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Ma noi, di preciso, che cosa ci facciamo qua [“qua” = uno qualsiasi dei tanti spazi digitali che frequentiamo]? Cosa cerchiamo? Come ci percepiamo – AKA ci sentiamo più “pubblico” o più “produttori” di contenuti? E ha ancora senso fare questa distinzione, segmentando magari anche i nostri consumi per cluster anagrafici? Il “nuovo” è in realtà solo roba vecchia che riappare in un posto diverso, teoricamente incontaminato? Ci siamo già inventati tutto l’inventabile? Quanto costa l’intrattenimento, sia in termini monetari che di libertà personale? Quali sono i nuovi cicli di vita della fama – ed è legittimo pensare che sia diventata molto più effimera e distruttiva? Cosa mai potrà saperne un algoritmo di quello che ci piace davvero? Perché dovrei guardare della gente che dorme? Perché dovrei investire i miei soldi per svegliare con violenza una persona che dorme? Da dove arriva questo assoluto timore del vuoto? “Io? Non lo farei mai. Ma nemmeno per tutto l’oro del mondo, guarda!”… e se te lo offrissero, tutto l’oro del mondo?

Animato da un interesse antropologico che a tratti lascia trasparire un “vi prego, fatemi scendere”, in Sei vecchio – in libreria per Nottetempo – Vincenzo Marino mappa alcuni fenomeni salienti del nostro abitare i posti digitali che abitiamo (con crescente vena polemica, sconfinati divertimenti, varie sindromi di Stoccolma, fatica e tragicomica rassegnazione) concentrandosi in maniera prevalente sull’ultima generazione entrata nei radar del sentire globale – a me questa cosa delle generazioni solletica sempre molto, anche perché cominciamo a occuparci ossessivamente di un dato segmento quando raggiunge un valore economico (cioè quando ha dei soldi, magari anche pochissimi, da spendere).
Insomma, che fa online la Generazione Z? Noialtri più “grandi” siamo finalmente ascrivibili tra i vecchi e possiamo cedere alle nuove leve l’ambito ruolo di cavie da laboratorio da dissezionare? Siamo autorizzati a partecipare anche ai fenomeni che anagraficamente non dovrebbero competerci più o che non sono nati per soddisfare il nostro “target”?

Dagli streamer che passano in diretta giorni e giorni al pubblico che paga per aggiungere minutaggio a queste maratone, dal terrore dell’irrilevanza a un’onnipresenza svuotata di motivazione o messaggio, dai salumieri napoletani ai profili selfhelpistici che inneggiano al successo duramente conquistato con una gagliarda forza di volontà – o all’ossessione per l’esteriorità mascherata da cura maniacale per il proprio benessere interiore -, Marino ci offre una carrellata di istantanee significative delle tendenze emergenti dei mondi digitali, dissolvendo il confine tra utenti attivi e passivi e tra evento “biografico” e potenziale contenuto.
È una panoramica che credo assolva più efficacemente al compito di dirci quel che c’è, più che scavare nei perché o nel cercare di immaginare una traiettoria futura. Se ne esce frastornati, legittimamente instupiditi dal rumore di fondo generato dall’immane accumulazione di stimoli e disperata ricerca di un guizzo di stupore, che molto spesso si manifesta sconfinando nella narrazione iperbolica del banale o in una volontaria trasformazione dell’identità in un mosaico di momenti vendibili, “creativamente” spendibili, perennemente pubblici.

Nulla di quello che ho letto ha suscitato in me il minimo AH SIGNORA MIA I GIOVANI D’OGGI, anzi. Mi sto rendendo conto che ci sono storture e fatiche trasversali, cicli di vita “personaggeschi” e dinamiche di  assimilazione del nuovo che si reiterano con caparbia uniformità in ogni mondo digitale, confermandosi per frequenza e prevedibilità di svolgimento pezzi dello scheletro vero di questo gigantesco golem multipiattaforma verso cui gravitiamo e che tanto del nostro tempo assorbe e da cui ricaviamo soddisfazioni altalenanti. Forse è per quello che insistiamo e perseveriamo: abbiamo bisogno di una dimensione potenziale, vogliamo convincerci che esista qualcosa di incredibile, vogliamo smentire il medesimo “ho visto già tutto” che soffoca la meraviglia sul nascere. Vogliamo credere che, da qualche parte, l’irrilevanza quotidiana delle nostre azioni minime – l’unica variabile che ci accomuna davvero – nasconda un miracolo e che, là fuori, ci sia qualcuno che non solo l’ha scoperto ma l’ha anche monetizzato.

[Se il tema vi intriga, forse vi verrà voglia di fare quello che ho fatto anch’io: mi sono iscritta a zio, la newsletter di Marino che prosegue (anzi, precede) il lavoro su questo libro.]

Il multiforme ingegno dell’umanità ha generato, in anni recenti, professioni nuove. Mi sono laureata con la convinzione di dovermi inserire in una granitica struttura aziendale, svolgendo mansioni ben codificate e spiegabili con relativa facilità ai miei parenti. E ci sono stata, in azienda. Per due lunghi scaglioni temporali. Ho iniziato in una casa editrice, al marketing. Poi mi sono spostata e ho militato come copy in un’agenzia digital. Adesso sto a casa mia, spesso in vestaglia, e dedico una considerevole porzione della mia giornata alla produzione (più o meno retribuita) di contenuti che vanno a finire su Instagram, Facebook, Twitter. O sul blog.

La tranquillità di mia MADRE è, da sempre, inversamente proporzionale al grado di solidità del mio contratto. Agli inizi della mia sfavillante carriera, un tempo indeterminato in un mastodontico gruppo editoriale le permetteva di dormire sonni tranquillissimi. Ora che ho aperto la P. IVA – e che un po’ traduco libri e un po’ parlo da sola dentro a un telefono – la vedo decisamente meno riposata.

Per la porzione “WEB” del mio lavoro esiste, in prima istanza, un problema di definizione. “Imprenditrice digitale” va bene se sei la Ferragni o se il tuo matrimonio ha generato l’indotto di un parco a tema in alta stagione. “Blogger” andava bene dieci anni fa. “Influencer” non si può più utilizzare seriamente, è uno di quei termini che può essere impiegato con blanda disinvoltura solo all’interno di una frase sarcastica e/o auto-denigratoria.

Va anche ricordato, però, che la ricezione di un termine dipende anche parecchio dal contesto. Nel nostro contesto, che non brilla per tenerezza e tende anche un po’ alla generalizzazione più spiccia, gli “influencer” sono ritenuti – quasi senza eccezioni – dei pagliacci pieni di soldi che non fanno una mazzafionda dalla mattina alla sera e che lucrano sulle risicatissime capacità critiche di orde di mentecatti che si lascerebbero convincere pure a sostituire lo spazzolino da denti (che utilizzano abitualmente) con lo scopettone del cesso (che utilizzano con altrettanta frequenza).

Scegliamo dunque un’altra parola, visto che avvalersi di “influencer” equivale ormai al tirare un bestemmione in chiesa.
Ebbene, per non farti ridere dietro da grandi e piccini e qualificarti con una certa precisione, se lavori sui social inventando roba che la gente può leggere e guardare, pare vada ancora bene la locuzione “content creator”. Didascalico ma neutro. Senza autocelebrazioni pretenziose. Pulito. Schietto. Funzionale.
Perché queste etichette son tutte in inglese? Non si sa. In italiano fanno ancora più ridere. Cosa fai? Faccio il CREATORE… COME DIO. E torniamo al problema dei moccoli nei luoghi di culto. Teniamoci, quindi, l’anglicismo. E andiamo in pace.

Ma di che si occupa, nel concreto, un essere umano che campa così? Di tante cose, soprattutto se non ha raggiunto una massa critica tale da permettergli di impiegare uno staff di assistenti, manager, truccatori, fotografi, stagisti, guardiani del faro, bambinaie, cocchieri, assaggiatori di pietanze e piastrellisti.
Io, su Instagram, ho quasi 60.000 follower. Se vogliamo stabilire dei termini di paragone, all’interno della catena alimentare delle professioni digital d’avanspettacolo, sono praticamente un cetriolo di mare.

E no, non si tratta di far sfoggio di finta modestia. Conservare un certo senso della realtà è fondamentale, se si vuole procedere con dignità. Se non sai comprendere il contesto in cui sei inserito – il tuo posizionamento, insomma – non sarai capace di valutare le proposte che ti arrivano e nemmeno di operare in maniera efficace e plausibile all’interno del tuo ambiente.

I cetrioli di mare possono diventare maestosi capodogli? Perché no. Ma non è spacciandosi per capodogli quando si è cetrioli di mare che si riuscirà ad accelerare il ritmo del processo evolutivo.

Ma cerchiamo di procedere. Chiaro, l’operatività quotidiana di un CONTENT CREATOR non è fisica nucleare, ma presenta comunque un certo tasso di ingarbugliamenti, dilemmi, scleri, sospiri di sollievo, autentico spasso e moti d’indignazione. Quello che “esce” sui social è, più o meno sempre, solo la puntina di un iceberg di assurdità ed estenuanti processi negoziali che si svolgono sotto la gelida superficie del minaccioso oceano delle digital PR.

Ma è tutto “lavoro”? No. Anzi, dipende. Dipende da come imposti la tua presenza online. Per esempio, io ho cominciato a raccontare delle cose su un blog nel 2010. La mia idea era piuttosto elementare: creare un contenitore dove poter coltivare la mia passione per la scrittura e raccogliere scoperte, ricordi e riflessioni. Il blog era una sorta di diario, un vasto insieme di finestrelle da spalancare sui temi che mi stavano a cuore.

Come molti miei “colleghi” di lungo corso – alcuni assai più lungimiranti di me -, non avevo idea di quello che sarebbe capitato dopo. E che cos’è capitato? Si sono aggiunti i social. Sono spuntati canali e linguaggi nuovi. È diventato possibile ricevere, in maniera crescente, feedback diretti e istantanei, interagire con i lettori/fruitori di contenuti senza particolari barriere, creare poli di aggregazione specializzati, costruire (più o meno accidentalmente) delle community capaci di superare la logica del “seguo solo la gente che conosco nella VITAH VERA o che faceva la mia scuola”.

Le piattaforme digitali si sono ritagliate, pur muovendosi secondo velocità d’adozione e di diffusione diverse, un grande spazio nella composizione della nostra dieta mediatica. E chi si prendeva cura di un diario virtuale (magari su diverse piattaforme, come è pian piano accaduto a me), ad un certo punto si è accorto, in maniera assai misurabile, di non parlare più da solo. Anzi.

Sapere che c’è qualcuno che ti legge o che guarda le tue foto su Instagram modifica il tuo approccio? Credo sia inevitabile, in una certa misura. Esistono facoltà di sociologia che studiano il presente con la speranza di decodificare cosa succede in un contesto dove tutti possono produrre di tutto a beneficio di tutti gli altri. C’è un grado di artificiosità fisiologica, credo. Ma forse “artificiosità” non è il termine corretto. Per me tutta la faccenda somiglia di più a un’assunzione di responsabilità e a una presa di coscienza – rispetto all’esistenza di un filtro tecnico dato dal mezzo e all’esistenza di un pubblico – che a un EVVAI FACCIAMO IL TEATRO ELABORIAMO UNA PERSONALITÀ ALTERNATIVA.

Sapere di essere osservati può produrre mostri? Certo. E la conclusione più semplicistica che potremmo trarre, rispetto a questo stato di cose, è la seguente: MA ALLORA È TUTTO FINTO!1!1111!!1!!
Può essere. Ma anche no.
Il grande evento che, secondo me, ha polarizzato parecchio le cose è, in estrema sintesi, l’apparizione dei soldi. Da posti in cui ci si raccontava i fatti propri e ci si entusiasmava per le stesse cose – ma così, per la gloria – i social sono diventati anche delle nuove “destinazioni” pubblicitarie, oltre a piazze dove trovare contenuti che potevano informare o intrattenere.

E qui torniamo alla grande scelta di approccio. Continuo a fare quel che mi pare, creando un mix di contenuti che comprenda anche collaborazioni commerciali – se sussistono determinate condizioni “di ingaggio” -, o mi strutturo come una pura piattaforma pubblicitaria?

A titolo personalissimo, non credo di essere un buon cartellone pubblicitario regolamentare, per quanto riadattato al canale digitale. E anche in questo caso non si tratta solo di auto-proclamarsi CREATOR retti, genuini e irreprensibili, ma di strutturare un ragionamento che tenga conto dell’impatto sul vivere quotidiano dei contenuti che escono per lavoro (per quanto scelti e prodotti con cura), ma anche dell’efficacia di quello che si vende al cliente (l’entità commerciale che ti propone di lavorare) e del valore che attribuisci alla relazione costruita con la tua community.

Da utente, non storco il naso in automatico di fronte a un post che finisce con #ad. Non parto dal presupposto che, se c’è #ad, la comunicazione sia invariabilmente ingannevole, disonesta, paracula, poco sentita, opportunistica e, alla fine della fiera, non sincera. Vedere un post sponsorizzato “fatto bene” è sempre fonte di curiosità e anche di una discreta speranza per l’avvenire. Come decido se un post sponsorizzato è fatto bene o fatto male? Mi domando quanto somiglia alla persona che l’ha sfornato – per quanto posso conoscerla dalla mia posizione di utente all’interno della community che quella persona ha creato – e lo esamino con attenzione per rilevarne le dimensioni di creatività, ricchezza comunicativa e infomativa, qualità visiva e, grande prova del nove, differenze rispetto a una pubblicità tradizionale o a un messaggio “neutro” affidato, ad esempio, a un testimonial puro.

Non partire prevenuti vuol dire essere scemi? Spero di no. Qualsiasi contenuto in cui ci imbattiamo – che si tratti di una notizia, di un libro che leggiamo, della recensione di un film o di un #ad sui social – richiede l’esercizio di un sano senso critico. Siamo immersi in un sistema complesso di stimoli e gestiamo una massa enorme di informazioni a una gran velocità. È come se la nostra soglia dell’attenzione si fosse al contempo abbassata molto – perché c’è troppa roba da elaborare – e affinata rispetto a un passato anche assai recente – perché abbiamo trovato il modo di “abitare”, pur in maniera lacunosa, questa complessità nuova. Siamo, in sintesi, meno facili da infinocchiare ma anche più esposti, quantitativamente, a un potenziale infinocchiamento, perché il tempo per approfondire quel che vediamo non si è espanso in maniera proporzionale rispetto alla quantità di stimoli che riceviamo.

Che cosa usiamo per non perderci e controllare l’ambiente? Usiamo delle scorciatoie e delle semplificazioni. Lo fanno i creatori di contenuti e lo fanno anche i fruitori di questi contenuti. Chi produce materiale per gli altri ha bisogno di suscitare reazioni, possibilmente positive e partecipi – perché la moneta che abbiamo a disposizione per farci notare e/o ingaggiare da un’azienda è un mix di indicatori numerici che comprendono, tra le altre cose, la quantità e la qualità delle interazioni che riusciamo a generare. Un effetto collaterale di questo bisogno di pungolare il pubblico a reagire sono, tanto per fare un esempio, le domande demenziali alla fine dei post – “E a voi piace essere felici?”. La sensazione, spesso, è quella di girare eternamente in tondo nel medesimo stagno di messaggi elementari e generici. Ci si diluisce per piacere a più persone possibili – e per permettere a più persone possibili di immedesimarsi in noi o nel costrutto aspirazionale che tanti scelgono di proiettare – fino a risultare, di fatto, indistinguibili.

Ma qual è il margine di manovra reale per far uscire contenuti significativi? Dipende. Non tutti i brand – nonostante scelgano di investire dei soldi in campagne di influencer marketing e paghino anche delle agenzie digital affinché queste campagne vengano inventate e gestite nell’operatività – sono effettivamente in grado di capire il mezzo. Dipende tanto anche dai professionisti a cui si affidano. Parecchie agenzie vendono ai clienti progetti con i famigerati influencer senza prima aver “educato” adeguatamente il cliente alle dinamiche di un lavoro di quel tipo. I soldi del cliente fanno comodo, ci mancherebbe, ma un’agenzia decente dovrebbe puntare a vendere progetti efficaci ai brand che segue, mettendo il cliente nelle condizioni di costruire un brief adatto al mezzo e di aiutarlo a leggere i risultati in maniera realistica.

Che succede se il cliente è convinto di potersi muovere sui social come si muove – magari da decenni – in tv o sui cartelloni pubblicitari? Succede che Instagram diventa un canale di televendite. Succede che i content creator non hanno un bel niente da creare, perché il cliente pretende che si reciti a memoria una roba che andrebbe bene per una valletta di Mike Bongiorno, un messaggio così artificiale da risultare identico per tutti, scollegato da chi lo trasmette e, fondamentalmente, inutile.

E come la risolviamo? Facciamo come ci pare e buonanotte? Non proprio. Ogni progetto ha uno scopo preciso, delle informazioni chiave da convogliare, dei tempi e delle indicazioni da seguire in merito ai canali, alla composizione visiva e chi più ne ha più ne metta. Tutta questa roba, tanto per fare la maestrina, viene raccolta ed esplicitata in un BRIEF – che sarebbe già bello ricevere quando ti propongono un lavoro, ma che molto spesso finisci per costruirti tu dopo una devastante operazione di maieutica.

MA ALLORA È KOMUNKUE TUTTO FINTOHH!!!1!!1111!
Il difficile sta proprio qua.
Ovvio, produrre una “bella” foto e scriverci sotto delle cose è un’operazione che richiede tempo ed elucubrazioni. Fa parte del lavoro, ma è solo il pezzettino finale. Le decisioni che devi prendere PRIMA di far uscire un contenuto sono quelle più importanti. Ti devi domandare se ha senso accettare quel lavoro in base a “cosa sei” online. Ti devi domandare quanto ti sarà possibile, date le informazioni di base a tua disposizione, raccontare qualcosa come lo faresti normalmente. Il fatto che qualcuno voglia pagarti implica automaticamente che quello che ti chiedono di sponsorizzare sia favoloso – o che vada sponsorizzato (da te, in particolare)? Non penso.

I lavori che NON si accettano – per ennemila motivi – sono molto più importanti di quelli che si accettano. Ma non perché siamo tutti Naomi Campbell e non ci vogliamo alzare dal letto per meno di 10.000$. È importante che il lavoro – in generale – venga retribuito adeguatamente, ma la valutazione della proposta economica è solo un pezzettino delle variabili da governare. Meglio crepare di fame, perché solo chi crepa di fame è onesto davvero? Quella è un’altra distorsione. L’ambizione che dovremmo coltivare, credo, è essere pagati il giusto per inventare contenuti di cui poter andare fieri. E il primo passo verso questo ambizioso traguardo è valutare bene (e filtrare) le proposte che arrivano.

Ma son comunque contenuti che escono dopo una “sollecitazione”, non sei comunque spontanea!!1111! Parlando di quello che si fa quotidianamente – come nel mio caso -, capita spessissimo di raccontare “gratis” tantissime cose. Segnalazioni di posti, negozi, mostre, giri, mete, cibo, beveraggi, ristoranti, libri, giocattoli, rossetti, coppa, salami, tazzine del caffè, deltaplani, spade laser, ROBA. La cura che ci vuole (e il tempo che si impiega) per farlo non è trascurabile. Ogni tassellino contribuisce ad esplicitare una certa attitudine narrativa, estetica, valoriale. Lo fai perché ti diverti e perché, come essere umano, insegui quello che ti incuriosisce e ti va di parlare di quello che ami. Puoi scoprire qualcosa lungo la strada? Credo di sì. Puoi scoprirlo per conto tuo – “oh, ho letto su giornale che c’è una mostra nuova al Supermuseodelcuore!” – o puoi scoprirlo perché te lo dice un ufficio stampa – “Ciao, Francesca. Vorremmo invitarti all’inaugurazione della nuova mostra al Supermuseodelcuore”. La mostra al Supermuseodelcuore ti interessa? Sì? Perfetto. Andando all’inaugurazione non demolirai la legittimità del tuo interesse, credo. Coglierai l’opportunità di poterla raccontare meglio? È probabile. Perché le condizioni di accesso saranno “migliori” – magari avrai una guida a disposizione, tutta per te. E potrai convogliare la ricchezza di quello che ti viene presentato al tuo pubblico, creando un ponte.

Verranno sempre fuori meraviglie? Sarai sempre protetta da una coerenza adamantina? Ma magari. La tua percezione non è del tutto sovrapponibile a quella degli altri. Un contenuto che a te sembrava perfettamente sensato potrebbe essere accolto con meno entusiasmo rispetto a un contenuto che racconta un’impresa che ti sembrava più lontana dalla tua benedetta confort zone. È la fine del mondo? Macché. Può diventare utile. Può essere l’inizio di una conversazione e di una riflessione. Che senso ha buttar fuori un fantastiliardo di post se poi non te ne prendi cura e se non impari niente da quello che puoi osservare – sia a livello di dati che di chiacchiere?

 

Le chiacchiere sono di un’importanza capitale. Sia quelle che si vedono – le interazioni pubbliche, come possono essere i commenti a un post – che quelle che non si vedono – i DM che ti arrivano, per esempio. Si apprende moltissimo, si misura il famigerato SENTIMENT di un contenuto, ci si conosce – almeno un po’. L’asimmetria te/pubblico è un altro fattore strutturale. Ma non perché te la tiri e non hai voglia di star lì a parlare con @fragoletta_di_bosco_79. L’asimmetria esiste perché tu sei un’entità singola e, di contro, esistono 60 mila fragolette di bosco. L’asimmetria è anche accentuata dall’illusione della vicinanza. Una persona che ti vede tutti i giorni in vestaglia mentre racconti delle cose stabilisce con te un legame stretto, che tu non puoi ricambiare con la medesima intensità.

Possono esserci effetti collaterali. Anche paradossali. È un po’ come se chi produce contenuti venisse percepito, gradualmente, un po’ meno come una persona e un po’ più come un servizio. O uno spettacolo. O Google. Rendersene conto è bizzarro. Riesco fare (anche) questo lavoro perché posso contare sul sostegno di tante persone che mi ascoltano con pazienza e si interessano a quello che scopro e mi va di condividere. Mi sento sempre in debito con chi legge, ascolta, commenta, guarda, interagisce. E tratto chi mi sostiene con tutta la sollecitudine possibile, senza particolari sacrifici – se mi scatenasse una fatica soverchiante non lo farei di certo. Ma c’è anche un confine da tracciare. Mi sembra legittimo, di tanto in tanto, far notare che chiedermi dov’è che si può parcheggiare nei pressi del Piccolo Teatro non è un’informazione che ha senso cercare di ottenere da me. Così come mi sembra legittimo sgranare gli occhi di fronte a uno sconosciuto che ti scrive “senti la mia fidanzata compie gli anni domani puoi venire a Stocazzago Di Sotto che così facciamo l’aperitivo insieme le farebbe proprio molto piacere”. True story.

Sono casi limite e sono anche rari – in proporzione, ma ci sono. È colpa di qualcuno? Non è facile stabilirlo. La realtà, secondo me, è che non sappiamo ancora molto bene come gestire tutta questa roba. Ma da entrambi i lati della relazione. La comunicazione è talmente diretta e accessibile da prevedere un legittimo abbattimento dei convenevoli, ma mi pare anche importante rimarcare l’ovvio. Non è che perché posso parlare con qualcuno ho anche il diritto di dirgli quel che mi pare. Si sente anche molto spesso questa stupidaggine conclamata: “eh, ma scusa, stai online, ti esponi, ti devi beccare quello che arriva”. La situazione ottimale è ben lontana da questa convinzione, secondo me. Sto lì perché voglio interagire, chiaramente. Ma lo star lì non autorizza nessuno – in nessun caso – ad elargire sgradevolezze gratuite.

Che vogliamo, solo gente che ci dice che abbiamo ragione? O solo interazioni stereotipate da gruppo Telegram di scambio-commenti? CHE TOP TESORO SEI BELLISSIMA WOW DA PROVARE FANTASTICO BELLA CHE BELLO SUPER. Magari no. Ma è un lavoro ad alto tasso di coinvolgimento personale e presenta delle delicatezze non trascurabili. Mi sembra che non ci si pensi o che non venga molto percepito. Cavolo, siamo ancora qua a dover scrivere delle lenzuolate per provare a spiegare che non tutti stanno su Instagram solo per vendere il tè dimagrante. Come in tutti gli ambiti professionali, ci sono i cani, gli opportunisti e i truffatori dichiarati… ma ci sono quelli che se la cavano con dignità – se non proprio bene. Come si organizzano gli altri? Come gestiscono l’operatività quotidiana? Si fanno pure loro tutti questi patemi? Non lo so.

È il caso di piangersi addosso? Ma figuriamoci. I vantaggi sono VASTI, ma l’equilibrio è fragile. Se penso a quanto mi viene pagato un lavoro su Instagram in confronto a quanto mi viene pagata una traduzione mi sento male. E il fatto che ci siano davvero dei benefit materiali molto spiccati è pericoloso. Perché ti ritrovi per le mani un’esternalità positiva che non avevi in nessun modo previsto. È un po’ come se, per ammazzare il tempo, ti fossi messa lì ad appoggiare dei mattoncini uno sopra l’altro. Così, uno ogni tanto. Ma senza chissà quali ambizioni o strategie. E poi, dieci anni dopo, tiri su gli occhi e ti accorgi di aver costruito una casa. E ti si riempie la posta di gente che vuole arredartela gratis. O che, anzi, ti vuole pagare per arredartela.

Ci vuole un attimo a rincoglionirsi completamente. O a credere che tutto quello che c’è di bello ti sia dovuto. E, anche qui, non si tratta di fare la ragazza semplice o la miracolata. Si tratta di imparare a navigare, al meglio delle tue possibilità, in una specie di oceano che ha ancora bisogno di essere estensivamente mappato, perché prima non c’era. C’erano solo degli stagni molto piccoli. O delle pozzanghere. E la consapevolezza più importante da coltivare, secondo me, è l’instabilità dell’impresa. Basta scegliere male un lavoro per ritrovarsi mediamente crocifissi in multipiattaforma. Quel che si sottovaluta è l’equivalente – diventato personale – del rischio d’impresa. La faccia è tua.

Non sarò mai equipaggiata, forse, per inanellare con la massima disinvoltura un #ad dopo l’altro. Chi lo fa è un filibustiere senza scrupoli? Che ne so. Magari è più sveglio di me. Tira su quarte pareti che rendono tutto molto più luccicante e misterioso. Non tutti quelli che ammassano un grande seguito e fanno cose favolose sono dei bastardi. E non tutti quelli che partono minuscoli e poi trovano il modo di farsi ascoltare da folle oceaniche vanno biasimati e devono diventare oggetto di quel risentimento che di solito si riservava alle band indie che a un certo punto firmavano con una major, dopo aver mangiato patatine fritte in cantina per un secolo. Mi pare necessario, però, affrontare un’avventura di questo tipo con un certo senso di responsabilità e di metodo. Non per salvare il mondo – perché no, ribadiamolo, qua non stiamo salvando vite umane -, ma per non peggiorarlo troppo, almeno. E per restituire un po’ di credito a chi si impegna, a chi continua a divertirsi (quando non lo pagano… e anche quando succede), a imbastire storie che possono farci scoprire qualcosa – o anche intrattenerci, semplicemente.

Orbene, il mondo è pieno di challenge fotografiche più o meno letterarie. Io, però, oltre a non aver mai partecipato a una di queste lodevoli iniziative, non ne ho nemmeno mai “ospitata” una. Non ho la minima idea del perché ci troviamo qui, dunque, ma sono comunque molto felice di provarci lo stesso – insieme a voi, mi auguro.

La faccenda è semplice.

Sostenuta dalla mia travolgente immaginazione, ho elaborato un gioioso elenco di ben 31 potenziali fotografie libresche da scattare nel mese di marzo a beneficio dei nostri profili Instagram e dell’universo tutto. Marzo. Tutto questo non si fa a marzo perché le foto dei libri vengono meglio a marzo, ma perché il nome del mese mi consentiva una storpiatura particolarmente funzionale dell’0rmai consolidato #LibriniTegamini. La baracca si chiamerà #LibriniMarzolini, e #LibriniMarzolini sarà anche l’hashtag di riferimento da utilizzare.

Provo a prevenire le eventuali domande.

Perché?
Perché, se mai qualcuno parteciperà, riusciremo a creare una piccola galassia di libri da approfondire, scoprire e amare. E anche un po’ perché – a causa di impulsi feticistici che non credo di aver cuore di approfondire – mi piace fotografare i libri, oltre che leggerli. E pure per vedere che succede, visto che non ho mai tentato nulla del genere prima d’ora.

Ma si fa tutto su Instagram?
Esatto. L’importante – ai fini della creazione di un bell’archivio a disposizione del mondo – è indicare #LibriniMarzolini quando si posta qualcosa. Se poi volete condividere le vostre foto anche da altri parti, non c’è problema. Anzi. Bravoni.

Ma devo fare per forza 31 foto? TUTTE?
Assolutamente no. Fate quello che vi pare, quello che avete tempo di fare o quello che vi sembra più significativo per il vostro percorso di lettori. Ovvio, se ci sono milioni di foto è meglio, ma non è un lavoro. Dev’essere un piacevole sollazzo.

Ma devo andare in ordine cronologico?
La Marie Kondo che è in me vi risponderebbe di sì. Ma la verità è che se arrivate in ritardo ma volete comunque fotografare qualcosa, potete postare un po’ quando vi va. L’importante è indicare il tema della giornata, che così si capisce tutto un po’ meglio.

Ma bisogna fare le foto come la Petunia Ollister?
No, non è necessario. Le foto della Petunia Ollister stanno là nell’iperuranio. Noialtri facciamo quello che siamo capaci di fare e quello che ci somiglia, soprattutto.

Ma che ci scriviamo nella didascalia?
Quello che vi pare. Dal trattato critico-filosofico all’opera al perché avete amato – e raccomandate – un certo titolo al vostro prossimo. Citazioni? Favola. Frasi sconnesse? Come volete.

Qualche editore ti paga per far questa roba?
No. Magari!

E su Instagram dove sei?
Qua.

Cosa si vince?
Niente, tendenzialmente.
Ma mi piacerebbe creare un post finale per raccogliere i risultati più curiosi e interessanti dell’impresa.

E i temi?
Eccoli.
[Se cliccate sull’immagine verrete catapultati anche a una stampabilissima versione ingrandita].

LIBRINIMARZOLINI

Mi auguro che la bislacca iniziativa possa allietarvi, stimolare la vostra creatività e farvi spendere molti soldi in libreria. E ringrazio da subito chi deciderà di partecipare. Mal che vada, farò 31 foto da sola. Ma spero di no, in tutta sincerità.
Molti cuori e buon divertimento, quindi. Spero di trovarvi su Instagram con #LibriniMarzolini. 

Il mio amore per la cancelleria è vasto è smisurato. Colleziono quaderni troppo belli per essere utilizzati, penne mirabili e graffette a forma di cose assurde – tra cui pinguini e orsi polari. Adoro i bigliettini, gli adesivi, i portamatite e i blocchetti. Rubo pure le biro degli alberghi, ma anche quelle brutte. Perché comunque sono delle biro. E le biro sono il bene.
Di tanto in tanto, poi, vengo travolta dalla necessità di rendere più sistematiche le mie passioni. E mi ritrovo a costruire ordinatissime cartelline di bookmark in cui cerco di far confluire tutto quello che amo da mesi in maniera dispersiva e caotica. Ecco, questo post nasce esattamente dalla nobile esigenza di compilare un affidabile mini-database delle cartolerie online che vorrei monitorare con più attenzione e sensatezza. E visto che il grosso dello sforzo consiste nel ritrovarli, questi benedetti shop o quel che vi pare, buttare giù un elenchino anche qui mi sembrava faccenda di poco conto. La speranza è quella di donarvi emozioni impareggiabili e, magari, di raccogliere anche qualche suggerimento aggiuntivo – a beneficio mio e della collettività tutta.

Pronti?

Pronti.

Ecco un po’ di cartolerie virtuali (più o meno definibili “cartolerie”) che vorrei sommergere di soldi.

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Libri Muti (Slow Design)

Dei Libri Muti avevo già parlato in una Weekly Wishlist, credo – oltre ad aver condiviso su Instagram un regalo bellissimo di Rigadritto -, ma visto che sono incredibilmente meravigliosi mi pare opportuno ribadire il concetto. Che cosa sono i Libri Muti? Sono dei quaderni. Che somigliano a dei libri. Perché sono legati come dei libri. E hanno la copertina. E le pagine di un’ottima carta. Bianche, però. Quindi voi potete prenderli e scriverci dentro quel che vi pare. Quelli di Slow Design – impresa fiorentina di rara saggezza – riprendono le copertine classiche di capolavori letterario-scientifici di ogni epoca e sono oggetti splendidi, oltre che quaderni funzionali e rispettabilissimi.

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Present /&/ Correct

P&C è stato fondato nel 2009 da una coppia di grafici londinesi. Inizialmente doveva ospitare le creazioni dei fondatori, opere meritevoli di altri designer e chicche vintage scovate in giro per l’Europa, ma si è ben presto trasformato in un progetto in perenne evoluzione. Tra le ispirazioni dichiarate: i compiti, gli uffici postali e la scuola.
Oggi c’è praticamente di tutto. Dai multicassettini di legno per organizzare la scrivania ai francobolli bulgari degli anni ’60. Ogni oggetto è deliziosamente retrò e selezionato con palese passione e cura maniacale.

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Kawaii Pen Shop

Un vasto deposito votato alla diffusione globale dei colori pastello e della cancelleria nipponico/asiatica. Non è un’accozzaglia di quaderni di Hello Kitty, tanto per capirci, ma un posto interessante dove trovare accessori “orientali” che conservano la loro giocosità pur non somigliando in maniera smaccata ai patacconi che potremmo trovare nell’uovo di Pasqua. Altra nota positiva, spedizione gratuita.

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Season Paper Collection

Julie Costaz e Mélissa Le Vaguerèse, designer tessili, hanno fondato Season Paper nel 2012. Il brand sforna due collezioni l’anno di prodotti cartacei (quaderni, biglietti, carta da parati, carta da regalo…). Tutto viene realizzato a Parigi con materiali provenienti da foreste sostenibili europee. La specialità delle estrose signorine sono i poeticissimi pattern disegnati con le loro manine d’oro.

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Write Sketch &

Un po’ di made in Italy milanese, che gioia. Anche in questo caso, dobbiamo la nostra gratitudine a una coppia di creativi – Matteo Carrubba e Angela Tomasoni – che, dopo una decina d’anni di militanza nell’art direction per la moda e il design, hanno deciso di dedicarsi alla cancelleria di qualità eccelsa. WS& nasce nel 2014 con una linea di quaderni geometrico-postmoderni a cui si sono aggiunti, negli anni, formati e prodotti diversi. Oggi troviamo copertine metalliche, tutto l’occorrente per scrivere e favolosissime tote-bag plissettate.

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Jo & Judy

Brand tedesco ad altissimo coefficiente di instagrammabilità, Jo & Judy è un po’ più orientato al “design da scrivania” che alla cancelleria in senso stretto. Ci sono soluzioni esteticamente armoniosissime per numerose esigenze fin troppo reali (che ne so, trovate anche i planner per ricordarvi i compleanni), ma anche piccoli gioielli e ninnoli per rendere bellissimo il vostro spazio di lavoro. Lo shop è consultabile per aree tematiche e per filtri cromatici… e tutto grida fortissimamente MOODBOARD.

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Paperchase

Paperchase è una colossale catena britannica specializzata in cancelleria di ogni forma e dimensione (da quella più pacata alle assurdità totali), con un occhio di riguardo allo scemenzame variegato e all’occorrente per il crafting. L’assortimento è vastissimo e l’attenzione ai “fenomeni pop” del momento è decisamente spiccata. Volete i cactus? Volete gli unicorni? Volete i glitter? Volete le frasi motivazionali – ma non quelle zuccherose? Volete i fenicotteri? Bene, da Paperchase c’è. E finalmente hanno deciso di spedire in tutto il mondo.

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Scrapzelda

Penso che Camilla – già superlativa di suo – non abbia bisogno di presentazioni. E forse nemmeno il suo shop, ma parliamone lo stesso. Perché Camilla è riuscita a tirare fuori dal cassetto un po’ il sogno di tutte/i: fare (anche) la cartolaia. Da lei, oltre all’ormai proverbiale agenda annuale, troverete quaderni, adesivi e accessori per lettori incalliti, come i segnalibri a barchetta con gli elastici colorati. Evviva!

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Out of Print

Out of Print non è precisamente un brand di cartoleria, ma una specie di paradiso per i lettori che non sanno come vestirsi. L’impresa è cominciata con le magliette letterarie – con stampate sopra le copertine “vintage” dei grandi classici – e l’assortimento si è gradualmente espanso per ospitare le sportine di tela, gli astucci, le calze, le spillette, i quaderni e centomila altri articoli per chi ama leggere e (probabilmente) anche scrivere. Amore del Cuore si è abbigliato per anni solo da Out of Print.

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Sticker Stack

Un negozione britannico – ancora una volta – specializzato in adesivi tenerelli, cancelleria vergognosamente appagante dal punto di vista visivo e accessori funzionalissimi per organizzare lo studio, il lavoro e l’esistenza in generale. Tutto arriva dall’Asia – in particolare dalla Corea e dal Giappone – e, cosa non frequentissima, è anche possibile una ricerca per brand – il che è ancor più invasante perché poi finisci a cercarti anche quei brand lì, trasformando la tua wishlist in una specie di abisso senza fondo. La componente kawaii, in questo caso, è praticamente nulla. Ma giuro che non se ne sente la mancanza.

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Bonus finale, un libro che credo mi comprerò fra cinque minuti.

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Il mondo è vasto e sono certa di ignorare l’esistenza di un’infinità di luoghi pieni zeppi di cancelleria che invece voi conoscete come le vostre tasche. Ecco, raccontatemi tutto, se vi va. Che nella mia cartellina di bookmark c’è ancora un sacco di spazio. Per il resto, in alto i pennarelli!

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EDIT MIGLIORATIVO

Grazie ai preziosi contributi raccolti su Facebook – tanto amore per voi! – ecco qualche altro link favolosissimo per proseguire con lo shopping.

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Erin Condren

Sebbene io sia consapevole delle mie oggettive difficoltà nella gestione dello shopping, ecco qua una nuova carrellata di desideri e brame più o meno insensate.

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BlackMilk è una bottega creativa che sforna accessori di stoffa fatti a mano, super personalizzabili. Si può scegliere un modello di borsa, ad esempio, e richiederlo in una particolare fantasia, pescando tra quelle a disposizione. L’assortimento di stampe è saggio – ce ne sono tante “classiche”, ma si trovano anche quelle pazze. Ho adocchiato due cose: i segnalibri di stoffa da mettere sugli angolini dei libri e la borsa Pancia – che ha una forma intelligente e adattabile e si può portare anche a tracolla.

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Per il sessantesimo anniversario di Biancaneve, Disney e Asics hanno unito le forze per sfornare una microcollezione di scarpe da ginnastica Gel-LYTE dedicate alla fioccosa principessa mangiatrice di mele avvelenate e alla Regina Cattiva. Nonostante la mia tradizionale propensione a parteggiare per i malvagi, devo arrendermi alla meraviglia vellutata del modello di Biancaneve.

[La fotina viene da qui].

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“I Maverick”. Perbacco, non mi ero minimamente accorta dell’esistenza di questa nuova collana einaudiana. Probabilmente stavo perdendo tempo su internet – pratica che Kenneth Goldsmith sembra però riabilitare. In questo breve saggio, Goldsmith analizza il comportamento del navigatore medio, evidenziando le esternalità positive e i risvolti socio-esperienziali che derivano da una fruizione e produzione di contenuti che potrebbe apparire superficiale, disordinata e puramente ludica. Troppo ottimismo – in un libro che parla di umani che USANO L’INTERNET? Forse sì. Ecco perché sono curiosa.

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Francesi folli che creano cancelleria surreal-rétro e una vasta gamma di oggettistica per la scrivania (e la casa) degna di un manicomio vittoriano. Ci sono distinti signori con la bombetta e le orecchie colme di orate, fermacarte di vetro con insetti variopinti, pecore con gli stivali, pugili con dei carciofi al posto delle mani e duchesse dotate di tentacoli. Io mi sono affezionata al pollo-lampione, ma sono certa che Gangzai sarà in grado di assecondare brillantemente anche alle vostre più insolite fissazioni. I quaderni sono INCREDIBILI.

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Già qualche tempo fa mi interrogavo sull’offerta standard dei corsi in palestra – corsi che, in nessun modo, sembrano in grado di soddisfare la mia esigenza di diventare la Vedova Nera. Ma poco male, perché ho scoperto l’accademia di spada laser. Anzi, di LIGHTSABER COMBAT SPORTIVO. E sto impazzendo. Ludosport, si chiama. L’idea è venuta nel 2006 a tre amici milanesi ed è poi stata esportata con crescente successo in tutto il mondo. Si va, si piglia una spada laser – gli attrezzi sono stati studiati e progettati appositamente da una specie di fucina di premi Nobel per un utilizzo “reale”, senza tralasciare lucine ed effettoni a noi tanto cari – e si imparano i rudimenti della tecnica e del duello. Seriamente, io DEVO iscrivermi. Sarei magnifica. Compio gli anni a marzo, Amore del Cuore. Questo è un appello ufficiale.

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Il mercato delle magliette con delle cose disegnate ad altezza tette – anzi, con un disegnino per ogni tetta – è ormai saturo. Per la prima volta, però, sento il bisogno di comprarmene una. Perché ho scoperto che sulle tette possono starci felicemente anche dei triceratopi disegnati da Happycupstudio.

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Downton Abbey è finito – e ok, stanno girando il film, ma che dobbiamo fare nel frattempo? Possiamo guardare The Crown, ma nemmeno la nuova stagione è in grado di accompagnarci in eterno. Ma Julian Fellowes è comunque qui per soccorrerci, perché ha anche scritto dei libri all’apparenza gradevolissimi. Belgravia – polpettone romantico-storico di rara piacevolezza – mi aveva tenuto compagnia due estati fa sotto l’ombrellone, facendomi venire voglia di scovare i suoi altri romanzi. Il primo che vorrei leggere è Snob, arguta cronaca delle peripezie della nobiltà inglese contemporanea alle prese con l’orda rampante dei nouveaux-riches. Il cuore della contesa, in questo caso – anzi, OVVIAMENTE -, sarà il matrimonio tra la fascinosa ma relativamente “umile” Edith e un ultra-nobilissimo conte con madre ingombrante. Somiglia a Downton Abbey? Certo. Ed è questo il bello.

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Casa mia è un inferno, a livello Instagram-fotografico. Non ci sono superfici ben illuminate e, quando sono ben illuminate, sono troppo cupe. Legni scurissimi. Tappeti cupissimi. Roba che riflette. Ora, non sono una foodblogger che deve ritrarre fette di torta perfettissime e nemmeno una di quelle che va a compare i fiori freschi all’alba per fare la foto con la tazza di caffè e una pletora di deliziosi biscottini incredibilmente simmetrici, ma un fondo chiaro mi farebbe comodo – soprattutto per i libri o per le foto di cose “piccole”. Ebbene, l’universo ha elaborato una soluzione. C’è un sito, ad esempio, che smercia una vasta gamma di fondi “finti” – di vinile – da utilizzare per le foto più disparate. Ci sono quelli colorati, quelli coi pattern e pure quelli che riproducono materiali di ogni genere, dal legno al marmo. Si chiama MiniBackdrops… ed è tutto qui.

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E per questa settimana abbiamo desiderato a sufficienza, direi.
Felice sperpero!

Non è una regola ferrea, ma nelle coppie capita spesso che ci sia uno che fa le foto e l’altro che non ci pensa neanche lontanamente. Anzi, che vive la faccenda quasi con fastidio. Te ne accorgi soprattutto in vacanza. Te ne accorgi soprattutto quando hai un bambino piccolo. Te ne accorgi in maniera inequivocabile se hai sposato Amore del Cuore.

Ora, per me fare le foto alle cose o alle persone è una maniera di creare ricordi, di ritrovare quello che mi ha stupito in un certo istante o di fissare un momento che non mi va di perdere per strada. Mi piace fare le foto e fotografo qualsiasi cosa, anche se non ho mai sviluppato un particolare talento “tecnico” o una fissazione spiccata per obiettivi, pellicole, marchingegni e attrezzature. La tecnologia si è evoluta di pari passo con la mia pigrizia, forse, quindi mi arrangio felicemente con il telefono o con una delle macchinette più elementari ed efficaci che ha inventato la Canon per la gente allegrona ma piuttosto sbrigativa.
Comunque.
Sarà che ho sempre l’angoscia del tempo che passa e che si trascina via quello che succede, sarà lo spiccato orientamento al visuale della società che abitiamo, sarà che quelle tre volte che mi vesto come un essere umano mi piace potermelo rammentare – SARÀ QUEL CHE SARÀ, ma io sono quella che fa le foto. E Amore del Cuore no.

Io lo fotografo spesso, Amore del Cuore. Mi fa piacere. Mi diverto. Se ha in braccio Cesare o se Cesare gli sta camminando sulla faccia, poi, lo fotografo ancora più volentieri. Se siamo insieme da qualche parte e sono contenta parto anche con “Amore del Cuore, facciamoci una foto insieme”. Ci provo io, ma tra i due non sono quella col braccio più lungo, quindi spesso finisce con un “Amore del Cuore, falla tu, che fai meno fatica e magari entriamo nell’inquadratura senza slogarci le clavicole”.
E già lì si percepisce del disagio.
Ma è solo la punta dell’iceberg dello scazzo.

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Io non so, onestamente, come facciano quelle con gli Instagram pieni di foto dove ci sono loro per strada, appoggiate a un portone interessante con un gelato in mano. O graziosamente accoccolate sull’erba di un giardino. O sedute sui gradini di qualche chiesa. Ragazze che passeggiano sospinte dalla brezza. Ragazze che osservano il tramonto dalla cima di una scogliera. Quella roba lì.
Ma chi è che vi fotografa, ragazze dell’Instagram?
Non Amore del Cuore, questo è certo.
La dinamica è la seguente. E no, non accade sei volte al giorno. Accade circa una volta ogni due settimane – il tempo necessario a riprendermi dal trauma causatomi dai precedenti tentativi di farmi fotografare dal mio consorte.
Ma parliamone.

È una giornata radiosa (o almeno sopportabile). Ho i capelli pulitissimi e ho avuto il tempo di mettermi addirittura il rossetto. Sono ben disposta verso l’esistenza e indosso un insieme di cose che mi rendono in qualche modo fiera di essermele comprate o di averle abbinate con criterio. Ci ritroviamo a passeggiare in un bel posto, non c’è tanta gente.

“Amore del Cuore, fammi una foto. Guarda che meraviglia. Per favore, su. Mi metto lì cinque secondi. Paf, paf e via”.

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Consegno il telefono ad Amore del Cuore – con la fotocamera già attiva, che così non deve manco sbattersi a pigiare l’icona per aprire l’app – e Amore del Cuore lo afferrerà con un misto di riluttanza e compatimento, come se gli stessi porgendo un paio di pattine da indossare per non rigarmi il parquet, o una sogliola umida, o la carcassa ricoperta di muffa di un gatto con tre zampe. Alla consegna del telefono, devo aggiungerlo per dovere di cronaca, Amore del Cuore reagisce anche alzando gli occhi al cielo e sbuffando con eloquenza.
Io, caparbia, mi vado a piazzare in un angolo – ben conscia del suo travolgente entusiasmo – e provo a pensare a che faccia dovrei fare o a come potrei mettermi per non somigliare a una cretina che sta ferma contro a un muro senza un motivo al mondo. Non posso dedicarmi a questo nobile sforzo intellettivo-plastico, però, perché Amore del Cuore non è visibilmente pronto ad affrontare il GRAVOSO compito a lui affidato con l’adeguata serietà.
Dovete sapere, infatti, che Amore del Cuore non si sposterà di un centimetro dal punto in cui gli avete consegnato il telefono. Potete andare a mettervi in posa a cento metri di distanza o rimanergli appiccicate, non farà la minima differenza. Lui starà lì dov’è, come un albero, cazzo. “Amore del Cuore, vieni qua, però. Cioè, non mi pigli neanche con lo zoom se rimani lì”. Una volta approdato a punto B – e scordatevi un punto C, dal punto B non lo schioderete mai più -, Amore del Cuore si metterà una mano in tasca, tirerà su il telefono e scatterà brutalmente una sequenza di foto. Ma così, a caso. Bam, bam, bam, bam.

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“Amore del Cuore, tralasciamo per un attimo la mia faccia, perché di quello non hai colpa, ma ho delle domande. Perché ho sei metri di spazio vuoto a sinistra e la spalla destra a filo del bordo? Dimmelo che ho una lama di luce che mi decapita, che così mi scanso leggermente. Ma poi non t’accorgi che se non ti abbassi un po’, quando mi fai le foto, somiglio a Tyrion Lannister? Avrò anche la testa grossa e le gambe non lunghissime, ma se non ti pieghi un po’ viene veramente fuori una roba che non ha senso. Le proporzioni di un neonato. E la porta, sto qua in mezzo perché sarebbe bello che si vedesse tutta, ma in una maniera un po’ più simmetrica. Cioè, quello stipite lì è in diagonale. Ma pesantemente. Non è una porta, sembra un triangolo scaleno, l’entrata di una piramide, un incubo geometrico”.
Che rompicoglioni, direte voi. Ottimo, venite a farvi fare una foto da Amore del Cuore e poi ne riparliamo.
Comunque.
Amore del Cuore accoglie benissimo le mie rimostranze. Si lancia, di solito, in una filippica contro i social network nel loro complesso (come se le foto che mi fa fossero pubblicabili), arrivando a denigrare il capitalismo e auspicando il ritorno della censura statale (ma quella delle monarchie illuminate e basta). E io là, appoggiata a una porta a sognare un selfie-stick.

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Il secondo giro di foto è lievemente migliore. O forse così mi pare, perché so benissimo che non ce ne sarà un terzo. Insomma, ho una testa di dimensioni accettabili, sto più o meno in mezzo alla foto, ho i piedi, sembro a fuoco… purtroppo. Perché, una volta risolti i problemi di posizionamento, subentra la disamina della mia faccia e della mia persona in generale. Non mi sento di imputare ad Amore del Cuore anche queste disavventure, ma una cosa devo dichiararla.
Doverosamente.
Se uno ti fotografa malvolentieri – e tu lo sai che ti stanno fotografando malvolentieri -, verrai di merda. Ma merda vera. Il cubismo è una straordinaria corrente artistica, ma quando guardi una tua foto e ci vedi del cubismo non è una bella cosa.
Come il 97% degli esseri umani, vengo meglio in foto se non m’accorgo che mi fotografano o se qualcuno prova insieme a me a farmi venire un po’ meno male. Ma basta poco. Girati un po’ di lì. Muoviti verso di là. Vieni verso di me. Saluta unicorni immaginari. Mangia il gelato. Fermati così.
Con Amore del Cuore è impossibile.
Non esisteranno mai momenti in cui mi fotograferà di sua sponte, mentre galleggio ignara in un istante di serenità. E nemmeno riceverò indicazioni durante questi infrequentissimi “Amore del Cuore, fammi una foto”. Che cosa volete che mi dica? Alzati un po’ te in punta di piedi se non vuoi venire con la testa troppo grossa, che io non ho proprio voglia di chinarmi?

Quindi niente, abbiamo delle difficoltà non particolarmente risolvibili. Sono problemi di indole, proprio. Amore del Cuore non ama immortalare una mazza di niente, ma ce ne faremo una ragione. Il mio profilo Instagram mi vedrà comparire in maniera sporadica – il che, tutto sommato, non credo sia una cattiva idea – e nelle foto di famiglia ci saranno solo lui e Cesare. Bellissimi. Che si stropicciano e si coccolano in ritratti pieni di sentimento e tenerezza.
Io lo accetto, tutto questo. 
Anzi… lo accetterei di buon grado.
Peccato, però, che poi si verifichi il seguente fenomeno.
“Ma Tesoro di Cuccioli, non abbiamo più stampato neanche una foto. Dobbiamo fare gli album di Cesare, dobbiamo riempire le cornici. È bello avere gli album e le foto per casa. Anche delle vacanze, non le abbiamo mai risistemate. Dobbiamo guardarle, anche quelle vecchie. Ti ricordi il nostro primo viaggio a Berlino? Diamo un’occhiata. Scegliamole, che poi le stampiamo”.
Scusa?

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Le vacanze sono finite. È arrivato il momento di farsene una ragione. Sono tornata a Milano ormai da due settimane. E il mio profilo Instagram si sta decisamente ammosciando. Per quattordici giorni – felicemente trascorsi in Sicilia – ho deliziato la mia coriacea “fanbase” con orizzonti marini, piatti di ravioli di cernia, viuzze romantiche, chiese barocche, birrette in spiaggia, tramonti di rara arroganza, dune sabbiose, crostacei, teatri di pietra, fichissimi fichi d’India, terrazzini baciati dal sole, altari stracarichi, centrini di pizzo, luce naturale, onde cristalline, racchettoni e parei svolazzanti. Tutti i miei scatti vacanzieri sono stati accolti con un calore assolutamente inedito. Cuorini a profusione, nuovi follower come se non ci fosse un domani, emoji gioiosissime e commenti incoraggianti. Se avessi improvvisamente deciso di fotografarmi le tette, avrei sicuramente riscosso meno successo. Pur continuando a non capire bene che cosa diamine sia capitato, l’involontario esperimento comparativo mi ha insegnato un sacco di roba importantissima sull’utilizzo feriale di Instagram.
Parliamone.
E che qualcuno prenda appunti, per carità.

Dovete scegliere la meta delle vacanze? Molto bene. Restate sempre in Italia. Del patriottismo, chiaramente, non c’è da curarsi. Mica siamo sottosegretari al turismo. È alla connettività che dobbiamo pensare. Chiaro, quando ci troviamo in una meta esotica, il wi-fi dell’albergo è sempre una buona soluzione… ma è comunque piuttosto disagevole. Ovvio, mica è fondamentale che TUTTO quello che postate su Instagram sia live. Ma, una volta tornati in camera, non potrete fare a meno di chiudervi in bagno – fingendo di dover fare la cacca -, per aggiornare il vostro profilo con le migliori foto della giornata. Presi dall’ansia di non poterle mai più caricare, ne butterete su centodue, ma senza un briciolo di gioia. Anzi, v’incazzerete pure. Il tempo che state sprecando attaccati al wi-fi, infatti, potrebbe essere splendidamente buttato alle ortiche in altro modo. In giro, ad esempio. A fare altre centodue foto indimenticabili.
Avete comunque optato per una meta lontana? Molto bene. C’è solo una cosa che dovete sapere: tutte le reti libere che trovate per strada sono delle stampanti.

Le persone vogliono la natura, l’orizzonte e il mare. Cieli pieni di nuvole che sovrastano strabilianti coste rocciose o imponenti picchi montani. Alla gente piacciono i paesaggi. Ma nei vostri paesaggi – tanto amati dalla gente – non ci deve essere altra gente. Se potete, quindi, evitate di andare in vacanza la settimana di Ferragosto. Fotografare una spiaggia deserta la settimana di Ferragosto è pressoché impossibile. Ci sono le signore con le teglie di melanzane fritte, i bambini che scavano voragini, i tipi che giocano coi racchettoni nella speranza di attirare un po’ di figa e i papà che gonfiano braccioli. A Instagram non piace l’umanità. Su Instagram funzionano le piazze deserte, le strade vuote, le coste disabitate, l’acqua limpidissima piena di riverberini e i nuvoloni burrascosi. Se proprio non vi danno ferie in un altro momento, puntate sul tramonto. La gente si leva dalle palle e, se il telefono non vi svirgola completamente le luci, rimedierete anche un glorioso gioco di colori che si riflettono sul mare. Sciambola!

Se mai vi venisse in mente di farvi una foto in costume da bagno, premuratevi di sdrammatizzare. Non avete il culo di marmo di Megan Fox, ma qualcuno potrebbe sempre accusarvi di volervela tirare. A Instagram non piace la gente che se la tira. Volete fare le fatalone? Verrete spernacchiate senza pietà. Difendete le vostre velleità da fashion blogger con una caption piena di giocosa autocommiserazione, tipo “Burrito on the beach”.

Il cibo è molto importante. Le persone, di base, si prendono bene con la roba da mangiare e sembrano interessatissime alla vostra dieta vacanziera. Più un alimento è pesante, indigeribile, grasso, fritto e MAIALOSO, più verrà apprezzato. Il problema, molto spesso, è la presentazione del piatto. Vi ingozzerete con quantità industriali di roba che, purtroppo, non è abbastanza bella per finire su Instagram. Potreste rinunciare a postarla o, presi dal panico, vi sentirete in dovere di ordinare un dolce – dopo aver ispezionato l’apposita vetrinetta refrigerata – solo per produrre un contenuto che documenti la meraviglia della vostra cena. Lo avanzerete dopo due forchettate, ma vi sentirete meno agitati.
Un’altra cosa a cui dovrete badare, andando a mangiare fuori, è la luce. D’estate è molto più piacevole sedersi all’aperto, ma l’illuminazione spesso insufficiente di cortiletti, pergolati e DEOR devasterà la vostre fotografie, trasformandole in un papocchio inutilizzabile e sfocato. Vedete voi: è più importante alimentarvi con quantità invereconde di specialità locali – in pace e serenità – o vantarvene su Instagram? CIOÈ.
Altro aspetto da non sottovalutare, in caso la cena offenda sia l’occhio che il palato, è IL POSTO. Nel dubbio, scegliete un ristorante fotogenico e bizzarro. Non fate i milanesi. Non andate a infrattarvi in uno di quei posti minimalisti, coi mattoni a vista e l’aria da spazio industriale dismesso. Instagram ama il rustico – ah, il fascino popolare della trattoria coi piatti sbeccati! – o i ristoranti che somigliano a un caffè viennese stracarico di carabattole di vostra nonna. Magari mangerete di merda, ma una foto super cuoriciabile ve la porterete a casa. Vittoria!

Instagram, nel periodo estivo, non tollera la pigrizia. Andatevi a cercare delle cose pazze da fare. E presentate ogni attività come una chicca nascosta del posto che state visitando. La gente è stufa del mainstream. La gente vuole il backstage, quello che non si trova sulla guida. Fate finta di vivere lì da cent’anni e non dedicatevi a nulla di normale. Infilatevi nei vicoli. Visitate botteghe dimenticate da Dio. Cercate i pazzi del paese. Buttatevi da una scogliera che nessuno ha ancora scoperto. Rincorrete i gechi. Fate parapendio con una testa di cavallo di plastica sulla testa. Rubate una fisarmonica. Arrampicatevi sulle piante e frugate nei nidi degli uccelli. Scovate animali rari e misteriosi. E raccontatela con allegra noncuranza – cioè, siete speciali… è ovvio che anche le vostre foto siano speciali. Perché Instagram non ne può più di piedi nella sabbia. Instagram vuole il kraken che emerge dalle acque, stringendo un capodoglio agonizzante in ogni tentacolo.

Vi siete dedicati al paesaggio, al FOOD e al FUN, ma non potete assolutamente tralasciare l’arte. L’ultimo libro che avete letto era per i compiti estivi della terza media? A teatro v’addormentate? Fate le scoregge con l’ascella e vi sentite dei musicisti? La calzamaglia bianca di Roberto Bolle vi fa ridere fragorosamente? Non importa. Capire è secondario. Quello che conta è il gesto. La gente ama genericamente IL BELLO – perlustrate dunque i siti archeologici più disparati, correte in tutte le chiese, piantonate le botteghe degli artigiani, schieratevi alla festa del patrono, rompete i coglioni con persiane romanticamente scrostate e sorbitevi almeno una mostra (non importa quanto irrilevante) – o, se proprio non trovate niente esteticamente piacevole da immortalare, sappiate che la gente ama anche lo strambo – basta che sia incredibilmente TIPICO. Il compromesso d’oro tra le due categorie è la street-art. Avventatevi sui murales – trovando il modo di trasformarli in un imperdibile scorcio urbano – e dannatevi l’anima dietro a stencil, poster strappati e adesivi appiccicati sui semafori.

Siete in vacanza in compagnia? Applaudite gli amici che vi abbandonano per ore intere salutandovi con “andiamo a fare le foto”. Siete tornati a casa dopo un lungo periodo di latitanza? Costringete vostra nonna a posare con voi. La nostalgia per la casa natia e i selfie pieni di affetto per i parenti lontani – più vecchi sono, meglio è – vanno un casino quest’anno.

Soprattutto, però, Instagram ama i SHOGNI. La gente vuole vedervi in barca. La gente vuole le piscine a sfioro, i cocktail giganti, gli attici pieni di luce e i roof-bar. Le spiagge coi lettini a baldacchino e gli ombrelloni con le foglie di palma. I party in spiaggia con le fiaccole fiammeggianti. Siete ricchi? Non c’è problema. Non siete ricchi? Appellatevi al magico potere delle piccole cose. Devastate i vostri follower con la dolcezza infinita delle mini-gioie quotidiane. La poesia del viaggio. Il gusto per i dettagli nascosti. I gatti randagi macilenti che sonnecchiano in uno spicchio di sole. Un fiore caparbio che cresce in mezzo a una pietraia battuta dalle intemperie. Un castello di sabbia. Un sassolino colorato. Fate finta di disprezzare i resort balinesi a mille stelle, prendete la cartaccia di un Liuk e spacciatela per un prezioso origami. Avvicinatevi alle stronzate più insignificanti con il rispetto e la commozione che riservereste alla lacrima iridescente di un unicorno. La gente di Instagram capirà. Perché la gente, d’estate, è più sensibile.

Cuori a voi, dunque.
Trovate un last-minute e fateci vedere chi siete.
Andate… e fotografate.
Sarà un luminoso successo.
…è il ritorno, che crea problemi.