentire o a suscitare una reazione.

Io, mio malgrado, appartengo più al partito del cinismo lamentoso. È questione di attitudini. Quello che mi piacerebbe, però, è poter fare a meno sia di una che dell’altra narrazione. Non so che cosa contribuisca, a livello tecnico e formale, a trasmettere quella sensazione posticcia che ti assale quando leggi o ascolti una mamma super cinica o una mamma super orsachiottosa. Non lo capisco, ma lo percepisco. E non ne abbiamo bisogno. Così come non abbiamo bisogno di sviluppare strategie per reagire al compatimento o all’ostilità altrui. I bambini devono piacere a tutti? No. Ma magari noialtre potremmo fare a meno di provare a piacere a chi, esercitando un suo diritto – per quanto discutibile -, la pensa così. E potremmo ricominciare a raccontarci – se ne sentiamo il bisogno -, come ci pare e quanto ci pare. A usare parole vere, che molto più del teatrino che allestiamo sanno trasmettere la bellezza in mezzo alla discreta fatica che ogni tanto facciamo.
Di che parla la gente, alla fin fine?
La gente parla, da sempre, di quello che ama.
Così com’è. 

 

Tra le esternalità positive dell’aver figliato, almeno per me, c’è la possibilità di frequentare impunemente negozi di giocattoli di ogni genere. Comprando possibilmente delle cose, pure – al grido di SONO PER IL BAMBINO CHE COSA AVETE CAPITO.

Quando Nano Bleu mi ha scritto per invitarmi a fare un giro da loro allo scopo di procacciarmi un dono per Cesare e un nuovo pupazzo per il mio pregevole fotoromanzo digitale – per chi ancora non conoscesse PuPAZZI, la serie che ha cambiato per sempre il mondo dell’intrattenimento, nei contenuti in evidenza su Instagram c’è un pratico circoletto con le ultime puntate -, INSOMMA, quando Nano Bleu mi ha proposto di andarli a trovare sono stata investita da una felicità di rara potenza. Perché, a parte la sensatezza generale dell’operazione, ho ricordi antichissimi di quel negozio. Bimba bionda e occhialuta di Piacenza si reca periodicamente in gita a Milano con i pazienti genitori. E, dopo la tappa obbligatoria da Fiorucci, attraversavamo Corso Vittorio Emanuele per fare un giro da Nano Bleu, noto anche in provincia per la sua strabiliante selezione di peluche, fissazione che mi caratterizza dalla più tenera età.
Oggi, che di anni ne ho ben 33, a Milano ci vivo in pianta stabile e ne apprezzo ogni giorno di più la voglia di crescere, di inventare qualcosa di nuovo e di ospitare quello che di bello capita nel resto del mondo. Ma anche la volontà di continuare ad essere accogliente per le realtà indipendenti, che con la loro presenza hanno spesso fatto la storia di una via, di una piazza o di un pezzo di città. Ecco, Nano Bleu è un po’ un posto così. Una specie di istituzione, una vera attrazione (che potrei comodamente definire “turistica”, nella miglior accezione del termine) e, per chi è stato fortunato quanto me, una macchina del tempo tra le meglio riuscite.

Il negozio è stato fondato nel 1949, all’indomani della ricostruzione di piazza San Carlo al Corso, completamente rasa al suolo durante i bombardamenti della seconda Guerra Mondiale. Nano Bleu non ha mai cambiato indirizzo, né “categoria merceologica”. Vende giocattoli da sempre e, per la perseveranza ultracinquantenaria, si è guadagnato il titolo di “Negozio storico” – l’unico di Corso Vittorio Emanuele. Bancone e vetrine sono ancora quelle d’epoca, mentre gli interni sono cresciuti, con la recente aggiunta di un terzo piano piuttosto mastodontico. Prima di parlare della giraffa di tre metri e venti che campeggia nel bel mezzo dell’anfiteatro dei peluche, vi informerò anche sugli indefessi orari d’apertura – sempre, in sintesi – e sulla possibilità di farsi consegnare gli acquisti a domicilio per chi abita a Milano.

Insomma, c’è dell’impegno. E la giraffa ha anche un amico orso del peso di (credo) seicento chili che siede serafico in vetrina a beneficio dei passanti. Ci sono tanti giochi che appaiono con marziale regolarità nelle pubblicità in televisione, ma anche giocattoli (e sono la maggioranza) selezionati con evidente cura e attenzione. Insomma, chicche avvincenti e Superpigiamini. Il mix funziona, soprattutto per l’atmosfera e per la concentrazione altissima di potenziali meraviglie. E un negozio così, che tiene aperto in Corso Vittorio Emanuele, penso sia una specie di tesoro da preservare.
Grazie per l’ospitalità, Nano Bleu. Siete meglio di come vi ricordavo.
:3

***

Per coordinate, orari e informazioni puntualissime, vi consiglio l’agile visita al sito del negozio.

 

Allora, avere un infante comporta svariate e articolatissime responsabilità. Si va da quelle della sussistenza più basilare – la creatura deve mangiare, dormire, lavarsi e indossare dei vestiti puliti – a quelle relative all’apprendimento, al gioco e, più in generale, alla felicità e alla gioia. In entrambi i casi, bisogna industriarsi. Anche con una certa creatività. Perché non è detto che somministrare al proprio luminoso erede un piatto di penne al pomodoro richieda meno estro rispetto all’organizzazione di un teatrino delle marionette, certe volte. Cesare, per mia fortuna, mangia come un facocero senza farsi pregare particolarmente e, grazie al cielo, ha anche deciso di non aver più bisogno di essere cullato per un’ora e mezza in attesa del sopraggiungere del sonno, migliorando di molto la tenuta strutturale delle nostre schiene e dandoci finalmente la possibilità di sfoderare tutti i libri di favole che possediamo. In altri frangenti, però, il nostro spirito di inventiva resta indispensabile. Perché i piccoli umani vanno intrattenuti, e non possiamo di sicuro aspettarci che faccia tutto la scimmia George. La scimmia George va bene quando sei da sola in casa e devi preparare la cena, ma una volta riempito lo stomachino son fattacci tuoi. BISOGNA GIOCARE. Bisogna assecondare i movimenti delle macchinine. Bisogna lanciare palloni di ogni forma e dimensione. C’è il nascondino. Ci sono le costruzioni. Ci sono le robe sonore da schiacciare. Ci sono i balletti e le canzoncine. I carrettini. I puzzle con le bestie. I puzzle fatti a cubo. Il Didò. I pennarelli per scarabocchiare. Le impenetrabili barriere di cuscini. I libri con le finestrelle da finestrellare. I libri che ti spiegano il mondo e come si chiamano le cose. I pupazzi. Ci sei pure tu, tutta intera, che devi trasformarti a comando in un cavallo e passeggiare per casa con tredici chili di bambino EUFORICO sulla groppa.
E fin qui, va bene.
La faccenda molto CHALLENGING, però, è rinfrescare il repertorio ludico. Perché, certo, ci sono dei giochi preferiti che faremo credo PER SEMPRE – temo -, ma mica possiamo adagiarci sugli allori della routine. Gli infanti crescono e le curiosità si evolvono. E tu devi adattarti, estraendo dal cilindro nuove occupazioni e rivedendo il palinsesto dell’intrattenimento per evitare che le minuscole sinapsi del bambino si cementino. Perché bisogna provare, almeno vagamente, a star dietro a tutte le cose nuove che conosce e che sa fare.

Visto però che noialtri abbiamo un po’ dimenticato quella storia della meraviglia che solo la mente di un giovane virgulto sa cogliere anche nel più banale degli anfratti della creazione, ogni suggerimento è utile. Ogni supporto, invenzione o stampella creativa è da considerarsi un’ancora di salvezza nel burrascoso mare del COSA DIAVOLO POSSO ESCOGITARE ANCORA. E il cavallo l’abbiamo fatto. E nasconderci ci siamo nascosti. E i travasi ok. E il libro con gli animali bene. E quello con le filastrocche pure. CHE COSA POSSO FARE PER TE PICCOLO KRAKEN DIMMELO MALEDIZIONE.
Ebbene, ci sono mezzi a nostra disposizione.
Qualche tempo fa, è iniziata la mia avventura con Canon alla scoperta di un progetto da mamma, il Creative Park. Visto che con Canon siamo già amici da tempo e che, per i fatti miei, uso da mesi e con immensa felicità la loro app per lo smistamento (all’interno della famiglia) delle foto e dei video di Cesare – se volete documentarvi, si chiama Lifecake… liberatevi dalla schiavitù dell’invio multiplo di prodotti multimediali a nonni, zii e parenti lontani -, ho accettato di buon grado. Sono stata dotata di una stampante Pixma e sono partita all’avventura.

Ma che si può fare, in sintesi?
Creative Park è una piattaforma in cui Canon ha raccolto – con l’ausilio di creativi, designer e artisti dell’origami di caratura galattica – una serie di progetti ludico-ornamentali da fare con le proprie creature, usando semplicemente la carta, le immancabili forbici con la punta arrotondata e un po’ di colla. Tutti i progetti sono gratuiti, scaricabili e stampabili (istruzioni comprese) e hanno il nobile scopo di intrattenere i nostri pargoli con attività di vario tipo. Ci sono i disegni da colorare, le bestie da costruire, le grafiche da appiccicare al muro per rendere più gioiose le camerette, i modellini da far volare e le giostrine da far penzolare sui lettini. È una specie di enciclopedia tematica di strumenti per generare divertimento “manuale” e di risorse fai-da-te per riempirsi i muri di casa di teste di tirannosauro. O di comodi metri per misurare quanto crescono i nostri benedetti figli. Si può spulciare tutto il “cataologo” e si possono anche consultare le raccolte tematiche – a questo giro, per esempio, c’erano i gruppi di lavoretti coi dinosauri e pure quelli sullo spazio, coi razzetti e i pianeti. LA VITA.

Cosa abbiamo scelto noi? Cesare raggiungerà il ragguardevole traguardo dei due anni a settembre, quindi non posso aspettarmi che faccia “attivamente” gli origami. Può, però, beneficiare del risultato. Quindi mi sono stampata diversi pennuti da fargli saltellare davanti – visto che tra le nostre onomatopee preferite c’è indiscutibilmente CIP CIP – e, nella speranza di espandere le sue capacità verbali e/o definitorie, ci siamo anche lanciati con baldanza sui blocchetti di carte con gli oggetti e la fauna. Non paga, ci siamo anche dotati di allegre bandierine dal grande potenziale decorativo e di una foca che sta lì ad aspettare che qualcuno le tiri dei cerchi colorati sul naso.

Insomma, c’è varietà. E ci sono le basi per sentirsi più estrose di Dodò dell’Albero Azzurro. Il Creative Park è in grado di sopperire a tutte le esigenze ludico-educative dei nostri figli ed è pure garanzia di un’ammissione alla Normale di Pisa con quindici anni buoni di anticipo? No, ma mi pare una risorsa utile per genitori che, molto umanamente, possono aver bisogno di una spintarella sul lato creativo e che vogliono aggiungere qualche freccia al loro arco. Rinfrescare il repertorio, gente. Rinfrescare il repertorio!
Con la sentita speranza di aver segnalato qualcosa di utile a chi ormai ha giocato pure con le piastrelle del pavimento, torno a incollare le ali a un parrocchetto canterino e a pianificare un’intera Arca di Noè di bestiole pieghevoli e variamente rimbalzanti.
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Dunque, per parlare di Cesare ci vorrebbe un trattato a parte. Farlo qua, in tre parole, è un’operazione complessa, un po’ come se volessimo condensare l’energia di una supernova in una bottiglietta d’acqua da mezzo litro. Qualche giorno fa siamo stati alla festicciola di fine anno del nido. Io ero la mamma designata a portare i piatti e i bicchieri, visto che non so fare niente e che le incombenze più nobili – tipo arrivare con vassoi di focaccine – erano già state prenotate. Inetta e pure lenta, insomma. Comunque. Dopo merende, scivoli e bambini che si aggeggiano a vicenda, ci hanno dato una sporta di carta piena di ogni genere di prova tangibile che potesse in qualche modo farci immaginare che cos’ha fatto nostro figlio al nido per tutto questo tempo. Ha cominciato a settembre, a un anno. Aveva all’incirca un quarto dei capelli che ha adesso e, di sicuro, anche una consapevolezza molto minore della realtà. Nella sporta ci sono diverse macchie di Rorschach – pittura con le dita -, una risma di capolavori di puro astrattismo – disegno coi pennarelli -, una scultura d’arte povera – pasta di sale – e un quaderno pieno di foto che lo ritraggono mentre travasa farine, si rotola sui tappetoni, molesta pupazzi, balla, pranza a un piccolo tavolino, impila cubi e caccia le mani in montagne di lenticchie, manco fosse Amélie Poulain. Cesare, secondo me, è cognitivamente molto superiore ad Amélie Poulain. E pure più romantico.
Ma non è di quell’incapace di Amélie che voglio occuparmi.

La sporta del primo anno di nido, ho scoperto, è uno di quei costrutti che hanno il potere di farti sentire al contempo molto felice e anche molto triste.
Perché, da una parte, sei contenta di ricevere una testimonianza tangibile di tutte le cose nuove che tuo figlio ha imparato a fare o che, più o meno incisivamente, sono entrate a far parte del suo orizzonte in continua espansione. Dall’altra, però, guardi tutti quei fogli e quelle foto e calcoli il tempo che non ci hai passato insieme. Il che, inevitabilmente, ti fa sentire ancora peggio, perché ti rendi conto che tu, da sola, l’energia di fargli fare tutto quello che ha fatto all’asilo non ce l’avresti mai avuta.

Ho atteso l’inizio del nido con una certa trepidazione, devo ammetterlo. Non ci siamo arrivati riposatissimi, all’inizio del nido. Anzi, rasentavamo la dissoluzione cellulare. Perché, per quanto l’amore più puro possa permetterti di spostare sempre un po’ più in là l’asticella di quello che puoi spremere dal tuo cervello e dalle tue membra, prima o poi – almeno per me – ti ritrovi di fronte una specie di gigantesco baratro di stanchezza psicomotoria che ti mangia quasi via anche i sentimenti. Insomma, dopo un anno passato in simbiosi, sapere di poter recuperare le mie facoltà di essere umano “singolo” è stato salvifico. Sapere di poter lavorare in un orario normale, senza dovermi precipitare al computer a fare il più possibile nelle due ore (se andava bene) di pisolino pomeridiano è stato confortante. L’inserimento all’asilo, comunque, credo lo facciano quasi più per le mamme che per i bambini. Perché quando vedi che tuo figlio si mette serenamente a razzolare in mezzo a 7 o 8 altri piccoli culoni (gli infanti sono irrimediabilmente culoni: è il pannolino, c’è poco da fare) e che, in un modo o nell’altro, la sua attenzione viene rapita da qualcosa che non sei tu, ecco, quando succede è un po’ scioccante. Perché un po’ ti meravigli della tua apparente irrilevanza (che storia è mai questa!), ma un po’ ti rassereni anche (bene, è in grado di stare in questo ambiente con altri esseri umani più o meno piccoli senza abbandonarsi a caotiche manifestazioni di disappunto!). E, in sintesi, finisci per capire che nessuno ti sta togliendo niente. E che sentirti felice per lui e per te, quando lo lasci all’asilo nelle capaci mani di una schiera di splendide professioniste, è normale e quasi doveroso. Perché non credo sia sensato – o anche solo possibile – provare invidia o risentimento nei confronti del mondo intero. Perché è esattamente il resto del mondo che tuo figlio sta incontrando, man mano che diventa grande e si stacca pian piano da te. Prima riempivo un universo. E dovevo anche essere un universo. Ora sono una favolosa galassia a forma di mamma, ma attorno a me sono apparsi innumerevoli altri corpi celesti in grado di orientare la navigazione del minuscolo pirata-Cesare.
E Cesare naviga parecchio.
È fatto così.

Ci ha da sempre fatto la grazia di dormire la notte – e con SEMPRE non intendo “oh, siamo appena tornati dall’ospedale e già mi ronfa otto ore!”, figuriamoci. Ha dormito normalmente dopo qualche mese, quando il suo stomaco ha cominciato a dargli/darci tregua – ma, quando è sveglio, è SVEGLIO. Quando vado a prenderlo al nido e lo trovo seduto che ascolta una favola provo sempre un certo stupore. Perché, quando ci siamo noi, è una specie di bomba all’idrogeno. È il genere di bambino che ti fa stancare solo guardandolo. Per osmosi, proprio. E, nonostante riesca a concentrarsi moltissimo quando c’è qualcosa che lo avvince – impastare cose colorate, fare torri precisissime di cubetti, amministrare puzzle con gli le sagomine degli animali e compagnia danzante – prova visibilmente la necessità di assorbire dall’ambiente tutto l’assorbibile. È una roba normalissima e più che legittima, ovvio, ma il risultato è che Cesare ha quasi sviluppato la facoltà di apparire in diversi luoghi contemporaneamente. O che, se io sono sul tappeto con lui e Amore del Cuore è in cucina a preparare la cena, Cesare scava un solco fra i due ambienti precipitandosi a trentordici all’ora prima da me e poi dal papà, brandendo cose importantissime che deve assolutamente farci vedere. Ha scoperto la palla e le macchinine semoventi. Ha capito che ci sono dei libri che gli piacciono di più, quindi li piglia dalla sua libreria e te li porta, così può farseli spiegare. Non parla ancora tantissimo, ma è comunque molto efficace nel comunicarci le sue esigenze. E siamo parzialmente usciti dalla fase manrovesci e sberloni (da leggersi “Cesare ci mena forte”) in favore di un più civilizzato scambio di carezze e bacini umidissimi, ma rigorosamente con lo schiocco. Cesare che mi bacia e che mi abbraccia “con intenzione” è ufficialmente una delle robe più belle mai accadute. Soprattutto se prende la rincorsa e arriva tutto trafelato. DEVO ASSOLUTAMENTE ABBRACCIARTI ORA. DEVO RICOPRIRTI DI SALIVA IN QUESTO PRECISO ISTANTE, NON POSSO ATTENDERE UN MOMENTO DI PIÙ. E, quando succede, mi rendo conto che quella sensazione di non essere più così indispensabile è autentica, ma a intermittenza. Perché lo sarò sempre, anche se pian piano stiamo imparando – tutti e due – a stare insieme come due persone “vere”, che inevitabilmente hanno dei confini. Lui cresce più in fretta di me, ma anch’io aggiungo ogni volta dei pezzetti nuovi a quello che sono, perché ogni volta è necessario inventare una soluzione, una tattica di sopravvivenza, un modo nuovo di interpretare uno stato d’animo. E sono molto più contenta adesso, credo. Anzi, forse è meglio dire che ho ricordi meravigliosi, ma non rimpiango ferocemente i primi tempi, la fase “sono un adorabile fagotto paffuto che mangia, caga, dorme a intervalli di tre ore. E più o meno basta”.
Preferisco rincorrerlo.
Preferisco sentirmi rispondere con un sonoro grugnito quando gli dico “Cesare, tieni bene il cucchiaio e non fare il maialino”.
Preferisco applaudirlo quando arriva in fondo a uno scivolo e dirgli che è bravo quando sembra aver vagamente compreso le modalità di utilizzo di uno spazzolino da denti.
Ci sono delle volte in cui vorrei anche poterlo sedare con una cerbottana? MA CERTO. Cenare alle undici di sera – perché per meritarci quelle otto ore filate di sonno bisogna passarne una con Cesare in braccio a cantargli interi repertori musicali – è un toccasana? Proprio no. Non giova allo stomaco e manco alle vertebre lombari. Uscire a cena e doversi preoccupare costantemente di prendere al volo delle fette di pizza prima che tocchino terra è l’immagine del relax? Giammai!
Ma pian piano si migliora.

Piano piano si capisce che c’è quasi sempre una trovata che può salvarti. Piano piano ti accorgi che ci sono tante cose difficili, ma che tuo figlio è un tipo piacevole, non solo un ordigno da disinnescare. Chiaro, quando lo faccio scendere dal passeggino mi sembra ancora di liberare il kraken in un placido oceano la cui serenità verrà immediatamente compromessa, ma è anche innegabile che un kraken che imperversa nel vortice acquatico creato dai suoi possenti tentacoloni rappresenti uno spettacolo imperdibile. Perché sì, Cesare è uno spettacolo. E spero tanto, con il trascorrere del tempo, di essere sempre in grado di eguagliare la gioia quasi incontenibile che sfodera quando vede un tram che sferraglia – TUTUUU TUTUUU (perché ogni veicolo è un treno) -, un cane a passeggio – BAU BAU BAU BAU BAU -, una coppietta che limona su una panchina – CIAO! CIAOCIAO! CIAO! -, una ciotola di patatine – DÀ! DÀ! (che credo sia una contrazione di DAMMELE SUBITO, STOLTA! -, il papà che torna dall’ufficio – PA PÀ (scandito con grande meticolosità) – o quando vede me, che entro pian piano nella sua classe – piena di seggiolette minuscole, tappetoni, pupazzi e costruzioni – per andarlo a prendere. E lui sembra così piccolo, in mezzo a tutta quella roba. E poi si gira, si illumina tutto e si precipita da me con le braccine spalancate. Perché partire tutti i giorni in esplorazione è un’avventura indubbiamente bellissima, ma anch’io non sono poi malaccio. E anch’io, anche se non posso più tenerlo con me tutto il santo giorno, rimango una stella un po’ più brillante delle altre, nonostante la vastità del cosmo e il continuo passaggio di comete meravigliose. Quello che spero è che capisca, in qualche modo, quanto ci stiamo impegnando. Quanto vogliamo che sia felice. E quanto siamo fieri di lui. La perfezione genitoriale è lontana e, tanto per dirne una, non abbiamo ancora una “vera” cameretta con le pareti pronte per essere riempite con gli scarabocchi bellissimi che c’erano nella sporta del nido, ma spero tanto che Cesare “senta”, ogni giorno, che stiamo facendo del nostro meglio per meritarci un bambino come lui.

In questi mesi – un po’ perché mi sono riprodotta e un po’ perché capita di poter lavorare a progetti belli – ho fatto amicizia con Peg Pérego. A giugno ho passato una giornata sul set con la navetta Elite e i videomaker di Marie Claire, qualche settimana dopo ho seguito lo shooting per il trasformabilissimo seggiolone Siesta e, all’inizio dell’autunno, ho trovato il Biglietto d’Oro in una tavoletta di cioccolato e sono andata a visitare gli uffici e la fabbrica di Peg Pérego ad Arcore.
Ora, non so voi, ma io sono una grande fan di tutti i programmi che ti fanno vedere come si fanno le cose. Li amo indistintamente, senza badare al prodotto o alla complessità del procedimento. Una fabbrica di filo spinato? Perfetto! Una petroliera? MEGASTRUTTURE, fantastico! Un fiasco d’alabastro? Adoro! E via così.
Quando mi hanno proposto di passare una giornata a disturbare moltissimo con i miei video e le mie domande moleste gli indaffarati dipendenti di Peg Pérego, dunque, ho accettato con trasporto. Un po’ per una mia personalissima forma di curiosità verso i più svariati COME SI FA, ma anche un po’ per rendermi conto in maniera più completa che cosa succede quando un’azienda progetta, produce e distribuisce una vasta gamma di articoli destinati ad esseri umani molto piccoli – che, come possiamo ben immaginare, non sono i consumatori finali più malleabili e facili da accontentare. Procreare per credere.
Che cosa succede a casa Peg Pérego, quindi?
Ecco che cos’ho scoperto in dieci punti (più o meno rapidi) pieni di marchingegni elaboratissimi e persone molto gentili e disponibili. 

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Razionalizzare la complessità – a.k.a. ci sono tanti modi per organizzare un assemblaggio

Non mi immaginavo di finire in un incubo fordista – con tanto di Charlie Chaplin incastrato in qualche ingranaggio – ma neanche di trovarmi in un ambiente all’apparenza così “semplice”. Mettere insieme il telaio di un passeggino, una navicella o un seggiolone è una faccenda intricata. Ci sono tanti pezzi da creare, molti incastri da padroneggiare e una miriade di controlli da fare. Trasformare l’intricato in qualcosa di lineare è un lavoro di una difficoltà estrema… e forse è proprio per questo che i “come è fatto” ci affascinano tanto. La fabbrica di Peg Pérego è una sorta di arcipelago di isolette specializzate che si occupano ciascuna di un prodotto diverso, dall’inizio alla fine. Molte linee utilizzano il metodo Toyota – razionalizzando le risorse necessarie e producendo quello che effettivamente viene ordinato, in maniera super rigorosa ma anche flessibilissima.

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La scritta “Made in Italy” non racconta frottole

Peg Pérego è un’azienda storica che si basa, da sempre, su un indotto di tante piccole – ma indispensabili – realtà locali che sostengono la produzione fornendo le materie prime e i pezzi che non vengono stampati direttamente nello stabilimento. Si assembla a pochi chilometri da Milano, ma anche quello che si assembla non arriva da lontano. E la sensazione è quella di mettere piede in un’azienda di famiglia che è diventata gigantesca ma che non si è dimenticata da dove viene. O come si coltivano relazioni solide con i propri vicini di casa. Le componenti sono sfornate da macchine che stampano i pezzi partendo dal materiale grezzo, ma ad assemblare effettivamente il seggiolone che vostro figlio ricoprirà di appiccicosissime rondelle di banana ci pensano delle mani. Ci sono delle mani che vestono le navicelle con l’imbottitura che accompagnerà molte nanne e mani che ricoprono la scocca con la fodera impermeabile che terrà alla larga il freddo e l’umidità. Mani, come in un laboratorio artigiano. Ma molto più grande.

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Gli step di controllo sono innumerevoli – e nessuno è superfluo

Ogni addetto si occupa spesso di più fasi produttive. In alcuni casi (e con variazioni cicliche delle mansioni) una persona mette insieme un determinato articolo dall’inizio alla fine, sottoponendolo regolarmente a un sacco di step di controllo che hanno a che fare con la tenuta, i meccanismi di aggancio, le chiusure e la corretta applicazione di tutto quello che serve. Gli ovetti, per dire, vengono infilati in un aggeggio che, con 11 macchine fotografiche, ha il compito di verificare il corretto posizionamento delle parti metalliche. Alla fine del procedimento, i prodotti vengono imballati, inscatolati e pesati. La pesatura è una saggissima prova del nove. Pesa troppo? C’è qualche pezzo in più. Pesa troppo poco? Manca qualcosa.

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Gli stampi sono classificabili come arte moderna

I prodotti vengono assemblati, ma da dove arrivano i pezzi? Dal capannone vicino. Fuori dallo stabilimento ci sono dei silos decisamente voluminosi pieni di materiale plastico – e qui mi giocherò la parola difficile della giornata: POLIPROPILENE – che viene “risucchiato” e dato da mangiare a una macchina che somiglia un po’ a un autolavaggio ma che, in realtà, fonde la plastica, la stampa e la raffredda, restituendoci un oggetto tridimensionale perfettamente strutturato e pronto al montaggio. Per stampare i pezzi servono gli stampi, MA GUARDA UN PO’. Ci sono stampi di millemila tipi – i più favolosi erano quelli per i telai delle macchinine giocattolo – e sono tutti accomunati da una gloriosa caratteristica: sono cari come il fuoco. Gli stampi sono inestimabili, massicci, pesantissimi e facilmente scambiabili per dei pezzi da museo. Dato il loro valore di mercato e il loro favoloso aspetto da astrattismo post-industriale (esisterà bene una corrente artistica che fa più o meno una roba del genere), fossi in Peg Pérego mi farei dare una sala all’Hangar Bicocca.

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I collaudi sono cruentissimi

C’è un signore che passa le sue giornata a torturare i passeggini. Li prende, li piazza su un rullo pieno di dossi artificiali e ce li fa correre sopra per chilometri e chilometri. Non pago, li ficca in una cella frigorifera a temperature polari e li osserva compiaciuto mentre surgelano. Non ancora soddisfatto, prende una specie di incudine di quindici chili, ce la carica su e simula il movimento della mamma che fa il gradino per giorni, settimane, secoli. C’è un tavolo DEVASTANTE che ospita una fila di bottoni – quelli montati sulle macchinine giocattolo, per dire – che vengono pigiati da dita d’acciaio per milioni di volte. Ci sono marchingegni che sottopongono i tessuti ad ogni genere di angheria per valutarne la resistenza alla frizione, alla luce e alle intemperie. È un signore adorabile e il suo lavoro è importantissimo sia per testare la resistenza dei prodotti alle condizioni più disparate che per capire come migliorare le materie prime e i tessili, ma sono certa che se i passeggini potessero muoversi di loro sponte, lo travolgerebbero senza pietà.

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L’ufficio invenzioni è un covo di Mr Wolf 

Un’azienda deve preoccuparsi di sfornare e recapitare ai clienti quello che hanno ordinato, ma deve pensare costantemente al prossimo prodotto. E Peg Pérego ha una specie di covo di folli inventori che progettano e costruiscono prototipi a bordo scrivania, in un tripudio di bulloni e software di modellazione 3D. L’idea è quella di migliorare costantemente quello che c’è già, ideando soluzioni nuove a richieste che possono essere emersi dal lato del consumatore, rendendo ancor più fluido e comodo quello che già si vende o escogitando prodotti che ancora non esistono per semplificarci ulteriormente la vita. C’è chi disegna al computer e chi martella, chi sagoma materiali e chi si legge le ricerche di mercato. Avrò visto di sfuggita il prossimo passeggino definitivo? È molto probabile.

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Vestire i passeggini è un po’ come vestire le persone

Pensavo che i moodboard fossero un costrutto immaginario – spesso utilizzato nei film quando bisogna raccontare come funziona la redazione di Elle – o qualcosa che puoi aspettarti di vedere solo su Pinterest, ma invece esistono veramente. E sono utili. I tessuti che rivestono i passeggini che spingete o i seggioloni che ospitano le vostre creature quando è ora di mangiare vengono da una ricerca combinata di materiali e pattern. Ci sono le collezioni stagionali, proprio come per le case di moda, e c’è un super lavoro che comincia con lo studio delle tendenze di un particolare periodo e finisce alla macchina da cucire. In mezzo c’è un grande sforzo di progettazione estetico/funzionale e ci sono anche persone precisissime che tagliano cartamodelli, applicano bottoni e trovano il modo di vestire ogni prodotto nella maniera più piacevole e comoda possibile. In poche parole, una sartoria per passeggini. La vita.

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Per disegnare i giocattoli si usano pennarelli straordinari

Da dichiarata maniaca della cancelleria ed ex-persona che sa disegnare, il reparto giocattoli mi ha regalato grandi emozioni. Con “giocattoli”, Per Pérego intende principalmente le macchine, i trattorini e le ruspette pilotabili dai vostri bambini. E sui tavoli dei progettisti di giocattoli ho visto meraviglie. Schizzi e disegni di mini-fuoriserie. Portamatite pieni zeppi di pennarelli inestimabili. Astucci strotolabili contenenti ogni pastello mai inventato dall’uomo. Copiosi cicciottini di gomma – avete presente quando si cancella con la gomma, no? Il risultato della cancellatura è una specie di palata di cicciottini. COMUNQUE. Mi immaginavo, non so bene perché, che ormai non capitasse più, ma il pensiero di una persona che si siede lì e disegna un giocattolo con la matita, la gomma e i pennarelli mi riempie di una felicità senza pari.

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Al parco giochi ci sono anche le corse clandestine

Tra i disegnatori, gli inventori e l’ufficio stile c’è una sorta di parcheggio, pieno di veicoli telecomandabili di ogni forma e dimensione. Molti giocattoli Peg Pérego, oltre ad essere guidabili da vostri figli, sono pilotabili da remoto anche attraverso un’app. E mi è stato rivelato che questa funzionalità è assai gradita dai genitori. E io, subito: “Ah, certo. Insomma, è comodo. Metti che il bambino sta per schiantarsi, tu sterzi con l’app e sei a posto”. Ma mi sbagliavo. “Certo, certo. Le macchine sono sicurissime, Francesca. Ma la faccenda è un’altra. I papà ci fanno le corse”.
Favola.

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Dietro alle “cose” ci sono tante persone. E molta passione

L’ultima scoperta è un po’ un tratto comune di ogni punto che ho cercato di raccontare. E credo sia un po’ l’anima della giornata. Quando vai in un negozio e chiedi di vedere un passeggino, ne percepisci istantaneamente i vantaggi pratici e ti preoccupi di capire esattamente come funziona e quali sono le caratteristiche che possono contribuire effettivamente a semplificarti la vita. Ma non ti rendi conto – almeno, io non me ne sono mai resa un granché conto – di quello che è successo prima. Non hai modo di intravedere la lunga strada che quel passeggino ha fatto per arrivare lì davanti a te. Può sembrarti più o meno bello, comodo e ingegnoso – ma è difficile percepire la complessità della sua storia progettuale, produttiva e logistica. E, soprattutto, non capita spesso di intuire la cura gigantesca che tante persone ci hanno messo per fartelo trovare lì. Al di là della curiosità che un “come è fatto” può suscitare, quindi, quello che mi ha colpito davvero di questo giro in Peg Pérego è stato proprio quello. La cura. L’idea di doversi impegnare per rendere più facili le giornate di chissà quante famiglie sconosciute. La necessità di fare bene le cose, perché nei seggioloni, nei passeggini e sulle macchinine ci finiscono dei clienti molto importanti. E avere la possibilità di accorgermi davvero di tutto questo, gironzolando per gli uffici o in mezzo alle linee di montaggio, è stata la scoperta più preziosa. Il mio nuovo passeggino arriva da quel posto lì. E mi pare una grande fortuna.

Grazie del tour, Peg Pérego! Vedervi all’opera è stato un piacere.
E grazie a Marie Claire ed Elle per avermi voluta a bordo in questo progettone lungo, interessantissimo, super ricco di scoperte e di elegante utilità materna.

E ora perdonatemi, ma devo andare a fare le impennate con Cesare e il mio Pliko Mini tutto a righette colorate.
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