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Reduci dalla NOTEVOLE mole di 4321 – che possiamo aver amato o molto ammirato o possiamo magari ricordare in prevalenza per la fatica che ci ha fatto fare -, trovarsi alle prese con un Auster così snello, in libreria per i Supercoralli Einaudi con la traduzione di Cristiana Mennella, è già una notizia.

Il Baumgartner del titolo è un professore di filosofia di Princeton che ha perso l’amatissima moglie da una decina d’anni. Vive da solo, lavorando ai suoi saggi per tenersi occupato e ordinando libri online in maniera compulsiva solo per il piacere di scambiare due parole con la fattorina che glieli consegna di solito – potrebbe sembrare un’abitudine inquietantissima, ma nel caso specifico non c’è da prendere paura. Baumgartner non è giovane, ma non è nemmeno decrepito. Non si è rassegnato alla dipartita di Anna, ma il dolore non l’ha incattivito. È spesso un po’ imbranato, ma se la cava con un certo piglio. È proprio un brav’uomo, mi verrebbe da dire. Ha poca pazienza per le rotture di palle, ma chi è che può dire di averne? Dalla scomparsa improvvisa di Anna ha cercato con fatica di recuperare un’identità individuale, anche se il compito di riempire il solco lasciato da una personalità così calorosa e vulcanica gli appare quasi impossibile. Non può lasciarla andare perché non sa come fare, ma osserviamo con affetto vero i suoi volenterosi tentativi di vivere “lo stesso” nel solco della sua memoria… anzi, ci viene da tifare per un nuovo inizio, per l’intervento di una forza propulsiva inaspettata che in qualche modo lo ricompensi per la sua tenacia gentile.

Auster ci racconta pian piano chi è Baumgartner – e chi è stata Anna – mettendo lo stesso Baumgartner nelle condizioni di ricordare, di aprire dei cassetti (in senso letterale) e di riportarci quello che ci trova dentro. Le memorie riemergono con una naturalezza splendidamente calibrata dai piccoli intoppi del quotidiano o per decisione deliberata di Baumgartner, che mentre dovrebbe pensare ad altro (dove sono finiti gli occhiali? Perché diamine sono venuto al piano di sopra? Ho già telefonato a mia sorella?) si concede qualche ricognizione approfondita nel passato. Sono “viaggi” che nella loro essenza non risolutiva – e nella loro strutturale impossibilità di rimediare all’assenza di Anna – rendono però il presente meno asfittico, meno buio, ancora capace di fare da base al futuro. Baumgartner usa la nostalgia come una specie di arma difensiva, per ricordarsi della felicità di cui è stato capace. Non ricorda più con rancore o con senso di rivalsa, ma con la fierezza di chi sa di aver per tanti anni vissuto una parentesi di grande appagamento, il genere di felicità che augureremmo a chi amiamo.

Va bene che ha insegnato filosofia, ma da dove gli viene questo talento? Chi è, un santo eremita? Forse il contrario, credo. All’atto pratico, Auster configura Baumgartner come un solitario, ma gli regala un istinto di apertura al mondo, di fiducia negli altri. E il mondo risponde – coi suoi tempi, ma risponde. E anche Anna finisce per ordinargli di “liberarla”, di permetterle di diventare un fantasma benevolo, di lasciare che siano le tante cose che ha scritto (e che si sono scritti) a fare da “museo” al loro legame ma senza tramutare anche sé stesso in un reperto.
È una storia che parte da una premessa deprimente e si muove nel territorio del malinconico, ma lo fa con grazia – e non perché nel dolore ci sia grazia o sia obbligatorio produrne, anzi -, seguendo un imperativo che lascia speranza: rendere giustizia a un amore “ben riuscito”, nonostante l’imprevedibilità crudele del destino.

Di primo acchito, Clara legge Proust di Stéphane Carlier – tradotto da Ilaria Gaspari per i Supercoralli Einaudi – potrebbe sembrare un romanzo dell’ormai consolidato filone “piccola bottega in cui si approda un po’ a caso finendo però per trovarci il senso della vita grazie alle gioie sincere delle cose semplici e della gente tanto carina e piuttosto eccentrica che fa avanti e indietro” ma non siamo in Giappone e Clara, la protagonista, si è quasi già rotta le palle della piccola bottega in cui lavora. Le francesi di 23 anni funzionano diversamente dalle coetanee giapponesi che tanto volentieri importiamo, forse. La piccola bottega di Clara è un saloncino da parrucchiera di una cittadina come tante e lei passa le giornate ad acconciare chiome con discreta maestria ma senza particolare emozione o slancio. Tutta la sua esistenza gira un po’ così: un sereno tran tran che potrebbe proseguire immutato fino alla tomba – e nulla di male ci sarebbe, a patto di soffocare qua e là gli sbadigli. Clara intuisce un vago baratro esistenziale, ma tutto sommato le pare di cavarsela bene e non trova concrete ragioni per lamentarsi o per ambire a chissà quali sterzate nell’avventuroso ignoto.

Serpeggia insomma un’insoddisfazione blanda ma caparbia e le giornate si srotolano sempre uguali, con le chiacchiere tra una permanente e l’altra e le storie minute delle clienti. Un bel giorno, però, uno sconosciuto entra per farsi tagliare i capelli e si dimentica al salone il primo volume della Recherche di Proust. Clara non è una gran lettrice, ma si mette il libro in borsa e lo lascia a stagionare su uno scaffale di casa per qualche mese, senza badarci. JB, il suo aitantissimo fidanzato – per giunta pompiere -, è lì lì per usarlo come fermaporte, ma pure quella pare una decisione troppo ardita nel sonnecchioso ménage domestico. Un bel giorno 2, però, Clara piglia il libro e comincia a leggere… e MAGIA DELLA LETTERATURA tutto cambierà per sempre.

Il “risveglio” di Clara passa attraverso la lettura di un tomo multiforme, vasto e di difficile descrizione. Alla ricerca del tempo perduto credo sia in cima alle classifiche delle opere che fingiamo d’aver letto per darci un tono e per posizionarci fra i colti e i sapienti, ma l’unico moto di vera sincerità di Carlier – in un romanzo altrimenti MOLTO volpino – è l’assenza assoluta di barriere all’ingresso all’opera di Proust. Clara non si domanda se sarà capace di leggerlo, non si preoccupa di confrontarsi col Mostro Sacro, non ha nessuno da impressionare o nessuna prova d’intelligenza che le preme superare. Si siede lì e comincia a leggere, saltando probabilmente anche le 54 prefazioni che di solito accompagnano ogni edizione della Ricerca. Legge di gusto e per il gusto di percepire i personaggi come esseri umani suoi pari, in una bolla che per lei si dimostrerà rivelatoria e lontanissima da sovrastrutture o ansie da proiezione.

Io non ho ancora letto Proust e non so quanto Clara abbia scatenato in me desideri di emulazione. Ma sono contenta per lei, perché il suo approccio – anche al libro “difficile” per definizione – è molto sano. Clara legge Proust è una storia breve e piacevole, che forse si contraddice anche un po’, nonostante Clara non sia affatto spocchiosa: c’è un intento edificante, c’è l’idea antica della lettura che nobilita… e quest’idea “migliorativa” della lettura sottintende una certa gerarchia. O magari sono io, che non ho letto Proust e continuo a sentirmi in difetto… senza essere nemmeno capace di farmi la piega con disinvoltura.

[Segnalazioni pratiche di fruizione: su Storytel – dove l’ho ascoltato io – la lettrice che legge a voi Clara che legge Proust è Ilaria Gaspari, che ha tradotto il romanzo].

Premio MalaparteIl Premio Malaparte 2023, che si assegna a Capri a personalità letterarie internazionali, è stato conquistato quest’anno da Benjamín Labatut, che da queste parti era già transitato con Quando abbiamo smesso di capire il mondo, il suo debutto per Adelphi. Fluttuando nei pressi dei Faraglioni ho vissuto una delle esperienze di mal di mare più devastanti e inconcepibili della mia vita ma, per fortuna, il Malaparte e i numerosi momenti d’incontro collegati al premio si svolgono sulla terraferma e le vertigini sono affidate unicamente alla letteratura. Gli autori e le autrici che se lo aggiudicano trascorrono un fine settimana isolano ricco di impegni, ragguardevoli momenti gastronomico-conviviali e dibattiti pubblici, compresa la cerimonia di accettazione del riconoscimento alla Certosa di San Giacomo. Per quest’edizione, la ventiseiesima dalla “fondazione” e la dodicesima dal rilancio a cura di Gabriella Buontempo e Ferrarelle Società Benefit, Labatut ha presentato Maniac, il suo nuovo lavoro, e ha dialogato con Guido Tonelli, fisico tra i più autorevoli del CERN e magnifico “duellante”. Perché sì, Labatut di base non concorda, ma anche la sua è una potentissima e abissale forma di ricerca. Ho avuto la vasta fortuna di poterci conversare e qui trovate la generosa intervista… con tanto di intervento divino, abbiamo ipotizzato. 


Uno dei temi che emerge più di frequente, quando si discute del tuo lavoro, è la relazione tra scienza, verità fattuale e letteratura. Quanto possiamo fidarci dei fatti e dove comincia la finzione? Perché partire proprio dalla scienza – che collettivamente suscita aspettative di certezza – per fare letteratura?

La scienza deve descrivere la realtà, ma non è quello il compito della letteratura. Il ruolo della letteratura è raggiungere i posti che la scienza non può raggiungere. Riguarda significati più oscuri, più insoliti, parla del mondo nella nostra testa. Qui non c’è esperimento che tenga o che possa condurci a una verità “psicologica”, come si può invece fare quando si indagano gli atomi. La scienza si basa sul principio che il mondo si possa comprendere, che sia ordinato e si possa decifrare, anche se ci sono molti aspetti che restano impossibili da afferrare. Per quel che ne so, non è possibile comprendere la fenomenologia dell’umano usando soltanto i fatti. Non è così che viviamo. Non è così che le nostre menti funzionano. Siamo esseri fatti di desiderio, dolori, sogni, incubi. Le nostre immaginazioni sono portentose, siamo inseguiti da strati e strati di significato, molti dei quali sono finzione pura, che scaturisce solo dalle nostre menti. Nei miei libri c’è una commistione voluta, non una distorsione della verità, perché la letteratura può arrivare ad aspetti che nessun altro metodo permette di scorgere. Ce lo siamo dimenticato, abbiamo finito per credere che da un lato ci sia la verità e che dall’altro ci sia l’immaginazione, quello che inventiamo – ma non funziona così. Ogni istante delle nostre vite è una mescolanza orrenda, spaventosa e caotica di tutto questo… e ci sono altri elementi ancora che si aggiungono. E la verità, la parte più importante del mio lavoro di scrittura riguarda questi elementi aggiuntivi che né la scienza né la letteratura possono gestire. Non abbiamo un linguaggio, un metodo per avvicinarli. L’incognito assoluto è qualcosa che esiste oltre la scienza, oltre la letteratura, oltre le parole. Ecco qual è il cuore di quello che provo a scrivere. So che è là, da qualche parte. Non posso descriverlo, ma so che c’è.

È da qualche parte, ma è anche dentro di noi?

Dentro e fuori di noi, ma più che altro fuori. Se guardiamo dentro di noi ci troveremo il mondo, il mondo con la M maiuscola. Il mondo è di una stranezza estrema e inconcepibile. Tendiamo a separarcene, ma quando torniamo a guardarlo – e quello è il fulcro di molte delle storie di Quando abbiamo smesso di capire il mondo – all’improvviso ritroviamo quello che pensavamo di aver perso strada facendo. Troviamo cose caotiche, indocili e incomprensibili che superano le capacità delle nostre menti. Siamo abituati a credere che i misteri abitino “fuori” – il mondo era popolato dagli déi, pullulava di spiriti -, ma ora pensiamo che sia tutto nella nostra testa. La verità è una via di mezzo fra questi due estremi e arrivarci è molto difficile.

In Quando abbiamo smesso di capire il mondo, i matematici e i fisici che utilizzi per esplorare questa frontiera si trovano spesso alle prese con un limite espressivo: le loro teorie sembrano difficilmente codificabili. La scoperta “profonda” rende necessari linguaggi nuovi?

No, in realtà. Usano i linguaggi che abbiamo già a disposizione. Le nostre menti funzionano manipolando dei simboli – possono essere parole o può essere la matematica – ma la nostra intelligenza ha a che fare con la manipolazione dei simboli. Certo, è solo una delle porzioni delle nostre menti, la parte con cui siamo in comunicazione e che riusciamo a spiegarci. Ma esistono anche creature come i corvi, che non usano simboli ma sono intelligenti, immagazzinano ricordi, hanno coscienza di sé. C’è una forma di intelligenza che scaturisce dall’attività connettiva dei neuroni – è un’intelligenza molto diversa dall’esperienza “conscia” ed è qualcosa che stiamo iniziando a costruire ora con le nuove tecnologie, come l’IA. L’IA funziona così, è un’intelligenza scorporata e senz’anima.
Insomma, non penso che si tratti della creazione di linguaggi nuovi, non so se esista una via capace di superare la matematica o le parole. Non lo so. Io posso arrivare solo fin lì… e non è che sia andato chissà quanto lontano.
Visto che scrivo, però, sono pienamente conscio – come ogni scrittore – di cosa sono le parole e di cosa possono fare, dell’impatto che producono su di noi. Ma sono anche tragicamente consapevole di quanto poco contino. È l’aspetto più superficiale e meno rilevante di chi siamo. Ci siamo del tutto consegnati alla ragione, al linguaggio, al pensiero – e oggi anche alla frangia più patetica di questo aspetto: l’opinione. Le opinioni sono come il buco del culo, tutti ne hanno una. Il centro di tutto diventa quello, ciascuno si preoccupa unicamente del proprio buco di culo. È incredibile. [ride] Ma le cose che ci interessano davvero, come esseri umani, sono le cose che sentiamo, che intuiamo, che patiamo, le cose che ci travolgono. Quello che cerco di fare nei miei libri, il motivo per cui i miei protagonisti si comportano così, è che sono invasi, posseduti, innamorati… ed è un’esperienza dolorosa.

E leggendo lo si avverte. Non c’è scienziato fra le tue pagine che non attraversi un momento di crisi profonda o che possa dirsi allineato ai ritmi del mondo. Sono ricerche che li assorbono completamente, isolandoli dalla realtà e facendoli sprofondare nell’ossessione.

L’ossessione è una forma d’attenzione potenziata, è l’attenzione che si trasforma in arma. E l’attenzione, per citare Roberto Calasso, è il potere che permette agli dèi di costruire l’universo. È ardore, calore, energia sessuale, oltre che intellettuale. È la mente che costruisce, pensiero dopo pensiero, qualcosa degno di sacrificio. Ecco perché porto i miei personaggi a quegli estremi, perché è lì, quando si patisce questa sorta di possessione, che rinunci a te stesso e che ti esponi al tormento. È il nucleo fondamentale, perché sfugge a ogni controllo ed è in quel momento che le cose nuove vengono messe al mondo. Ho incontrato persone così, parecchie. Ci si aspetta che gli artisti siano ossessivi… e quello che ammiravo negli artisti, crescendo, era proprio questo atteggiamento “religioso”. Ti consegni a qualcosa che è più grande di te e lo fai anche se sai che ti distruggerà. Quello per me era il fulcro della questione. Ci vuole coraggio.

E fede, magari?

No, la fede non basta.

[Siamo seduti sotto a un albero. In questo preciso istante un frutto si stacca da un ramo, chissà dove, e precipita in mezzo a noi sul tavolo. Non posso fare a meno di esclamare FLEABAG!]

Esatto! [ride]

La volpe di Fleabag, se ci pensiamo, è “il segugio dei cieli” – e sarà anche il titolo del mio discorso di accettazione del Premio Malaparte. Il segugio dei cieli è una figura molto importante per me: è Dio che insegue chi più ama, incalzandolo senza tregua. Quella è l’esperienza a cui voglio arrivare. Non sei tu che cerchi qualcosa, è quel qualcosa che insegue te. E le persone che mi interessano sono quelle inseguite dal segugio. La fede non basta. È la morte del pensiero, per me. Non si crede nell’amore, lo si subisce. Se hai fede puoi anche smettere di pensare. Ma il pensiero è doloroso proprio perché serve a dubitare, ti scava dentro come ogni cosa che è davvero importante. Il punto è non essere lasciati in pace, mai. Non siamo esseri intellettivi, siamo senzienti… cioè sentiamo, soffriamo e ogni conoscenza che otteniamo si guadagna con il dolore. Quanto vorrei che non fosse così… [sorride]

Anche il tuo processo di scrittura risponde a questa dinamica? Gli argomenti ti inseguono e ti impongono di trovare risposte? Si scrive per ossessioni?

Certo, non si può scrivere in altro modo. Cioè, dovresti essere capace di perdere momentaneamente la ragione, dovresti riuscire a scrivere senza distruggere chiunque ti circondi, dovresti riuscire a cercare la verità senza perdere te stesso, ma non è possibile… non veramente. Ci sono parti di te che perderai – e dovrai farci i conti. Se vuoi scrivere bene e se il libro è autentico, ti modificherà, se glielo permetterai. Ti mostrerà aspetti orribili di te e ti obbligherà a prenderne atto. Sfogliando quel libro non ti verrà mai in mente di esclamare “Oh, ma è meraviglioso!”… sarà proprio il contrario. La copertina italiana di Maniac mi piace moltissimo, perché esprime esattamente quello che dovremmo scorgere. Dobbiamo vedere l’ombra, questa tenebra che aleggia alle nostre spalle. La scrittura migliore viene dall’ombra e questo spiega perché così tanti miei colleghi sono disperati e finiscono per ammazzarsi.

E cosa succede a chi legge?

Non mi interessa. Voglio dire, i calciatori non prestano la minima attenzione agli spettatori in tribuna. Sono innamorati della palla e non pensano ad altro. Non ci si può concentrare, non si può fare gol altrimenti. Badare al resto non è nemmeno un’opzione. Chiaro, alcuni possono essere gentili con i loro fan e dar corda alle persone che li ammirano… e possono anche essere degli stronzi – entrambe le alternative sono assolutamente legittime, ma sono innamorati del gioco. Io sono innamorato della scrittura. I lettori leggono, ma io sono uno scrittore.

È interessante perché molti lettori cercano l’immedesimazione, invece. Vogliono ritrovarsi nei personaggi e capita che apprezzino di più le storie in cui si riconoscono…

Ma quello non è leggere. Quello è specchiarsi. Dovrebbero guardare la tv. Non parlo di buon cinema, intendo proprio la tv. Quella fa per loro. Perché nemmeno il cinema funziona in quel modo. Un libro non dovrebbe mostrarti chi sei. Dovrebbe mostrarti il mondo.

O quello che per conto tuo non sei capace di vedere.

Assolutamente, nel migliore dei casi. O dovrebbero mostrarti gli aspetti più terrificanti di te. C’è una meravigliosa tradizione di mostri, in letteratura. Uomini mostruosi e donne mostruose. È fondamentale che esistano anche libri scritti da mostri perché l’immagine del mostruoso ci mette di fronte a quello che davvero abbiamo più bisogno di vedere. Dovrebbe essere uno spettacolo difficile da guardare, dovrebbe spaventarci. I libri dovrebbero farci paura.

Pensi che questa ricerca di rassicurazioni e certezze riguardi anche la scienza? Scienza, spiegami il mondo. Dimmi in cosa devo credere e come funzionano le cose.

Non bisogna confondere il pubblico – e il consumo “generalista” della scienza – con la scienza in sé e per sé. La scienza funziona scavando dei buchini minuscoli nelle cose. Gli scienziati sono ossessionati da dettagli infinitesimali. Sono artigiani… anzi, rispetto agli altri esseri umani appartengono proprio a una specie diversa. I veri scienziati sono le persone più strambe che si possano incontrare. Ho un amico ossessionato dall’apparato riproduttivo degli scarafaggi. Ma quella è scienza. Può riguardare un dettaglio simile o l’origine dell’universo. Chiunque possa davvero definirsi scienziato è fin troppo conscio – in senso platonico e socratico – di quello che ancora non comprende, di quello che ancora non sa. E se sa qualcosa si chiederà quanto è approfondita la conoscenza che abbiamo accumulato, quanto ancora possiamo scoprire. È una disposizione estremamente diversa. Il consumo pubblico è religioso, semplicemente. Mostrami come funziona il mondo, giusto? Rassicurami. Va benissimo, anch’io mi sono prefissato di imparare il più possibile sul funzionamento del mondo. Non sto assolutamente deridendo l’impulso di chi vuole imparare qualcosa in più – lo facciamo tutti. Ma quello che mi interessa somiglia a un atto di magia, a un gioco di scatole cinesi: vogliamo afferrare gli aspetti dell’universo che superano la nostra comprensione… ed è quello che ci tiene in vita, che permette a tutto di evolversi. È il caos bizzarro che rende le nostre vite vivibili.

Abbiamo perso la magia? Intendendola come strumento “laterale” che può aiutarci ad allargare la prospettiva e a concepire l’assoluto.

La magia è incasinata e anche molto, molto pericolosa. È sempre stato così. Gli sciamani vivono fuori dalla comunità. Sono emarginati. Puzzano. La società li esclude. Ma il ruolo dello sciamano è proprio quello. Fanno paura, sono ossessionati dal sesso e mangiano i bambini. [ride]. Al giorno d’oggi non c’è spazio per la conoscenza occulta. Le persone vogliono sapere tutto, vogliono che ogni cosa venga loro spiegata, ma la magia non funziona così. Chiunque si avvicini anche solo tangenzialmente alla magia è disposto a mettere in pericolo la propria anima e non penso che in molti lo vogliano fare. Non oggi.

Anche la scrittura può diventare un pericolo per l’anima?

A volte. Voglio dire, dipende dal periodo specifico. Non lo si può fare sempre, altrimenti si finisce per diventare degli idioti pomposi. E so benissimo di cosa sto parlando perché anch’io sono un idiota pomposo. Ma bisognerebbe lasciar filtrare un pezzettino di mondo. Crescendo, si impara a sentirsi coraggiosi quando ci si imbatte in un’idea, si pensa di conoscersi perché sono tante le cose che si apprendono. Uno scrittore pensa anche di saperla più lunga della gente che lo circonda, ci cresci proprio. Leggi tutti i libri possibili e immaginabili… e poi ne leggi degli altri. Pensi di capire benissimo le cose. E poi la vita ti dimostrerà che non è vero. È durissima. Quando l’ego di uno scrittore viene calpestato è un’esperienza davvero lancinante, perché di solito è tutto quello che ha, è l’unica cosa che ha davvero sviluppato. Ha sviluppato il suo ego perché è con quello che si scrive. Non si scrive con chissà che altro, scrivi col tuo ego. Cerchi di lucidarlo per benino, ma quando viene calpestato – e se fai bene il tuo lavoro – corri un grande pericolo. In più, come chiunque, devi evitare l’alcolismo, l’egotismo, il narcisismo. Funziona così per tutti, ma gli scrittori ne sono più consci. Ce l’hai sempre in mente: rovinerò la mia vita se vado avanti così.

Ma si va avanti lo stesso?

Non lo so. Adoro gli scrittori che smettono di scrivere. Ho un giardino anch’io… magari mi dedicherò a quello.

Cosa succede quando scrivi? C’è un processo di ricerca e poi di stesura?

Preferisco non parlarne. Perché una grande componente è un po’ esoterica. Devi chiedere, devi implorare. Il nocciolo sta lì. La ricerca… [ride]… la ricerca è facile, è facilissima. Basta leggere! Bisogna leggere e sottolineare… quanto può essere complicato da fare per chi già legge per il piacere di farlo? Non è difficile. Il difficile sta nel raggiungere la verità della cose, ecco perché sono ossessionato da scrittori come Eliot Weinberger, Juan Forn, Roberto Calasso. Loro capiscono, che è molto diverso dall’accumulare documentazione. Un libro ben documentato può essere del tutto morto, ma cos’è che serve a un libro per essere vivo? Quella sì che è una questione complessa e ogni scrittore deve trovare una risposta, in qualche modo. Il processo, insomma, è caotico, prevede diversi rituali ma la costante è che bisogna sempre chiedere e implorare – in ginocchio, se possibile. [ride]

E Maniac dove ci porterà?

È un libro sull’intelligenza, raccontata attraverso tre storie. La prima è la storia vera di un fisico, Paul Ehrenfest, uno dei migliori amici di Einstein. Era un buon fisico… ma di “fascia media” in Europa, dove a quei tempi venivano svolte le ricerche più brillanti del Ventesimo secolo. Soffriva di depressione melanconica, aveva un figlio piccolo con la sindrome di Down ed era anche un ebreo che vedeva nazisti spuntare da tutte le parti. All’improvviso, sprofondò in una crisi enorme. Sparò a suo figlio e poi si suicidò. Nella parte del libro che è totalmente basata sui fatti, racconto di quella che Ehrenfest definì come “peste matematica”, un tipo preciso di razionalità che stava prendendo vita. Quel genere di razionalità, per me, si esprime pienamente nel vero protagonista del libro, il matematico John von Neumann. Era una specie di “dio infantile”. Per lui ho usato il linguaggio della religione perché sarebbe stato molto difficile descriverlo in un altro modo. Era un computer prima ancora che i computer venissero concepiti. La realtà è che è stato lui a creare il computer moderno. Era una mente di un’acutezza affilatissima. L’elemento che ha preso vita in von Neumann era la logica, il Dio della logica. E racconto la sua storia fino al giorno della sua morte, farneticante, con il cervello divorato dal cancro. Il libro si chiude con le partite disputate tra un’intelligenza artificiale – che all’epoca era la più avanzata che ci fosse – e un campione di go, un autentico artista che credeva nella bellezza come traguardo a cui aspirare. L’intelligenza artificiale lo distrugge, sebbene oggi il nostro problema non sia la distruzione… il problema è la creazione.


Vi rimando al sito Adelphi per appuntamenti e risorse di ulteriore approfondimento.
Il mio post su Quando abbiamo smesso di capire il mondo – che ho linkato anche in cima – è sempre qua.

 

 

Non so se si tratti di una stortura generazionale o probabilmente solo di una difficoltà molto privata e circoscritta ma, arrivata a un’età in cui non ho più motivo di scandalizzarmi se qualcuno mi si rivolge con signora, mi rendo conto di essermi trasformata in una lettrice disabituata alla poesia. Quando la poesia mi “trova” ne rimango affascinata e nutrita, ma si tratta quasi sempre di collisioni fortuite. Recupero con interesse vivissimo il lavoro poetico di autori e autrici che sono solita leggere in prosa o in un universo romanzesco, ma ho quasi sempre il timore di non essere abbastanza *sveglia* per squarciare il velo. Forse mi preoccupo ancora di dover essere interrogata alla seconda ora o di dover elencare a memoria tutte le figure retoriche che riesco a individuare in una strofa. Forse patisco un imprinting scolastico che ben poco ha fatto leva sulla meraviglia e sul potere della parola. O forse mi ritrovo a sgambettare in una bolla in cui ancora resiste il mito della poesia “difficile”, di quest’arte oscura e rarefatta che parla solo a spiriti eletti, alatissimi e immuni dai crucci del quotidiano.
Quante cretinate, possiamo dirlo?
Già. Il perché lo riassume alla perfezione il titolo della nuova collana che dal 21 marzo troveremo in allegato al Corriere della Sera: La poesia è di tutti. E lo scopo dell’impresa – a cui contribuisce anche  l’Università Cattolica – è aiutarci a rammentarlo senza indugi e ipotetici complessi. È un invito gentile che scaccia le sovrastrutture polverose che potremmo aver accumulato strada facendo e che, semplicemente, ci esorta a leggere e a ritrovarci capaci di quella connessione istintiva e consapevole tra pagina e pensiero.

Le voci che man mano incontreremo sono numerose, illustri ed emblematiche, oltre che felicemente discontinue dal punto di vista cronologico e geografico. Insomma, avremo la possibilità di ripassare i “fondamentali” della disciplina poetica di questi ultimi 150 anni, ma il contatto con il presente e i tanti ponti che ci collegano ai nostri ieri saranno presidiati e lasciati risuonare forte e chiaro. Kavafis e Auden si accomoderanno vicino a Ocean Vuong e Anna Achmatova, mentre la curatela resterà saldamente affidata a Daniele Piccini, che ha anche il grande merito d’aver firmato le introduzioni ai volumi – come sono? Accessibili, curiose, “veloci” ma ricche, accoglienti. E le copertine (BELLISSIME, posso dire?) sono state progettate e illustrate dallo studio XxY, che in ambito editoriale ci ha abituati bene e che qua non si smentisce.

Informazioni pratiche? Volentieri.
La poesia è di tutti debutta in edicola il 21/3 con Pablo Neruda. Ogni martedì vi aspetterà un nuovo volume in allegato al Corriere della Sera a 3,90€.

Per un trailer che ci illumini il futuro, ecco qua il piano dell’opera:

1 | Pablo Neruda | 21/03/2023
2 | Wisława Szymborska | 28/03/2023
3 | Costantino Kavafis | 04/04/2023
4 | Alda Merini | 11/04/2023
5 | Eugenio Montale |18/04/2023
6 | Charles Baudelaire | 25/04/2023
7 | Jericho Brown | 02/05/2023
8 | Dino Campana | 09/05/2023
9 | Emily Dickinson | 16/05/2023
10 | Ocean Vuong | 23/05/2023
11 | Federico García Lorca | 30/05/2023
12 | Wystan Hugh Auden | 06/06/2023
13 | Pedro Salinas | 13/06/2023
14 | Anna Andreevna Achmatova | 20/06/2023
15 | Jean-Nicolas-Arthur Rimbaud | 27/06/2023
16 | Fernando Pessoa | 04/07/2023
17 | Umberto Saba | 11/07/2023
18 | Boris Pasternak | 18/07/2023
19 | Vittorio Sereni | 25/07/2023
20 | Novalis | 01/08/2023
21 | Ghiannis Ritsos | 08/08/2023
22 | Rainer Maria Rilke | 15/08/2023
23 | Giorgio Caproni | 22/08/2023
24 | Shelley, Keats, Byron | 29/08/2023
25 | Mario Luzi | 05/09/2023

Serve un sito? Recatevi qua.
E felice costruzione di una bibliotechina poetica a noi, in santa pace e con i migliori slanci del nostro cuore. È sempre stato il momento giusto, ma forse ci preoccupavamo troppo per accorgercene. La poesia è di tutti… come dovrebbe esserlo la libertà – di leggere, di immaginare, di esplorare e di spostare il nostro orizzonte un po’ più in là, quando ne sentiamo il bisogno.

Libri che mi hanno rovinato la vita è uscito questa settimana e, su Twitter, è partito un piccolo esperimento collettivo di raccolta dei libri che hanno in qualche modo rovinato anche le nostre, di vite. Così a occhio, son venuti fuori molti libri che classificheremmo come “tristi”. Anch’io, d’istinto, ho risposto con dei libri zavorrati da una potente mestizia di fondo o con dei romanzi che vanno a finire male. Che ne so, Quel che resta del giorno, Non lasciarmi, La strada, Il transito di Venere. Qua e là è spuntata spesso anche Hanya Yanagihara, nostra signora imperitura del trauma e del campare male.
Leggendo effettivamente quel che scrive Daria Bignardi, però, mi è sembrato di tornare alle superiori, alle tracce dei compiti in classe di italiano che sono riuscita ad assecondare solo parzialmente. Poi non è detto che uscissero dei brutti temi, ma di sicuro non erano dei temi granché centrati. In quelle circostanze lì me la cavavo anche bene, perché la prendevo talmente larga e buttavo talmente tanta roba nel calderone che alla fine davo comunque l’impressione di aver capito qualcosa – di preciso non si sa cosa, ma almeno facevo volume.

Ecco, Bignardi rompe (non senza allegria) il solido nesso causale, forse inconscio e sicuramente assai condivisibile, tra libro triste e libro che t’azzoppa o ti segna eternamente. Ci fa l’immensa cortesia di complicare le cose, di esplorare l’intersezione che si crea tra chi siamo in un determinato momento nel tempo e cosa leggiamo in quel momento nel tempo. Ci ricorda che molto spesso sono gli incontri accidentali – con un libro pescato per caso e senza programmaticità dallo scaffale di una sorella, ad esempio – a contenere un vasto potenziale rivelatorio. Ci sono romanzi che diventano destino, che scatenano quel riconoscimento che non sta solo nello scovare un personaggio a cui più o meno stanno capitando le nostre stesse brutture o gioie. Riconoscersi aiuta a partecipare? Penso di sì, ma anche quello dipende da chi siamo quando leggiamo. A rovinarci la vita può essere anche un romanzo che ci mostra un’allegria che sentiamo di non poter sprigionare o un personaggio che riesce a fare tutto quello che a noi costa una fatica strutturale. Ci rovinano la vita sia i legami spezzati che i cerchi che si chiudono fin troppo bene, la gente interessante e misteriosa che ci ricorda la nostra scarsa originalità, chi parte in smaccato vantaggio o chi ci fa venire il nervoso perché gliene capitano troppe. Quel che ci fa male non ci fa male in uno spazio vuoto, atterra col suo bagaglio di potenziali conseguenze in un territorio che possiede già un suo paesaggio di baratri terrificanti, radure idilliache e torrentelli vivaci. E come cambiano i paesaggi, nel corso del tempo cambiamo anche noi. Libri che mi hanno rovinato la vita, rende giustizia a questo processo di erosione e rinnovamento, collocando quel che leggiamo nel nostro tempo. È un po’ come sfogliare un album di ricordi, riconoscendo chi eravamo alla luce di quel che sappiamo oggi, facendoci aiutare dai libri che per una ragione o per l’altra sono stati rilevanti – e spesso motore di ripensamento, ombra e ferite.

Non so che rapporto abbiate voi con le vostre versioni passate. Io sono poco indulgente. Mi perdono poco e non mi osservo con grande tenerezza. Potrei cambiare idea, mappandomi coi miei libri importanti? Potrei scoprire che in fondo non ero così male? Intravedere progressi? Quel che ho trovato di bello in quest’esplorazione letteraria e interiore è anche l’allontanamento dalla pretesa che la lettura debba per forza insegnare qualcosa di utile e spendibile, o impartire una lezione che possa migliorarci. Bignardi ricorda chi è stata e dove è approdata principalmente attraverso tre grandi “demoni” letterari – Djuna Barnes, Sologub e Nietzsche -, concedendosi il lusso del mutamento, dalla contemplazione di uno scoglio superato. Mi pare gentile con le sue versioni passate… e non perché il tempo abbia cancellato i dolori, ma perché col tempo è possibile imparare ad addomesticarli, a vederceli addosso con franchezza, ironia e indulgenza. Che grande regalo sono i libri che ci rivelano accidentalmente qualcosa di noi, ma che regalo ancora più grande è la possibilità di girare pagina, cambiare forma, cambiare idea.

 

Con Mendelsohn non sono andata granché in ordine cronologico – ho cominciato dal più recente Tre anelli -, ma credo mi perdonerà. Nemmeno Omero era un grande fan delle narrazioni lineari, se ben vogliamo mettere a frutto tanto del contenuto assimilato con questa parabola autobiografico-letteraria che esamina un testo fondativo della tradizione occidentale per risalire al nucleo essenziale delle nostre relazioni.

Da dove si parte, con Un’Odissea – anche questo uscito per Einaudi nella traduzione di Noman Gobetti?
Si comincia con un classicista che ospita il padre ottantenne – un signore all’apparenza schivo e riservato, anche in famiglia – al suo seminario universitario sull’Odissea. Lezione dopo lezione, per un semestre intero Mendelsohn-figlio racconta Omero ai suoi studenti e, nell’approfondire le peripezie di Ulisse – accogliendo anche le numerose osservazioni del padre, più loquace ma non meno intransigente del previsto – si imbarca a sua volta in un viaggio di conoscenza, una rotta parallela che per la prima volta gli offre un punto di vista inesplorato su quel genitore così amante dell’esatto, delle soluzioni certe (da buon matematico) e dal “farcela” con le proprie forze. Mica tutti possono contare sull’aiuto e sulla sollecitudine di Atena, insomma. Anzi, farsi aiutare di continuo da una dèa è indegno un eroe vero. DANIEL MA CHE RAZZA DI EROE È ODISSEO!

Al termine del seminario – e sull’onda di questa riscoperta reciproca -, padre e figlio partono insieme per una crociera “a tema” nel Mediterraneo, seguendo un percorso che in teoria dovrebbe ripercorrere le tappe del lungo viaggio di Ulisse da Troia a Itaca. Sì, sembra molto trash, ma per una volta i legittimi sospetti iniziali si dimostreranno infondati. Navigazione e seminario si intrecciano a pluridecennali ricordi di famiglia e al grande enigma di cosa davvero sia stata la vita interiore di Mendelsohn-padre, sia come genitore che come individuo “indipendente”.
Conosciamo mai davvero i nostri genitori? O quel che ci è dato sapere è solo l’impronta che su di noi lascia la porzione di cammino che hanno trascorso con noi? La memoria che raccogliamo strada facendo – quello che vediamo “da figli” – è tutto quello che c’è da sapere? Com’erano prima di noi? Cosa sono diventati grazie o malgrado noi?
Ulisse, gran mentitore e maestro di stratagemmi e travestimenti, è forse il personaggio perfetto per esplorare i flutti dolci e mutevoli del ricordi – la sua, in effetti, è una storia di ricongiungimento e dei sacrifici che si fanno per essere finalmente riconosciuti.

Ogni famiglia ha la sua mitologia ma, come per tutte le storie che diventano patrimonio comune, è legittimo domandarsi da quale radice provengano. Il fascino di una storia – che parli di antiche navigazioni o della gioventù dei nostri genitori – sta anche nell’effetto che ci fa, nel constatare come le chiavi di lettura che troviamo parlino di noi e del nostro modo di intendere il mondo. Una delle domande definitive, per Mendelsohn, quella a cui si approda dopo un lungo navigare, è cosa ne sarà di quel mondo una volta scomparso il padre. Nell’anno emblematico che ricostruisce in questo libro si riannodano i tanti fili rimasti sciolti e misteriosi, si conclude la parabola di un eroe cocciuto e comincia quella di un figlio che, seppur adulto, si dovrà confortare con un’assenza mai esperita, unica nel suo genere.

È un libro per chi ha voglia di intripparsi con l’Odissea, certo, ma è anche un esperimento che ne riprende la struttura condensandone i temi “relazionali”, quelli che superano lo scorrere del tempo e possono parlarci in ogni epoca. Dovere e fortuna, ambizione e avversità, fedeltà e tradimento, padri e figli, slanci e paura, vittorie e sconfitte. Da sempre, ci raccontiamo storie per spiegarci chi siamo. E, quando arriviamo a una conclusione potenzialmente soddisfacente, scopriamo che il viaggio ci ha cambiati… per capire come, non ci resta che partire per una nuova avventura. A Itaca si arriva mai? Forse no.

 

I libri sono una delle possibili cartografie che può assumere il nostro paesaggio mentale. Ci sono lettori, come Roberto Calasso, che negli anni con i libri hanno edificato galassie tentacolari e coltissime, invitandoci anche ad esplorarle. Il catalogo Adelphi è lo specchio di un’erudizione curiosa e profonda, che ritroviamo in questo testo breve che indaga il nostro rapporto con il tentativo impossibile di portare ordine in una materia – quella della lettura – strutturalmente propensa a collegare e intrecciare, spalancando di continuo nuove strade.

Qui troverete quattro temi principali, tutti sviluppati come narrazione autobiografica e riflessione che sfiora la sistematizzazione storica.
Da dove spuntano le recensioni?
Da dove vengono le riviste letterarie e come hanno mosso i primi passi?
Qual è la funzione “vera” di una biblioteca e come sarebbe più avventuroso e ricco organizzarla?
Come dovremmo trovare disposti i libri in vendita?

Per chi ama i libri che parlano di libri – ma anche per chi ama farsi raccontare “la cultura” da un personaggio che sulla cultura in cui siamo immersi ha lasciato un’impronta indimenticabile e destinata a durare – Come ordinare una biblioteca è un testo snello che con molta meno spocchia di quella che l’autore si potrebbe legittimamente permettere riflette sulle fisime che affliggono e benedicono ogni lettore, fornendoci una sorta di “origin story” collettiva. Perché anche noi, con i nostri tre scaffalini, siamo in viaggio nel nostro territorio di parole in evoluzione… e una bussola (molto meno dogmatica e più giocosa di quanto potremmo sospettare) può tornarci senz’altro utile.

Sentimenti burrascosi! Notturni! Letteratura! Rovine! Dirupi! Sogni e turbamenti!
No, temo di non essere riuscita a riassumere in maniera esauriente le molteplici e fascinose sfaccettature del Romanticismo, corrente “multidisciplinare” che tra Settecento e Ottocento ha attraversato l’Europa modificando in maniera radicale la nostra sensibilità estetica, filosofica, musicale e artistica. Poco male, però, perché fino al 17 marzo potrete beneficiare di una mostra dal vasto potenziale esplicativo e dal magnetismo indiscusso e, magari, dilettarvi anche con un piccolo tour. Milano, infatti, è stata una delle grandi capitali romantiche del continente e conserva le tracce di questo passato, valorizzandone l’eredità tappa dopo tappa.
Ma procediamo con ordine.
A San Valentino non sono stata fortunatissima sul fronte delle rose rosse o delle scatole di cioccolatini a forma di cuore – e, vi dirò, va anche bene così – ma la bellezza non è di certo mancata. L’itinerario è ricchissimo, ma agevolmente replicabile.

Tappa uno!
Romanticismo alle Gallerie d’Italia
La mostra, con le sue 200 e passa opere esposte, riesce a fare contemporaneamente due cose molto pregevoli: affrontare i temi principali del Romanticismo sviscerandone le manifestazioni più emblematiche e i temi ricorrenti, ma anche mettere a fuoco le ricchissime peculiarità milanesi, restituendoci il dialogo costante tra città, arti (non solo figurative) e identità storica. Insomma, troveremo i rimescolamenti interiori e gli orizzonti sterminati di Caspar David Friedrich, ma anche Francesco Hayez che ritrae Manzoni o affida a una fanciulla a seno scoperto un messaggio politico di libertà, celebrando i tumulti cittadini delle Cinque Giornate. Il risultato è un percorso molto ben costruito tra concetti che trovano terreno comune in un’epoca dalle caratteristiche condivise – indipendentemente dal luogo – e declinazioni cittadine e nazionali. Bonus non trascurabile: lo spazio espositivo è magnifico.

Tappa due!
Romanticismo al Museo Poldi Pezzoli
La mostra si sviluppa su due sedi. Il “grosso” è alle Gallerie d’Italia, ma la visita prosegue al Poldi Pezzoli – dopo una passeggiatina di circa due minuti. Il Poldi Pezzoli è uno dei miei posti preferiti a Milano e ospita spessissimo mostre piccole ma estremamente curate, oltre ad essere un luogo valentissimo per conto suo – c’è una collezione permanente e si può andare a zonzo per le stanze, invidiando molto il gusto eclettico di messer Gian Giacomo. COMUNQUE. Perché proprio il Poldi Pezzoli? Perché la famiglia Poldi Pezzoli non si risparmiò durante i moti rivoluzionari del 1848 e la dimora rappresentò uno dei punti nevralgici dell’attività culturale e artistica della Milano romantica. Allargate il giro e non perdetevi Raffaello che abbraccia la Fornarina o le “istantanee” della città in subbuglio.

Tappa tre!
La casa del Manzoni
Poco incline a farsi ritrarre – anche se per Hayez si sentì di fare un’eccezione -, Alessandro Manzoni era ritenuto schivo e assai riservato. In questa casa amatissima, però, visse e morì con la sua grande anche se non fortunatissima famiglia, accogliendo con autentico affetto amici, intellettuali e personalità di spicco del suo tempo – E GUARDA UN PO’ SIAMO PROPRIO IN PIENO PERIODO ROMANTICO. Mantenere la dimora non fu una passeggiata: nonostante il successo nazionale e le traduzioni estere dei Promessi sposi, infatti, all’epoca non esisteva il diritto d’autore e Manzoni, di fatto, passò decenni a combattere la pirateria, impegnandosi anche a livello pubblico e politico per istituire una norma che tutelasse le opere letterarie e i loro creatori. Ma pensa un po’.
Tra prime edizioni, gallerie di ritratti e approfondimenti sull’intricata acconciatura di Lucia Mondella, due ambienti della casa – quelli conservati proprio come Manzoni li aveva lasciati – valgono il giro: la camera da letto in cui lo scrittore si ritirò dopo la morte della seconda moglie – in un cassetto ci sono ancora le pantofole – e lo studio al piano terra, completo di tabacchiera – da cui Manzoni non si separava mai – e vista sul giardino.

Tappa quattro!
Il Teatro alla Scala
Un tour “essenziale” della Milano romantica non può non comprendere il Teatro alla Scala. Perché è qui che il bel mondo si incontrava – anzi, che il mondo in generale confluiva per godere di quel che accadeva in scena ma, anche, per rispondere a pure esigenze di socialità, affari, divertimento, costume e spasso. Opere, concerti e balletti a parte, alla Scala si può entrare per visitare il museo, accedere ai palchi e sbirciare da lontano i lavori in corso.

Per chi volesse approfondire e/o espandere il percorso partito dalle Gallerie d’Italia, il Poldi Pezzoli ha confezionato un Taccuino romantico che contiene 25 luoghi – tra Milano e la Lombardia – da visitare per crogiolarsi ulteriormente nello spirito dell’epoca. Si può scaricare quiE sono giri, ovviamente, organizzabili in piena autonomia e libertà. Con la pioggia e col sole. A piedi o in carrozza. Quando e come vi pare. Insomma, una bonus-track di tutto rispetto.

Buona mostra e buone esplorazioni!

Tra le cose più belle che possono capitarci in assoluto nella vita ci sono sicuramente i libri e i viaggi. Questi due indiscutibili doni del cielo possono di certo continuare ad esistere senza mai incontrarsi o, magari, trovare un punto d’intersezione in un bel pomeriggio estivo, quando vi piazzate a leggere sotto l’ombrellone. Si può fare di più, però. Si può viaggiare insieme ai libri. O sulle tracce dei libri. O seguendo le orme degli autori che quei libri li hanno scritti. Si possono costruire itinerari letterari per approfondire un determinato angolino del globo, partendo in compagnia e decidendo di condividere un po’ di strada con chi, come noi, viaggia ogni volta che apre un libro e, di tanto in tanto, ama anche viaggiare facendo concretamente i bagagli.
Marta Ciccolarila McMusa per tutti – è un personaggio dal multiforme e vasto talento. Giornalista, blogger, animatrice di esaurientissimi corsi di Letteratura Americana, Marta organizza dal 2014 dei MIRABILI viaggi on the road negli Stati Uniti, tutti caratterizzati da un preciso tema libresco. Visto che l’idea è nobilissima e variamente meravigliosa, ho deciso di farle qualche domanda. Qui trovate le nostre chiacchiere e, per approfondire (e magari prenotarvi un’avventura), ecco qua il campo-base dei suoi Book Riders.

Marta, premettendo che partirei domani per uno dei tuoi tour, come diamine sei finita a organizzare viaggi negli Stati Uniti per appassionati di letteratura americana? Ammetterai che non è unoccupazione in cui ci imbattiamo frequentemente… 

No, in effetti no! Ma a me piace così tanto, e sento che mi calza proprio a pennello! Ho avuto un’illuminazione dopo un lungo viaggio negli States nel 2013: sono stata ospite di diverse famiglie nel Central Illinois per uno scambio professionale e poi ho proseguito per il viaggio della vita, cinque settimane da sola sulla West Coast, da nord a sud, da Seattle a San Diego. Ero appassionata (e grande studiosa) di letteratura americana da anni, ma fu durante quel viaggio (ore e ore on the road) che realizzai: sì, ma le persone devono sapere, devono conoscere questa America! Remota, sorprendente, diversa da quello che noi pensiamo di sapere.

Ho iniziato aprendo il blog e mettendomi semplicemente a raccontare; poi ho proseguito con i corsi, viaggi immaginari stato per stato nella letteratura americana, rivolti a un pubblico di lettori curiosi. Poi ho conosciuto Xplore, tour operator torinese specializzato in viaggi americani. Li ho conosciuti, li ho sentiti affini e scatenati come me e ho detto: ragazzi, io voglio trasformare i miei viaggi letterari in viaggi veri. E così, a un tavolo di un bar assolato nel centro di Torino, sono nati i Book Riders! 

Arriva prima linnamoramento letterario per un preciso luogo geografico o è il fascino di un posto che ti fa venire voglia di approfondire e di leggere? 

Quando ero piccola mio padre mi portò a fare un viaggio in Svizzera, Austria e Germania sulle tracce dei suoi pensatori guida: Freud, Jung, Herman Hesse, Thomas Mann. Per una magia che oggi ricordo con estremo affetto riuscimmo a entrare a casa di Jung sul lago di Zurigo, conoscemmo la nipote, girammo per le quelle stanze circolari che mio padre aveva solo osato sognare durante i suoi studi. Ecco, io credo che sia nato tutto lì, in quella magia.

Ho iniziato a pensare alla letteratura come a un mondo in cui si può entrare e quando ho iniziato a viaggiare in America l’ho fatto tenendo sempre a mente i racconti che me l’avevano fatta amare sin dai tempi della scuola. Adesso che il progetto è avviato posso dirti, però, che arriva prima l’innamoramento letterario. Un innamoramento che può moltiplicarsi dopo che quel posto l’ho visitato per davvero. Il luogo può farmi venire voglia di approfondire, lo guardo con gli occhi della guida letteraria, cerco di capire quali storie potrebbero sorprendere i miei compagni di viaggio, quali dettagli potrebbero amare. Il viaggio in Texas, ad esempio, mi ha fatto venire una voglia di leggere matta e irrefrenabile, sia prima di andarci che dopo (credo si noti, non parlo d’altro da mesi!).

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Ogni destinazione ha un tema. La California del noir, il “wild wild Texas, la Louisiana magica. Come nascono gli itinerari? Ti armi di piletta di libri e di mappa dello stato e vai in cerca di tutti quei luoghi letterari che i tuoi Bookriders potranno vedere sul serio o si tratta di viaggi più “sentimentali?

La prima, condita di qualche tocco strategico. Ti faccio entrare proprio dentro il mio lavoro: penso a uno stato, mettiamo appunto il Texas. Faccio una lista di libri letti e non letti. Penso a cosa del Texas mi piacerebbe evidenziare e conoscere, sia attraverso quei libri che sul posto. Vado in Texas e faccio un viaggio di esplorazione (ecco, premessa fondamentale: non porto mai i Book Riders in posti che non abbia già esplorato da sola o con la mia fida compagna di viaggi, Valeria). In Texas aggiungo o tolgo da quella lista altri libri, scopro un sacco di cose nuove, leggo e ascolto e, sulla base delle mie intuizioni in loco e di quello che ritengo più efficace per far appassionare i Book Riders, raggruppo libri, scrittori, articoli, immagini in un unico tema. Ci sono stati americani, come ad esempio la California, in cui il tema diventa fondamentale: troppa letteratura, non avrebbe senso includere tutto incondizionatamente, è bene trovare un percorso che restituisca più di altri l’anima, l’essenza di quelle zone.

Se poi la domanda era: ma i luoghi letterari (magici, selvaggi, noir) esistono tutti per davvero? allora la risposta non può che essere: certo!

Ho letto il decalogo del Bookrider perfetto. E oltre a pensare che hai fatto benissimo a stilarlo, mi sono anche molto divertita. E vedendo i video dei vostri viaggi passati mi pare anche che funzioni. Cioè, i gruppi mi sono sembrati affiatatissimi! Quant’è importante il lavoro sulla “filosofia di viaggio, per un progetto come il tuo?

Mi fa un gran piacere che tu abbia notato questa cosa, sai? È la parte del progetto su cui lavoro di più ma è forse quella che risulta meno visibile. Sì, esatto, scegliere le letture, gli autori guida, le tappe del tour è un lavoro meno complesso rispetto alla cura dello spirito di gruppo. A me preme che i Book Riders facciano esperienza dell’America a tutto tondo, che riescano ad apprezzare l’autenticità di un desolato paesino di provincia così come di uno scintillante quartiere di Los Angeles, di un motel abitato dalla peggio gioventù così come della frontiera con il Messico. Se vengono meno la curiosità, lo spirito di adattamento, la flessibilità, l’apertura mentale allora viene a mancare tutto: il mio lavoro è quello di inserire ogni cosa (luoghi, parole, persone) in un unico racconto, di rendere ogni dettaglio sorprendente e interessante, di prepararli a quell’autenticità in modo che la possano apprezzare. Molte delle persone che vengono in viaggio con me hanno già frequentato i miei corsi in Italia, quindi sono già dentro lo “spirito McMusa”: profondo ma pop e informale. In viaggio si va ancora più a fondo, discutiamo, ridiamo, ci interroghiamo, leggiamo, parliamo con le persone del posto.. poi certo, più loro diventano curiosi, più è difficile gestire le loro domande.. ho una nota aperta sull’iPhone intitolata “Le domande dei Book Riders”: dovreste leggerle, alcune sono assurde! “Marta, perché ci sono così tanti pick-up rossi in questo parcheggio?” Ragazzi, NON LO SO.

So che non è riassumibile in due parole, ma proviamo. Com’è la giornata tipo di un Bookrider che viaggia con te?

Sveglia prestino, ritrovo verso le 9. Se l’hotel offre la colazione bene, altrimenti dedichiamo al breakfast la prima parte della giornata. E con breakfast intendo: bacon, uova, pancake, toast, patate, avocado e tutto quello che può servire per affrontare una giornata piena on the road. Partiamo, tutti dentro il nostro van personalizzato e via verso la prima tappa! Alcune giornate sono più rurali, altre più urbane. Ognuna prevede da uno a tre momenti letterari: i Book Riders si radunano intorno a me e io leggo o racconto una storia relativa al posto in cui ci troviamo. Possiamo essere seduti su un molo sul Rio Grande, nel giardino di casa di Wallace, in un’aula universitaria, sullo stesso van (in certe periferie di Chicago, ad esempio, è meglio non scendere, anche se è fondamentale vederle), nel museo del rock di Seattle. Gli spostamenti da un paesino all’altro portano via parecchie ore e in quelle ore il protagonista assoluto è il finestrino. E anche la musica! L’America vera si scopre on the road! Di solito si arriva a destinazione intorno alle 18, breve momento di riposo e poi cena molto presto, intorno alle 19 (e in tantissimi posti è già tardi, le cucine chiudono alle 20). Chi ce la fa va a bere qualcosa più tardi, chi è stanco rientra in hotel. Per fortuna i dettagli tecnici (la guida del van, la scelta dei ristoranti, la relazione con gli alberghi, la prenotazione dei voli) è a cura di Claudio e Federico di Xplore: il primo accompagna i Book Riders in tutti i viaggi nuovi, il secondo li coordina tutti da Torino. 

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Un episodio particolarmente favoloso che ti ha fatto pensare “mamma mia, voglio continuare a fare questi tour per leternità”.

Lo penso spesso, sai? Mi emoziono moltissimo in viaggio e quell’emozione è un gran motore. Però l’episodio con la E maiuscola è stato l’incontro con Tess Gallagher, la moglie di Raymond Carver, sulla tomba del marito il giorno del compleanno di lui. 25 maggio 2016. È stato un regalo del destino! Noi avevamo in programma una giornata emotivamente niente male: visita mattutina ad Aberdeeen, paese natale di Kurt Cobain, e poi su verso Port Angeles, casa di Tess e Ray durante i loro ultimi dieci anni felici insieme nonché avamposto magnifico sul Pacifico dove il grande scrittore è sepolto. Quel mattino mi sveglio, guardo Facebook e scopro che è il compleanno di Carver! Mi viene un colpo, penso “va a finire che ci imbattiamo in qualche commemorazione”. E così succede, con tempi e modalità che solo un raffinato deus ex machina poteva aver messo in atto: arriviamo al cimitero dopo soste impreviste, ritardi e deviazioni; vediamo un gruppo di persone radunate vicino a una panca e una lapide nere; io faccio la maestrina e dico ai Book Riders di comportarsi bene perché quelli probabilmente stanno facendo un funerale ma non finisco neanche la frase perché vedo lei e mi pietrifico. “Cazzo, ragazzi. Ma quella è Tess Gallagher!” E da lì comincia un’ora di abbracci, lacrime, poesie lette nel vento del Pacifico, torte cucinate e mangiate in suo onore, batticuore e incredulità. C’è un video anche, che testimonia la mia e la nostra emozione: mi chiesero di leggere una poesia in italiano, e io lessi Per Tess. Lì ho proprio pensato: voglio continuare a inseguire questi momenti per sempre. Me lo sta dicendo il fato.

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E una disavventura assurda, invece?

Chicago. Primo tour, prima sera. Per iniziare col botto! Andiamo a mangiare in un ristorante vicino al locale di Al Capone direttamente dopo l’arrivo. Parcheggiamo il furgone in un parking lot abbastanza vuoto e trascorriamo spensierati un’oretta a tavola. Quando torniamo nel parcheggio il furgone non c’è più! Sparito, andato. Panico. L’avevano rimosso. Tutt’altro tipo di incredulità questa! Poi l’abbiamo ritrovato e il viaggio non ha più subito sparizioni misteriose, ma ci siamo detti che non saremmo mai più andati a mangiare fuori la sera dell’arrivo: il jet-lag non ci aveva fatto vedere il cartello NO PARKING.

So che sei al lavoro sulla prossima tappa. Quale sarà e come sei messa con i preparativi?

Nei canonici periodi di vacanza ripropongo i vecchi viaggi in versione mini: stesso tour, gruppo più piccolo, solo io come unica accompagnatrice. Quest’estate porterò due gruppi di mini Book Riders nel Pacific Northwest, l’angolo di America tra Seattle e Portland, sotto il Canada. Ma la vera novità che annuncio a te e ai tuoi lettori in esclusiva è che, visto che quest’anno ricorre il decennale della morte di David Foster Wallace, a metà settembre vorrei portare un gruppo di appassionati a conoscere i suoi luoghi dell’Illinois e i suoi amici dell’università di Bloomington, dove lui insegnò per dieci felici anni. È una notizia fresca fresca!

Visto che i pazientissimi lettori di Tegamini sono abituati a ricevere consigli libreschi – più o meno riusciti -, cosa stai leggendo ora?

Leggo sempre tanti libri insieme quindi no panic: La straordinaria famiglia Telemachus, un romanzo di Daryl Gregory con nonni nipoti e genitori di Chicago affetti da poteri magici a cui le cose a un certo punto cominciano ad andare male; Lospite donore di Joy Williams, sono 46 racconti, me ne gusto uno ogni tanto; Loitering di Charles D’Ambrosio, raccolta di non fiction utile per il viaggio di quest’estate e, tra lavoro e passione, In a Narrow Grave, saggi sul Texas scritti dal più grande scrittore texano vivente, Larry McMurtry.

E i tuoi pilastri irrinunciabili, sempre rimanendo sulla narrativa americana?

Cormac McCarthy e Don DeLillo, i maestri a cui mi inchino. Joan Didion e Bret Easton Ellis, i californiani del mio cuore. Raymond Carver, lo scrittore che tutti amano per i racconti ma che a me ha fatto scoprire la poesia. Patti Smith e Sam Shepard, mi emoziono solo a scrivere i loro nomi.

Concluderò con una domanda di raro spessore. Quanti libri trasporta in valigia il Bookrider medio?

Macché, loro ne porteranno uno o due al massimo! Poi hanno gli ebook sul tablet e il libro di viaggio che gli faccio io (una raccolta di articoli, racconti, foto e approfondimenti vari in pdf). Quella che ha un lato di valigia sempre pieno di libri sono io! Ma del resto, le foto con il Kindle in mano mica sarebbero la stessa cosa!

*

[Foto di Elena Datrino]

Per addentrarvi meglio nel McMusa-mondo, ecco qua il suo sito.

Partirò con un commento che rallegrerà molto l’editore.
Io, di base, non sono una “lettrice Garzanti” – se con “Garzanti” intendiamo quel che ho sempre inteso io fino a questo momento. Per farla breve, non sono un’annusatrice di foglie di limone, il massiccio utilizzo di vegetazione in copertina mi fa sfasare, odio le fascette e ogni titolo composto da più di cinque parole tende a insospettirmi.
La buona notizia, però, è che il catalogo Garzanti non offre solo romanticismo a sfondo botanico-olfattivo, ma ci assiste valorosamente anche sul fronte letterario. Ed è una scoperta magnifica, che devo a un’autrice giovanissima (già finita nella lista dei migliori scrittori under40 di Granta, che è un traguardo di una certa rilevanza) e al suo esordio, contesissimo in tutto il mondo e pagato negli Stati Uniti con una bella milionata di dollari. Buon per te e per i tuoi ventisette anni, Yaa Gyasi. E buon per noi, che abbiamo un romanzo importante da leggere.

gyasi tegamini

Non dimenticare chi sei è un libro ambizioso, che racconta sette generazioni di uomini e donne accomunati da un’unica matriarca ma separati dal destino – quasi mai clemente. Il grande spartiacque è l’arrivo dei bianchi in Ghana – anzi, in Costa d’Oro – agli albori della tratta degli schiavi. Dal castello di Cape Coast, una delle fortezze da cui partivano le navi cariche di prigionieri africani da vendere oltreoceano, all’America dei nostri giorni, Gyasi ricostruisce la personalissima saga di una famiglia allargata e dispersa, alla ricerca della propria identità in un mondo che si riconfigura per istituzionalizzare il razzismo e legittimare il possesso e lo sfruttamento di un altro essere umano.
Dalle lotte tribali all’eroina che stravolge Harlem negli anni Sessanta, dalle piantagioni di cotone alle miniere di carbone, dal palazzo reale degli Ashanti ai jazz-club di New York, Gyasi ci accompagna in un viaggio lunghissimo, incaricando i suoi personaggi – uno diverso per ogni capitolo – di farsi portavoce di una storia gigantesca e di una “questione” ancora irrisolta. Il risultato è un romanzo epico ma personale, un’indagine importante alle radici di un problema che continua ad accompagnarci, nostro malgrado.
Che brava, perbacco.
E che bello trovare una Gyasi in quel di Garzanti.
Evviva!