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Da quant’è che non andavo a teatro? Quasi due anni, se dobbiamo fare un calcolo avvalendoci di una misura del trascorrere del tempo convenzionalmente condivisa. Più o meno tremila, invece, se vogliamo servirci di un’unità di misura un po’ più sentimentale. Sono una spettatrice curiosa e molto propensa a lasciarsi affascinare da quello che succede sul palcoscenico, pur avendo ancora larghissimi margini di manovra sul fronte delle conoscenze drammaturgiche. Il mio sogno è un po’ quello di diventare una di quelle sciure milanesi con le perle, il foulard di seta, la borsetta inestimabile, l’atteggiamento ipercritico, la piega fatta e l’abbonamento al Piccolo. Loro sì che hanno capito come si sta al mondo – nonostante siano stranamente propense a mettersi gli orecchini con la clip.
Comunque.
La scorsa settimana sono andata a vedere “Freud o l’interpretazione dei sogni”. Regia di Federico Tiezzi e testo di Stefano Massini, che già “conoscevo” per i miei trascorsi einaudiani e per Lehman Trilogy, che avevamo visto nella monumentale e favolosa versione integrale di cinque ore e passa, sempre messa in scena al Piccolo. Prima della rappresentazione abbiamo avuto la fortuna e il vasto onore – grazie alla saggia intercessione di Intesa Sanpaolo Giovani – di chiacchierare con Marco Rossi (che per il Freud si è occupato della scenografia) e con il costumista Gianluca Sbicca, che ci ha anche portato a visitare la sartoria del teatro, antro degli stuporoni – e delle scatole dai contenuti più imprevedibili.

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Ma procediamo con un vago senso logico.

Il testo di Massini è un viaggio onirico/metodologico all’interno di una delle opere che hanno segnato il Novecento, cambiando per sempre la percezione della nostra vita interiore. L’interpretazione dei sogni è già uno scritto dallo straordinario potere narrativo. Sigmund Freud è un “autore” dalla penna felicissima, un abile costruttore di intrecci che ha saputo (o voluto) appoggiarsi alla scrittura come strumento fondamentale per decifrare l’insondabile. Massini lo trascina nella rappresentazione, così come ogni paziente finiva per risucchiarlo nei propri turbamenti, invitandolo (più o meno volontariamente) a smontare e maneggiare la materia disordinata e misteriosa del sogno. Lo spettacolo è un tragitto dalle molteplici facce e destinazioni.
È un viaggio che racconta la costruzione di un metodo – perché insieme a Freud ripercorriamo le tappe fondanti della teoria psicanalitica, dai casi clinici all’ipnosi -, ma anche un racconto che procede per accumulazione di dubbi, scoperte, cantonate e punti di svolta – che viviamo grazie alla processione, spesso dolentissima, dei pazienti che bussano alla porta di Freud per liberarsi di qualcosa di innominabile che li angoscia o li intrappola nella vergogna, nella paralisi completa, nell’incapacità di abitare davvero il mondo o anche solo il proprio essere. Ma è anche – e forse soprattutto – un viaggio fra i diversi piani della coscienza, una commistione tra realtà taciute e sogni che gridano la verità in un linguaggio che acquista senso solo se destrutturato, decodificato, rivelato.

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Al centro di tutto c’è la figura di Freud – evviva Fabrizio Gifuni! – che non ci appare come uno scienziato eroico e infallibile, ma come un essere umano a sua volta alle prese con il demone del fallimento, con le grandi indecisioni di un metodo che va formandosi per stratificazioni e incontri. Una persona che rifugge da chi appare sopraffatto da un fardello di ossessioni che somigliano troppo alle proprie ma che, al contempo, non può fare a meno di governare con divorante curiosità un microcosmo di pazienti che potrebbero ritrovarsi a tributargli, un giorno, la loro eterna gratitudine. Un sognatore tra i sognatori, insomma, diversamente – ma comunque – tormentato da tarli, ricordi e ambizioni.

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Il risultato di tutto questo, nel testo di Massini, è una perfetta compresenza tra riflessioni del medico e degli afflitti che sfilano nel suo studio, tra sogni “decifrati” e sogni ancora misteriosi, tra realtà studiata e realtà onirica. Lo spettacolo stesso ha la struttura di un gigantesco caso clinico, in cui Freud si muove per decifrare se stesso mentre si addentra nella psiche altrui.
PERBACCO CHISSÀ CHE CASINO.
E invece…
Uno spettacolo “funziona” se il testo ha la possibilità di vivere in uno spazio, di trovare voci e movimenti capaci di rendere giustizia alla sua complessità, rendendola però fruibile, chiara per noi quanto possono esserlo quelle verità che si appigliano al nostro istinto, diventando limpide anche quando indagano una materia oscura e mutante come il sogno. E tutto questo, tra le altre cose, è compito della scenografia.
Marco Rossi ci ha raccontato – redarguendo anche un solertissimo addetto di scena che stava passando l’aspirapolvere in vista dello spettacolo serale (ma noi ti vogliamo bene, signore con l’aspirapolvere!) – gli aspetti più impervi del lavoro su un materiale come quello di Massini, che riunisce sullo stesso palco – contemporaneamente – il tangibile e l’immaginario. La scena è divisa in “piani”, separati da una barriera di porte che si spalancano a turno per lasciar filtrare quello che ribolle sotto la superficie, come una rete, che separa fisicamente ma resta comunque permeabile. Ma i sogni vengono anche raccontati, non solo “visti”, e capita che il piano immateriale da rappresentare sia quello delle riflessioni di Freud. E il pensiero, il lavoro di scomposizione e di sintesi, di condensazione e spostamento, diventa parola che appare fluttuando – ma proprio con delle scritte luminose, fatte di termini chiave o di punti salienti che ci aiutano ad orientarci, come una mappa, come se il taccuino dello psicanalista fosse anche un po’ in mano nostra. Quello che “c’è” sul palco è ridotto all’essenziale e, abbiamo scoperto, è anche stato realizzato a partire da materiali di scarto… proprio come i sogni, che rubano pezzetti di memoria o frammenti indigeribili per la coscienza,  trasformandoli in qualcos’altro, che ci risulta al contempo familiare e alieno. Un principio che ritroviamo anche nel lavoro sui costumi, mi viene da dire.

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Gianluca Sbicca, il costumista del Freud, ci ha fatto da guida tra bozzetti e moodboard utilizzati per dare vita allo spettacolo di Tiezzi e Massini. L’ambientazione della Vienna di inizio ‘900 riaffiora nella scelta dei materiali e delle stampe – l’ispirazione visiva per tagli e fantasie, infatti, è proprio quella della secessione viennese. I motivi sono spesso ripresi da tappezzerie d’epoca e modelli “storici”, che ritroviamo sul palco in una nuova veste o riplasmati con il velluto, una stoffa scelta proprio per la sua natura cangiante e mutevole. I pazienti di Freud indossano anche i loro demoni, e gli abiti che portano raccontano il percorso di guarigione. All’inizio li vediamo aggirarsi per la scena con grandi maschere animalesche, che li accecano e li rendono irriconoscibili. Man mano che il lavoro psicanalitico prosegue, però, i colori dei costumi si fanno più vivaci e i testoni zoomorfi spariscono per lasciare il posto alle persone che ci sono sotto.

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Lo spettacolo si chiude con una soluzione scenica (e pure concettuale) davvero potente, che trasforma anche lo spettatore – al pari dello psicanalista – in sognatore depositario di costrutti irrisolti. Ma, visto che fino all’11 marzo potete ancora andare a vedere Freud a teatro – ecco qua i riferimenti dello spettacolo – non credo di volervela spoilerare troppo. Per chi volesse approfondire il testo di Massini, invece, ecco qua il tomo. Per vederci vagare a teatro, poi, qui ci sono un po’ di foto.
Non mi resta che ringraziare Intesa Sanpaolo Giovani per l’ospitalità e il Piccolo Teatro per la magnifica rappresentazione e per averci permesso di invadere preziosi spazi di lavoro. Un grazie sentitissimo anche alle sciure milanesi della terza fila, per avermi mostrato la via da percorrere.
Rifacciamolo presto.

*

[Le foto di scena sono di Masiar Pasquali e arrivano da qui].

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A Venezia c’ero stata con MADRE e il mio papà quando avevo 7 anni. Visto che, come tutti i bambini regolamentari, la mia statura si aggirava attorno al metro e quaranta, di Venezia mi erano rimasti ben impressi solo i culoni degli altri turisti, un casino di scale e il Ponte di Rialto. E un ciondolo bellissimo che mi aveva comprato MADRE. Era un sacchettino di vetro con dentro un pesce rosso… che, per carità, va bene, ma è un po’ poco: c’è gente che scrive libri su Venezia da secoli, e nella mia memoria c’erano soltanto dei culi, dei sandali brutti e MADRE che si scandalizza per il prezzo dei giri in gondola. Avevo anche il marsupio, adesso che mi ci fate pensare.
Quando mi hanno chiesto se volevo andare a Venezia per la giornatona Bombay Sapphire – che se avete voglia c’è anche un post, allora, mi sono subito emozionata molto. Finalmente ci tornerò, da grande! E ho anche tutti questi consigli su dove andare a mangiare delle cose nei posti frequentati da AUTOCTONI-col-Pedigree che mi ha scritto @martinaemme, dedicandomi ore della sua vita. E solo perché è una persona gentile! E niente, sono partita con grande gioia. Il Carnevale! L’acqua! Un giorno di ferie! Assassin’s Creed!

Solo che io non ho il senso dell’orientamento.
E le folle oceaniche un po’ mi agitano.
E mi sentivo un po’ in colpa a vedere tutta quella bellezza senza potermi girare e dire delle cose ad Amore del Cuore.

Ma poi ho trovato il modo di prenderla bene.
Volevo andare alla famigerata libreria Acqua Alta – libri usati, umidità devastante e gatti da tutte le parti – ma non ci sono mai arrivata. Secondo le mappe di Google era da qualche parte lungo il muro di cinta dell’Ospedale, quello a picco sulla laguna. Tutti palombari, i frequentatori della libreria Acqua Alta. Una persona perbene ci sarebbe arrivata, però, con o senza indicazioni fuorvianti e 3G che funziona a intermittenza. Io no, sembravo un cincillà gigante che fa la spesa al supermercato. Ad un certo punto, un anziano cittadino – visibilmente impietosito – mi ha pure aiutata a capire vagamente dov’ero, ma poi s’è accorto che manco lui si ricordava più tanto bene dove abitava e mi ha abbandonata, farfugliando qualcosa sulla distribuzione dei numeri civici veneziani. I numeri civici veneziani sono esagerati e messi giù a caso. 5436, 2344, 1798. Che è. L’anziano cittadino mi ha detto che lì le cose funzionano diversamente: non c’è la strada coi suoi numeri che cominciano dall’1 e arrivano dove devono arrivare. Lì sono progressivi, per “quartiere”, tipo. Io mi sono immaginata Casanova con un jetpack che sorvola la città tirando i bussolotti della tombola sui tetti, gridando OSTREGHETTA di tanto in tanto. E niente, mi sono rassegnata. Visto che non sarei mai stata capace di raggiungere una meta qualsiasi, ho cominciato ad andare dove mi portavano i piedi e tante care gondole a tutti. Trattandosi di Venezia, è stato un successo.

Ma vi mostro le diapositive commentate delle ferie, che facciamo prima. È un misto del primo giorno (è per quello che il pranzo è così sfarzoso) e del secondo giorno (è per quello che non c’è roba da mangiare… ero così atterrita dalla possibilità di perdermi per sempre che mi sono scordata di alimentarmi. C’era il sole, però).

Ho scoperto che Venezia è una città interamente composta da scorci memorabili. Giri un angolo e c’è sempre qualcosa che cade a pezzi con una grazia struggente. Cammini, ti guardi attorno e non ti spieghi come sia possibile che esista un posto del genere. Non ci sono nemmeno i negozi che vendono cibo. I veneziani vivono di intonaco fradicio, probabilmente. Mangiano le persiane. Hanno le radici aeree.

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I fabbricanti di costumi sfarzosi mi hanno fatto venire in mente che, con la mia corporatura, ho proprio scelto il secolo sbagliato per nascere. Diciamo basta agli hipsterici vestitini rettangolari, io voglio un corsetto che sembra una Viennetta.

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Questa calle è una tappa obbligata per ogni turista disorientato. Dopo averla invocata ad ogni svolta sbagliata, ad ogni ponte che non è dove te lo immaginavi, ad ogni incomprensibile deviazione, la Madonna appare a modo suo.

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Per fare questa foto ho tagliato la gola a undici cinesi (tutti con il gilet da pesca, quello con tantissime tasche), sei romani che pensavano che il ponte fosse il loro e quattro ragazzine che avevano riciclato i costumi di Halloween. I gondolieri, nel frattempo, sembrano in coda al casello.

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Uno ormai associa i cigni a Natalie Portman che danza sulle punte con un tutù di Rodarte.  Poi ti ritrovi a passeggio lungo un ameno canale e ti imbatti in una persona di 120 chili vestita da cigno, con tanto di scarpetta-zampetta e piume. Dalla foto non si capisce bene, ma la gonna bianca (diametro metri 3) era tempestata di cignetti neonati. E il cigno-copricapo sfiorava le finestre delle abitazioni del primo piano.
I veneziani che vanno in maschera devono avere delle case molto grandi. Un costume del genere ha bisogno di un armadio solo per lui, non può convivere con gli altri indumenti, è troppo grosso, troppo piumato, troppo voluminoso. Veneziani in maschera, come diavolo li riponete i vostri costumi?

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Pausa-pranzo

Quello che posso dirvi è che non è lontano da Piazza San Marco. Ma è meglio se provate ad arrivarci da soli. Ristorante Al Covo, l’unico posto al mondo dove ti portano uno sgabellino imbottito dove appoggiare la borsetta e continuano a ripeterti di stare attenta ai gradini perché c’è chi è cascato in terra rischiando seriamente la vita. Dislivelli letali a parte, c’erano numerose porcellanine adorabili e ho mangiato delle bontà. Visto che nessuno si vergognava di fare le foto al cibo, è stato tutto rigorosamente documentato. La polpa di granchio dentro a un vero guscio di granchio placcato in argento, però, non ho fatto in tempo a immortalarla perché era troppo buona ed è scomparsa all’istante.

tegamini baccalà al covo veneziaL’Unesco dovrebbe proteggere il baccalà mantecato con ogni mezzo.

Questo qua non è un Gesù in croce ma è una coda di rospo. Ogni volta che pulisco un pesce mi viene in mente che ho delle mani d’oro e che dovevo fare il cardiochirurgo.

Questo qua, invece, è uno di quei gloriosi tortini con il cioccolato caldo dentro. Poi ci hanno anche portato gli sgonfiottini zuccherosi di carnevale, che erano ancora più buoni e magicamente leggeri. Ho cercato di calcolare quanti sgonfiottini sarebbero serviti per riempire una stanza, ma ho fallito. E ne ho inghiottiti altri tre, per sentirmi meno inadeguata.

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Guai a te se ormeggi. Ti percuoteranno a colpi di remo, ma di taglio.
Cioè, non è manco un cartello: è un blocco di granito con un’iscrizione viabilistica… per delle imbarcazioni che non esistono in nessun altro posto al mondo. Ci dovevano scolpire sopra un divieto di sosta, col cerchio sbarrato. E delle pietruzze colorate per il rosso e il blu. Basta, Venezia è una città assolutamente strabiliante e inverosimile.

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Una volpe rossa che truffa una signora, ipnotizzandola coi merletti.

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canale tegamini supersegreto

Per fare questa foto ho rischiato di annegare. C’era un vicolino piccolino, con in fondo un portone bellissimo e tutta questa magica luce coi riflessini da piscina. E andiamoci a vedere. Il vicolino finiva nell’acqua, in questo canale silenziosissimo e proprio meraviglioso. Non c’era un’anima, e io volevo vedere bene di qua e di là. Solo che avevo paura a sporgermi, visto che non c’era niente a cui attaccarsi. Allora mi sono appiattita al muro come una bavosa di scoglio e ho allungato un braccio e ho fatto una foto tutta storta, perché anche il resto del mondo doveva scoprire che esiste un posto del genere. Non rende la magia della LOCHESCION, ma ancora non deambulo sull’acqua.

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L’uomo-pavone in pausa sigaretta. Perché anche le maschere si affaticano e sudano sotto al primo sole di primavera.
…è anche vero che te la sei andata a cercare, uomo-pavone.

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Comuni cittadini che vanno in giro sulla loro barchetta, superando senza fare una piega anche gli angoli più disagevoli. Bisognerebbe tornare a Venezia per vedere come funzionano le scuole guida. Ci sono solo quelle che distribuiscono patenti nautiche? E se uno vuole guidare una macchina vera dove va? A Mestre? Le donne veneziane le prendono in giro perché non sanno ormeggiare, o anche lì esistono le battutone sul parcheggio?

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Ma giustamente. E spero che abbiano già pensato a una qualche forma di convenzione turistica: compra un’ampolla di vetro di Murano e usala per berci dentro uno spritz all’enoteca, col 50% di sconto.

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Intanto che siamo in tema affissioni, vorrei anche segnalare la bellicosa presenza degli stencil, dei posteroni e degli appiccichini di Venezia Land. Da quel che ho capito, è un movimento-streetartistico di DENUNZIA contro il degrado prodotto dal turismo becero e incontrollato. Venezia non è un Luna Park! Per dirlo (e accrescere grandemente l’avvenenza della laguna), tempesteremo i palazzi di ciccione in pantaloncini!

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I gondolieri sono molto vanitosi. Alcuni cantano anche. E fanno il limbo per passare sotto ai ponti più bassi.

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E qua ci sono io con un tricorno in testa. Per attenuare la sensazione di smarrimento e labirintite, mista a nostalgia per Amore del Cuore e mal di piedi, ho acquistato un tricorno fatto a mano da un vero artigiano/mascheraio veneziano. Si sa, i tricorni fanno bene all’anima. E si sa anche che smarrirsi con in testa un tricorno è comunque meglio che smarrirsi a capo scoperto. Erano anni che volevo un tricorno. Chiederò al futuro istruttore di equitazione se posso usare il tricorno invece del cap. Non che il cap sia brutto o inutile, chiaro, ma ci vuole anche un po’ di senso del teatro. “Guarda il lampo che laggiù attraversa il cielo blu”, quelle robe lì. Pirati, pugnali, nobiltà e rondate sui cornicioni. E la missione dei prossimi mesi sarà trasformare il tricorno in un copricapo accettabile per l’uso quotidiano in una città come Milano.
Tié.

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E adesso sono rimasta fregata. Perché la foto più bella l’ho usata all’inizio. E tutte quelle che ho di Piazza San Marco sono piene di gente che mi smanaccia nell’inquadratura. O di bambini seduti su sgabellini pericolanti che si fanno impiastricciare la faccia da scoordinatissimi truccatori di strada. Poltiglie di coriandoli da tutte le parti. Momenti di acutissima misantropia e sciabordio di onde. Nonostante il delirio carnevalesco e i vaporetti con la gente abbarbicata alle ringhiere, però, sono molto contenta che esista Venezia. Mi sono smarrita in ogni modo possibile, ho fatto tantissime scale e mi sentivo un po’ sola, ma quel che avevo attorno – chissà dove, poi – era sempre una specie di meraviglia fluttuante. Venezia è proprio la città degli stuporoni… e ci voglio tornare con qualcuno che amo. E che non si perde.