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Per tradurre bisogna essere allo stesso tempo umilissimi e superbi: si lavora con la consapevolezza della fallibilità – e forse anche della fondamentale impossibilità del compito – ma lo si fa come se l’esattezza incontrovertibile fosse una meta plausibile, realistica. Non è mai vero, ovviamente, e forse è per quello che le macchine traducono così male. Un’entità che funziona per esattezze non sa (e speriamo non impari mai davvero) come gestire il grigio. E la traduzione è una gigantesca campitura grigia. Va così perché le lingue non sono una fila di mattoncini immutabili e non sono fatte di parole fossilizzate: le lingue vivono nell’esperienza di chi le parla e di chi le scrive, sono cultura, mito, riferimenti condivisi, radice antica e germoglio imprevedibile. Il ramo che un secolo fa (o ancora prima) è spuntato per darci modo di descrivere qualcosa che prima non esisteva è oggi la matrice di mille altri significati. Si lavora brandendo contesti, mettendoci addosso una voce che non è la nostra, cercando di capire da dove si parte e dove è necessario arrivare: si fa un ponte e lo si percorre portandosi sulle spalle un agglomerato di parole che la traversata è destinata a trasformare.

Perché si traduce? Per rendere fruibile un testo a chi non conosce la lingua d’origine di quel testo.
Perché si traduce *davvero*? Perché le storie meritano di trovare chi ha voglia di leggerle e nessuna barriera ha mai giovato al sapere o alla scoperta.
La tradizione biblica individua nel crollo della torre di Babele l’inizio della discordia tra i popoli, che prima erano in grado di comprendersi senza intermediazioni e senza possibilità di fraintendimento. L’unità dell’umano era un’unità linguistica che annullava le distanze e rendeva possibile il progresso, perché capirsi è costruire insieme. E “Babel”, non a caso, è anche il nome del dipartimento di traduzione di Oxford al centro di questo romanzo di R.F. Kuang – tradotto da Giovanna Scocchera per Mondadori (Oscar Vault) con maestria e sprezzo del pericolo.

Cosa succede?
Kuang decide che i traduttori hanno in mano il mondo. Anzi, che la traduzione è la chiave per il dominio del mondo.
La premessa è la trasformazione di una manchevolezza strutturale – tradurre in maniera perfetta è impossibile – in una risorsa. Le lingue non combaciano mai in maniera totale e assoluta perché i termini possono obbedire a un ventaglio di sfumature, possono descrivere una specifica area culturale che non si riscontra simmetricamente in altri luoghi/tempi, possono riferirsi a tradizioni o trascorsi storici che per forza di cose non sono condivisi da chi appartiene a dimensioni differenti. Tutti quei termini che “non si possono tradurre” vivono in un limbo che, se correttamente esplorato dagli studiosi di Babel, può produrre effetti tangibili sulla realtà – e il monopolio sulle altre civiltà. Il tradimento che si annida in ogni traduzione è un bacino di combinazioni semantiche da incidere su tavolette d’argento – ricchezza vera delle nazioni in questa versione alternativa dell’Inghilterra del 1800 e rotti – che producono una specie di “magia” linguistica. Scegliendo le parole giuste e collocando le tavolette dove si ritiene possano funzionare, insomma, si tengono su ponti, si fanno andare le navi più veloci, si mantengono le carrozze in carreggiata, si riducono guasti ai macchinari, si uccide, si allestiscono impianti d’allarme… si fanno i soldi, sia per Babel che per l’Impero.

Santo cielo, non è già un’idea affascinantissima? Non sto qua a sciorinarvi esempi di applicazione delle tavolette perché è molto gustoso trovarli man mano che si legge e non voglio soffermarmi molto nemmeno sul quartetto di studenti che arrivano a Babel per cominciare i loro prestigiosi studi. Sono dei simboli, anche loro. Una è figlia dell’Impero mentre gli altri tre sono a vario titolo prodotti del dominio coloniale. “Vi salveremo e vi istruiremo – anche se siamo sempre noi ad aver asservito e spremuto la vostra madrepatria -, voi ci riserverete gratitudine e impiegherete a beneficio di Babel e dell’Impero tutto quello che vi insegneremo. Vi disprezziamo e la vostra gente non è civilizzata, ma siete indispensabili alla nostra macchina produttiva”. Perché Robin – che l’unico studioso di lingue asiatiche di Babel strappa dalle braccia della madre morente a Canton -, Ramy – indiano – e Victoire – haitiana – sono così importanti? Perché conoscono lingue non ancora battute da Babel. E una lingua che non è ancora stata setacciata in profondità è un bacino inestimabile di nuove combinazioni. Ma cosa succede quando tre bambini che crescono dovendo ringraziare i loro “benefattori” anche per l’aria che respirano si rendono conto di chi sono? Qual è il vero tradimento: tradurre “male” o rendersi complici di un sistema fondamentalmente predatorio, paternalistico, impari e oppressivo?

Se il tema della traduzione vi affascina, se siete ancora in attesa di una letterina da Hogwarts, se siete in cerca di un sistema magico davvero originale e se i temi legati al colonialismo, alla “legittimità” delle rivoluzioni e all’etica applicata ai sistemi economici e alle relazioni globali vi stanno a cuore, Kuang ha confezionato il romanzo per voi. È una storia stratificata, importante, ricchissima di spunti di discussione. Ci parla da un’epoca parallela, ma arriva al cuore di molte storture di oggi… e ci arriva perché per una manciata di valori fondamentali dell’esistenza non dovrebbero esserci zone grigie. Ci arriva perché la traduzione, quando è al nucleo dell’umano che si rivolge, è capace di ricostruire la Babele perduta.

Una cittadina del Sud degli Stati Uniti viene all’improvviso sconvolta da un evento traumatico: un ragazzo si alza in piedi durante la messa, rovescia una tanica di benzina e la chiesa prende fuoco, uccidendo quasi tutti. Il gesto pare premeditato e non c’è dubbio sul fatto che quell’Iggy fosse un tipo “strano” – almeno secondo gli standard di Harmony – ma a distanza di venticinque anni dall’accaduto nessuno riesce ancora a capacitarsene o a spiegare le ragioni profonde di quel che è successo. E Iggy, che attende in carcere l’iniezione letale e dalla finestrella della sua cella aspetta la fioritura dell’unico albero che può vedere, ripercorre insieme a noi il mistero di un gesto che ha definito la sua vita ma che sembra non essergli mai appartenuto.

Michael Bible condensa le ripercussioni di questo disastro collettivo (e i mille colpi di testa di chi cerca di crescere in un posto che non ha un centro) in questo romanzo breve ma densissimo, a suo modo lirico ed estremamente “vivo”, nonostante il paesaggio privo di appigli e prospettive di futuro. La staticità di Harmony, la tenace impresa di nascondere sotto al tappeto quel che trascende la norma o increspa la superficie impenetrabile dell’accettabilità, è uno specchio che deforma anche i luoghi più sicuri. Iggy trova rifugio dove può e fin dove le persone che ama glielo consentono, ma si scappa fin quando le gambe reggono e fin quando si può immaginare una meta alternativa, che non sempre c’è. Chi vuoi che ti ascolti, quando nemmeno tu sai spiegarti perché tutto ti respinge?

L’ultima cosa bella sulla faccia della terra si legge con rapidità ma sedimenta con calma, perché molte desolazioni si riempiono agitandosi qua e là sperando di imbattersi in un posto dove fare il nido o in qualcuno che “veda”, senza volerci necessariamente aggiustare, convertire, placare. La voce di Bible – nella resa bellissima di Martina Testa per Adelphi – sembra antica anche se parla di stazioni di servizio, robaccia che si beve, secondini che vengono a chiederti cosa vuoi mangiare per l’ultima volta. Iggy resterà un enigma, ma vi sembrerà un essere umano che ha cercato molto senza trovare assolutamente niente.

Gli studi che tentano di mappare il funzionamento dei nostri cervelli o anche solo di descrivere la “mente” o la nostra capacità di reagire al mondo e di muoverci su piani che aggiungono creatività, immaginazione e sentimento alla mera dimensione del reale sono numerosissimi, multidisciplinari, intricati. La carne al fuoco è tanta, ma su un assioma si tende a concordare: abbiamo capito parecchie cose, ma il cervello è ancora un mistero. Abbiamo scalfito la punta dell’iceberg, ma l’ignoto resta inconcepibilmente vasto.

Di cosa siamo davvero capaci? La mente “sa” qualcosa che sfugge alla nostra stessa consapevolezza? È possibile che alcune persone siano in contatto più diretto con queste ipotetiche “sacche” cognitive misteriose che ci permetterebbero di sbloccare chissà quale forma di conoscenza? Le coincidenze esistono e basta o ci sono cervelli portentosi che sanno unire i puntini e vedere quel che ancora non c’è? Non ci è dato saperlo e non lo sa nemmeno Sam Knight, che con Ufficio premonizioni – in libreria per Mondadori Strade Blu con la traduzione di Doriana Comerlatiricostruisce la parabola professionale di un giovane psichiatra britannico e delle sue ricerche (insolite per gli anni Sessanta/Settanta come potrebbero risultarlo anche ai giorni nostri) al confine tra scienza, ragione e paranormale. Ambizioso e desideroso di affrancarsi dalla casa di cura – anche se sarebbe qua davvero più corretto usare il termine “manicomio”, con tutte le tetre accezioni che si tira dietro – in cui prestava servizio, John Barker comincia a interessarsi al tema della precognizione dopo il terrificante disastro di Aberfan – un cumulo di detriti minerari collassa e seppellisce una cittadina del Galles. La tragedia aveva delle cause spiegabili, ma meno spiegabili parevano essere i tanti presagi di sventura che qua e là per il paese erano stati “registrati”, con riferimenti precisi e circostanziati. CHE QUESTA GENTE ABBIA VISTO IL FUTURO? Riflettiamoci meglio, pensa Barker, strutturiamoci per mappare l’operato di questi presunti veggenti e per capire quanto spesso i fatti daranno loro ragione.

Insieme a un giornalista scientifico – che poi diventerà una voce celebre nel documentare il programma spaziale – Barker “apre” una casella postale per raccogliere premonizioni e si appoggia a una redattrice per catalogare e verificare quel che arriva. L’Ufficio Premonizioni abita una zona grigissima, a cavallo tra sensazionalismo, curiosità morbosa, mitomania e autentico interesse scientifico e, nella sua stramba ambiguità attira innumerevoli ciarlatani ma anche una manciata di “veggenti” che sembrano sapere il fatto loro con inquietante accuratezza.

E quindi? E quindi niente, mi vien da dire, perché Knight è un eccezionale catalogatore di informazioni ed è molto bravo a mappare fatti e a mettere in fila con dovizia di particolari una storia vera (e corale) fatta di numerosi stimoli e anime… ma finisce lì. Proprio quando l’abisso dell’inconoscibile potrebbe irretirci davvero finiamo un po’ in una palude compilatoria e smettiamo di farci domande. Non si tratta di prendere le parti – scienza o chiaroveggenza? FIGHT! – ma forse di metterla solo giù con un piglio più vispo, curioso, “vivo”. Forse esiste una via di mezzo tra una puntata di Mistero e il rigore implacabile della mia commercialista e sarebbe stato avvincentissimo percorrerla… ma forse è presto. Si sa, non usiamo ancora il nostro cervello al 100%.

Vi risparmio l’elenco lunghissimo degli importanti riconoscimenti conquistati da Kate Beaton per questo lavoro, ma tenete presente che ci sono – Eisner Award compreso – e che sono meritati. Ducks è un libro che potrebbe alimentare una tale quantità di discussioni “calde” da farci scoppiare la testa, anche perché l’epoca che racconta è al contempo vicina (cronologicamente) ma lontanissima per sensibilità e istanze maneggiate dall’opinione pubblica. Credo sia questa specifica collocazione “di confine” a farne un libro così emblematico: i nodi sono venuti al pettine oggi (o in un passato relativamente molto recente), ma il garbuglio c’era già… o c’è sempre stato, anche se non conveniva alzare la mano per segnalarlo.

Si sta discutendo spesso di autofiction, di preponderanza dell’autobiografia sulla narrativa d’invenzione, di presunzioni d’universalità anche quando si racconta delle proprie unghie incarnite, di che valore possano avere le minuzie individuali – vendute e ben confezionate come grandi rivelazioni – nel panorama del pensiero umano. Ecco, Beaton ha saputo riconoscere la rilevanza di un’esperienza personale e ce l’ha restituita in Ducks – in libreria per BAO con la traduzione di Michele Foschini –, compiendo quella famosa prodezza del “tu che adesso hai una voce… usala per portare a galla questa roba che si è trasformata su mille piani diversi in un bel problema collettivo!”.
E quale mai sarà quest’esperienza così stratificata e significativa? Pare una faccenda circoscritta e MOLTO “site-specific” ma non è solo questo. Beaton arriva da un’isola del Canada atlantico. Nel 2005, a 21 anni, si è laureata in arte e ha deciso di partire per l’Alberta per trovare un lavoro abbastanza redditizio da permetterle di estinguere il suo gravoso debito studentesco. Ha passato due anni a lavorare nelle attrezzerie – e successivamente negli uffici “sul campo” – delle grandi compagnie estrattive dell’area di Fort McMurray, terra promessa delle sabbie bituminose.

Perché dovremmo mai leggere la storia di una ragazzina che fa i bagagli e parte da sola per lavorare in un luogo assurdo, lontanissimo da casa e potenzialmente letale?
Perché l’esistenza stessa di una struttura lavorativa simile si innesta su un profondo disagio socio-economico, fatto di posti che si spopolano e di generazioni giovani che non riescono ad accedere a un avvenire dignitoso perché son sommerse dai debiti prima ancora di riuscire a laurearsi – impresa in cui ci si imbarca con l’idea probabilmente superata che il titolo di studio basti a poter star meglio di come stanno le famiglie d’origine.
È una storia tremenda (e preziosa) perché una popolazione “aziendale” in cui il rapporto donne-uomini è di 1 a 50, residente in villaggi fatti di container in mezzo al nulla più assoluto e impiegata in turni che non permettono un contatto significativo con la rete sociale e affettiva di provenienza ECCO è un contesto che trasforma le più basilari norme di convivenza e di umanità, riscrivendole a favore di una situazione liminale, dove la responsabilità si edulcora e l’essere perennemente “di passaggio” fornisce un alibi di ferro per un cameratismo tossico, esasperato e concretamente violento.
È un libro importante perché parla di soldi, di risorse naturali e di impatto ambientale a livello “macro”, ma ci interroga anche sui vari gradi di complicità che possiamo esprimere in via indiretta, magari mentre cerchiamo con gran fatica di guadagnare anche solo il minimo indispensabile.
È una storia di migrazioni economiche e di sconfitta della retorica del “se vuoi puoi” – che di solito ci viene propinata da chi può molto perché parte con le spalle più che coperte -, di scelte impossibili tra radici e futuro, di ambizioni e patti infelici con la realtà, di opportunismo travestito da opportunità dorata. “Che vuoi farci, il mondo va così”, ci ripetiamo quando i problemi che si affastellano sono troppo grandi per essere maneggiati e ci sentiamo estremamente irrilevanti per poter fornire un contributo che faccia una qualche differenza. Forse è vero… ma è una fortuna che spunti, ogni tanto, una voce capace di rendere palese questa sconfitta, che ci racconti un posto “limite” che diventa crocevia di molto di quello che ci preoccupa e che, inevitabilmente, ci riguarda. La nostra storia non sarà mai sovrapponibile a quella di Beaton, ma a quello servono i testimoni attendibili: ci dicono quel che è successo, quello che noi non potevamo sospettare e, per fortuna, anche che quello che mai avremmo voluto sentire.

In città si crepa di caldo, in campagna anche… ma almeno ci si augura che il cambio di scenario aiuti la creatività a fluire un po’ meglio. I dipendenti di Bomba Agency si riuniscono prima della chiusura ufficiale delle ostilità e dei “ci pensiamo a settembre” per mettere insieme una proposta di gara. Non conosciamo il cliente, non sappiamo che cosa vada in concreto inventato, ma in fondo non è necessario. Le gare sono tutte uguali e sono anche il simbolo perfetto di come gira il mondo: si lavora in uno scenario incerto con la speranza che quel lavoro lì produca in futuro altro lavoro, ma lievemente più solido. Nel frattempo gli orari si allungano, i confini tra vita professionale e vita privata si sfumano, tutto è urgente, fondamentale e indispensabile… ma non stiamo mica salvando vite umane, non scordiamocelo. Ironia, mi raccomando! Una birretta?

La casa di campagna che fa da sfondo vivo e presentissimo a Estate caldissima di Gabriella Dal Lago – in libreria per 66thand2nd – accoglierà per una settimana di lavoro e stretta convivenza i sette componenti di Bomba, più una gatta e un bambino di otto anni. È figlio di Gian, il padrone della casa e pure dell’agenzia – anche se quasi si vergogna a farsi trattare da capo – e della sua ex compagna. La compagna attuale è una collega che, prima ancora, era stata una sua studentessa. Le relazioni degli altri (e con gli altri) si sveleranno man mano, mentre si suda copiosamente, si prova a mettere insieme qualcosa di dignitoso da presentare all’ipotetico cliente e ci si rimbalza addosso con diversi gradi di intensità. La casa accoglie e nasconde, forse perché conosce già il futuro e sa rassegnarsi alla rovina. Non piove da un’eternità… ma pioverà e nessuno sarà pronto.

Di millennial impantanati e prigionieri delle proprie contraddizioni si sta cominciando a narrare con buona lena, di solito raccontandoli in preda a una rassegnazione statica o, a volte, facendoli proprio rinunciare a partecipare. Son strade reali, ma ce ne sono altre. Dal Lago non affligge ogni suo personaggio col medesimo dilemma “generazionale”, anzi, dosa il pesante e il leggero con occhio e sensibilità. Alcuni sono alle prese con delusioni senza tempo, altri si scoprono più flessibili del previsto, una vuol salvare l’universo intero ma è indifferente a chi le sta a un metro, un’altra sa che non avrà mai il coraggio di scappare. È una confusione ben orchestrata e soprattutto “attiva”, ci si scorge una forma di resistenza e un margine di manovra ancora accessibile. E probabilmente è questo che rende amara sul serio la sorte di Bomba.

La casa potrebbe essere l’ultimo rifugio prima di una catastrofe, ma si dimostra un crocevia decisivo che nessuno riconosce. E i disastri più grandi di noi – che arriviamo col nostro valigino di panni sporchi, dilemmi, compromessi e programmi a brevissimo termine da portare avanti con le persone che accettiamo come inevitabili – guadagnano terreno, si addensano all’orizzonte e si preparano a spazzare via quello che conosciamo… e che non siamo stati capaci di aggiustare. Come fai a salvare TUTTO, quando ti tieni a malapena a galla e ti è stato insegnato che conta far vincere un IO che restringe ogni confine? Come si fa a sentirsi abbastanza “potenti”, se non ci fidiamo nemmeno di noi stessi? Meglio lasciarsi dimenticare o imparare a vivere “nel mezzo”, perché il passato ci sconfigge per definizione e il futuro va costruito… ma i progetti li abbiamo persi.

Ogni famiglia è infelice a modo suo, abbiamo collettivamente metabolizzato. Una minima infelicità, romanzo d’esordio di Carmen Verde – in libreria per Neri Pozza – è la cronaca secca e precisissima dell’insoddisfazione di una specifica famiglia, di un vuoto civilissimo e agiato, di una diminuzione perenne dell’amore che finisce poi per “personificarsi” in una figlia che sceglie di farsi spettatrice, topolino che si aggira ai margini dei crucci altrui – sempre silenziosi, sempre segreti, sempre senza speranza.

Nipote e figlia di femmine scandalose, troppo vive per essere opportune, “pazze” e nemmeno troppo tacitamente disapprovate dalla brava cittadinanza, Annetta diminuisce di pagina in pagina – un po’ perché non cresce, un po’ perché quello che pensa le spetti è poco e un po’ perché sua madre non c’è mai quando dovrebbe, non la ripara dalle ingiustizie più stupide e grette, non le lascia nemmeno immaginare un paesaggio in cui correre da sola (su gambe lunghe e forti).

È un esordio insolito e molto ben eseguito, misuratissimo e pieno di crudeltà tristi. Somiglia a un pezzo di musica da camera che si ascolta bene ma da studiare è un baratro di difficoltà o a un quadro piccolissimo ma zeppo di dettagli che in mezzo centimetro di tela lasciano intravedere un “oltre” sconfinato – ma noi siamo prigionieri di quella cornice, come Annetta, come sua madre.

Un nuovo esperimento sul fronte “millennial tristi e piene di menate”? Eccoci qua con La nuova me di Halle Butler – in libreria per Neri Pozza con la traduzione di Annalisa Di Liddo.

Millie ha trent’anni e vive a Chicago. L’agenzia interinale che cerca a ripetizione di impiegarla le ha trovato un lavoro da assistente alla reception in uno showroom che coltiva con grande attenzione un’aura sofisticata. Le mansioni non sembrano troppo complicate: deve rispondere al telefono, pinzare delle brochure, tritare dei documenti e fare il possibile per attenuare la dissonanza che sembra separarla costantemente dai membri “funzionanti” di ogni contesto in cui le capita di inserirsi. C’è qualcosa che stride, sempre. Millie non sa quando tacere, non sa come vestirsi, disprezza quasi tutto (e analizza quel che le capita con un astio triste e desolato) ma vorrebbe scivolare leggera verso un futuro che sente di meritarsi ma che continua a respingerla, finendo soltanto per rendere ancora più palesi le sue mancanze.

I genitori le hanno fornito una rete di salvataggio – le pagano l’affitto e, da misura temporanea in vista di un lavoro che l’avrebbe aiutata a stare in piedi da sola, è diventata una scorciatoia strutturale. Millie un po’ se ne vergogna e un po’ si rifiuta di pensarci e ogni ufficio in cui ricomincia da capo è una nuova speranza, che si tira dietro una lunga lista di nobili aspirazioni. Mangiare meglio, lavarsi di più, tenere in ordine, arredare con gusto, fare sport, leggere, bere meno, volersi bene. Ma è dura costruire un castello splendente quando le fondamenta traballano di continuo e Millie tira avanti rabbiosa, sfidando il tedio in una polarizzazione di desideri: vorrebbe un contratto “vero”, ma chi è che vorrebbe fare per sempre un lavoro così mesto? E che senso ha tirare a lucido una casa piena di cianfrusaglie da quattro soldi?  Da un lato, Millie ha il lusso relativo di poter scegliere – e un minimo di spalle coperte – ma, dall’altro, le alternative a disposizione sono misere e di certo incompatibili con sogni di gloria e realizzazioni conclamate.

Dunque, pensavo meglio. Mi rendo conto che ci sia una forma di ripetitività che serve a infilarci nel vicolo cieco che intrappola anche Millie, a farci percepire in maniera viva l’estrema futilità di quello che le tocca (e alla sua – e mia – generazione tocca) per campare, ma per quanto lo stratagemma sia efficace risulta anche un po’ pesante. Millie è interessante perché è sgradevolissima. È sciatta, vendicativa, meschina e a suo modo vanesia, ma è anche un’architetta di illusioni e autoinganni molto potenti da leggere. La vuoi menare ma ti fa anche tenerezza, percepisci la sua difficoltà ma senti anche che è troppa per fartene carico, la percepisci come lo specchio deformante di un’attrazione del luna park che ti ha messo più ansia che divertimento – e non sai perché ci sei salita o perché Millie faccia così fatica a uscire. Millie è uno dei tanti “peggio” che ci sono capitati o che continuano a capitarci. Ci ricorda che siamo di una debolezza disarmante, ma anche che non è più necessario fallire con grazia. Anzi. Dovremmo cominciare a farlo rovinando la festa a tutti.

Pronta a cominciare il suo “praticantato” da sacerdotessa di Pandora, Clori comincia a sospettare che il tempio sia solo un grande baraccone tirato su per vendere vasellame ai turisti e si domanda se non abbia fatto meglio la sua amica – nonché suo unico amore – ad accettare una buona proposta di matrimonio in una polis vicina. Delusa e oltraggiata – oltre che discreta rompicoglioni, che l’Olimpo la conservi – Clori decide di verificare la tenuta del culto per vie empiriche… e apre il vaso. CAOS! MALI DEL MONDO IN LIBERTÀ! SENSO DI COLPA! DISASTRO INCOMBENTE! Convinta di aver condannato tutti alla sofferenza, mette qualche peplo in un fagotto e parte per la sua missione di redenzione, in compagnia di Pigrizia – una pingue sfinge mignon – e della famelica Speranza. E giá così si vola.

Dove abitano i mostri? In un grande vaso leggendario o nella nostra testa? E qual è il peggiore? Da dove arriva il timore di non essere mai abbastanza? La speranza è una forza positiva per definizione o quando è cieca fa più danni che bene? Clori e il suo corteo di mostruosità cercheranno di capirlo, tra gesti eroici e oracoli che (ovviamente) ti dicono che la risposta è dentro di te… e ogni tanto hanno ragione.

Fabio Pia Mancini rivisita il mito di Pandora servendosi di una scrittura guizzante e contemporanea – riferimenti pop compresi – e di un impiantone visivo ricchissimo e francamente magnifico. Il risultato è un’avventura stramba, molto divertente e fuori dal tempo, che riflette su timori frivoli e grandi abissi.

Ah, se i muri potessero parlare! Nel caso di Adattarsi di Clara Dupont-Monod – in libreria per Clichy con la traduzione di Tommaso Gurrieri – lo fanno… e con grande garbo e sapiente delicatezza. Le “narratrici” poco invadenti di questo libro – che è un romanzo malinconico ma anche animato dalla forza cocciuta di un tempo che aggiusta, in qualche modo – sono le pietre di un cortile. Nella casa di montagna abita una famiglia che accoglie un bambino nuovo. C’è un fratello maggiore e c’è una sorella minore. Il bambino nuovo è bellissimo e tranquillo, ma dopo qualche mese tutti insieme appare fin troppo chiaro che non parlerà mai, non vedrà mai niente e non sarà mai capace di camminare o di relazionarsi con gli altri. Il suo è un “male” poco evidente e per nulla plateale, una staticità che pare accontentarsi di poco ma che devierà irrimediabilmente il corso della famiglia.

Il libro è diviso in tre parti, che corrispondono a quel che succede ad altrettanti abitanti della casa dopo la comparsa di quel bambino che resterà bambino per sempre… o almeno finché reggerà – e la medicina stabilisce subito che l’orizzonte da attendersi non è lungo.
I tre testimoni – più o meno sincroni rispetto all’esistenza del bambino – sono il fratello maggiore, la sorella minore e l’ultimo figlio. Un custode, una ribelle e uno spirito antico. Tutti e tre misurano differenze tra il prima e il dopo, tra loro e il bambino, tra il futuro che immaginavano e quello di cui dispongono, tra come pensavano di reagire e come di fatto agiscono, affaccendandosi o metabolizzando quella forza immobile ma presentissima, cambiando per non soccombere, trasformando quello che si sentono abbastanza forti da governare. Sono tre approcci molto diversi, che di certo sono solo alcuni degli innumerevoli possibili: spezzano il cuore perché sono tutti legittimi e nessuno sa di resa.

Chissà cosa sentiva davvero, il bambino di questa storia. Come sarebbe stato prezioso saperlo. Dividere l’inadatto dall’adatto è una libertà che nessuno in questo libro si prende, perché prevalgono le reazioni viscerali e istintive. Ci sono protezione, repulsione, curiosità e tutte sono forme di ribellione a un destino strano, espressioni tenaci di una volontà di conservarsi in una tempesta che non risparmia nessuno, perché il passo lento (o assente) di qualcuno significa rivalutare l’ampiezza del proprio. C’è chi trova un centro rallentandosi e chi scalpita per correre lontano e chi, dopo, deve inserirsi in un ritmo che ha subito scossoni impossibili da conoscere ma di cui si ereditano le vibrazioni. È una storia triste e gentile, paziente e inesorabile. Somiglia alle pietre che la raccontano: levigata ma dura, pronta a resistere alla natura.

Forse salterà fuori che il nostro unico e autentico pregio è stato quello di aver tenuto i piedi in due epoche, di aver visto arrivare un orizzonte nuovo e di essere stati testimoni di un cambiamento mastodontico, incomparabilmente più grande delle nostre capacità di governarlo o di renderlo un fattore di indubbio e generalizzato progresso. Custodiamo i nostri ricordi con la tenerezza ossessiva e un po’ stucchevole di chi ha lasciato perdere, di chi ha decretato che quel che poteva andare male è già andato male e che mai ci si imbatterà di nuovo in un tempo “facile”, relativamente più prospero e privo di responsabilità come l’infanzia. Quei ricordi ce li teniamo volentieri, insomma, a costo di fare la figura degli stupidi e dei piagnucoloni. Ogni generazione sarà la barzelletta di quella successiva, ma è possibile che la mia – quella dei Millennial – sia l’unica che tende ad accanirsi più volentieri su sé stessa che sulle compagini anagrafiche limitrofe. Abbiamo combattuto strenuamente per il ritorno del Winner Taco e, quando ce lo siamo finalmente potuto ricomprare, ci siamo accorti che era piccolissimo. Ecco, Doveva essere il nostro momento di Eleonora C. Caruso – in libreria per Mondadori – esplora quello spazio di delusione lì, quell’operazione sistematica di ridimensionamento delle aspettative che si scontra col “rimanerci male” lo stesso. Non possiamo farne a meno, perché barcolliamo da sempre su una sabbia mobile fatta di pupazzoni, benesseri promessi e perentori “sforzati, l’impegno verrà ripagato”. Ma quel che c’era a disposizione è rimasto dov’era e noi non abbiamo capito come prendercelo, come farci valere, come farci vedere. E ci incazziamo per il Winner Taco, perché incazzarci a livello “macro” è difficile, se alla coscienza collettiva siamo stati abituati a preferire rarissime punte di straordinarietà individuale che la realtà spazza puntualmente via.

Caruso si appoggia alla struttura “classica” del viaggio per produrre un’avventura ideale che, qua e là, si trasforma con grande naturalezza in una specie di atlantone sociologico che riesce a tenere insieme il confronto generazionale, l’impatto del web su ogni sfera delle nostre relazioni e quella condizione di incertezza traballante e precaria – nel lavoro, nei sentimenti, nel legame con la famiglia d’origine, nella costruzione del futuro, nelle condizioni “materiali” di vita – che ha cessato di scomparire all’affacciarsi dell’età “adulta”. Caruso prende tutto questo magma ribollente di menate, maldestre rivendicazioni, riflessioni sul “ma che abbiamo che non va” e lo colloca in un luogo narrativo capace di trasformarlo in un impianto teorico dotato di coerenza interna, regole e principi. Insomma, fonda una “setta” e la usa come laboratorio.

La setta romanzesca di Caruso dimora in un baglio – una masseria – in rovina nelle campagne del catanese. Ospita una gioventù (più o meno fresca) usurata dal mondo esterno e spremuta o ormai rifiutata dal mondi virtuali. È una capsula del tempo di raro potere evocativo, perché l’idea di base è che il mondo in cui valeva la pena soggiornare è finito nel 2001 e che tutto quello che è arrivato dopo sia maceria, rovina, tabù innominabile. Insomma, gli adepti di Zan – fondatore e responsabile dell’impresa – vivono negli anni Novanta. La moneta corrente delle comunità sono i ciucci di plastica, si guardano i Duck Tales in videocassetta, Cesare Cremonini sgasa sui colli bolognesi, i Tamagotchi pigolano con insistenza per essere nutriti e Pippo Baudo salva un aspirante suicida dalla balconata del teatro Ariston. Chi ha effettivamente vissuto gli anni Novanta è un Ritornato, chi mai ne ha fatto esperienza diretta è un Non Nato – e viene educato di conseguenza. Non sono ammessi smartphone, si comunica con l’esterno per lettera e non ci si connette a un bel niente.
La storia comincia quando Leo, trentaquattrenne che vive a Milano su un divano-letto in una casa che condivide con un numero imprecisato di coinquilini antipatici come la sabbia nelle mutande, parte alla volta della comunità di Zan per recuperare il suo amico Simone, che era andato a visitare quella sorta di utopia anni Novanta con l’intento di tirarci fuori un articolo succoso e auspicabilmente sarcastico. Ma passano i mesi e Simone non torna. Leo si presenta lì con l’intento di fermarsi giusto il tempo necessario a “salvare” il suo amico, ma anche lui finisce per trattenersi e per partecipare alla vita di quel microcosmo disancorato dal presente con un trasporto del tutto inaspettato.
Il libro si biforca qui – da una parte seguiremo quel che succede quando Leo fa effettivamente i bagagli e, dall’altra, scopriremo come è stato il suo soggiorno al baglio. Caruso dosa con grande abilità il racconto del viaggio verso nord e i flashback della “setta”, che si mescolano a tutto quello che è funzionale a farci conoscere meglio i personaggi. Simone un po’ ce lo possiamo dimenticare – è stato un utile pretesto -, perché il suo posto in macchina verrà occupato in maniera inattesa ma fatidica da Clorofrilla – o Cloro, per follower e conoscenti -, celeberrima youtuber dalla chioma rosa caduta quasi irrimediabilmente in disgrazia dopo un pionieristico passato da bambina prodigio. Cloro e Leo appartengono a due generazioni diverse, non si sono quasi mai parlati al baglio e hanno all’apparenza molto poco in comune, a parte un legame più “intenso” della media con Zan. Arriveranno indenni a Milano? Cosa scopriranno lungo la strada? Cosa scopriremo di noi durante il loro accidentato percorso?

Questo romanzo mi ha suscitato una calorosa ammirazione e spero verrà letto tanto e in tutte le sue matte stratificazioni. Lo si può leggere perché ci interessano gli ingarbugli fra i personaggi, lo si può leggere da incattiviti o da romantici, con l’occhio clinico di chi vuole capire il presente e con l’occhio pesto di chi pensa al presente con un disincanto che rasenta il disgusto. Mi sono sentita – a livello “anagrafico” – ritratta con una lucidità rara e trattata al contempo con una severità complessa e ben radicata in una visione consapevole. Diamine, Caruso sa di che parla e rivolta i nostri Pisoloni infeltriti – sempre che qualcuno ce l’abbia mai comprato PERCHÉ IO A SANTA LUCIA L’HO SEMPRE CHIESTO MA NON È ARRIVATO – per fotografare quel che resta di noi e cosa cerchiamo di mascherare con la nostalgia. Il riflesso che inseguiamo è molteplice, perché tantissime sono diventate le superfici riflettenti e le piazze di auto-rappresentazione in cui ci cimentiamo, sperando ci restituiscano rassicurazioni e validazione. È una storia che prova a riedificare i confini di tante identità prive di centro ma disperatamente in cerca di uno scopo, di una promessa in cui credere davvero, su cui ci sentiremo capaci di costruire finalmente qualcosa. 

L’ho tirata in lungo, ma quel che vi serve sapere è che è proprio un bel libro e Caruso scrive come se Zan, Leo e Cloro fossero persone con cui ha appena finito di parlare al telefono. Di tatuaggi brutti, probabilmente. O di chi ha appena sbroccato su Instagram. O di quanto è diventato piccolo il Winner Taco, porca miseria.