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Mentre l’umidità ci assedia, la pioggia battente ci flagella e cerchiamo di venire a patti con l’oscurità incombente – giuro, mai capirò che cosa diamine dovremmo farcene di un’ora in più di luce fioca al mattino quando potremmo beneficiare di pomeriggi più lunghi E INVECE NO TRASFORMEREMO LE VOSTRE GIORNATE IN UNA TOMBA UMIDA DI BUIO ALLE 15.23 SCUSATE PATISCO MOLTISSIMO IL MESE DI NOVEMBRE -, dicevamo, mentre il panorama attorno a noi si fa desolante e la speranza ci abbandona a poco a poco, Stefania Bertola appare per restituirci un po’ di gaiezza.
Sono persuasa da tempo immemore del valore quasi balsamico dei romanzi di Stefania Bertola. Non parlerò di “intrattenimento intelligente” – anche se è vero -, perché poi pare sempre che si debba creare una gerarchia antropologico-meritoria dell’umano impulso al divertimento e all’alleggerimento del cuore, ma è innegabile che la sana leggerezza di cui la nostra autrice è ormai portabandiera autorevolissima sia anche foderata della migliore arguzia e di un occhio acuto per il dettaglio minuto e quotidiano che molto contribuisce a fotografarci come un agglomerato collettivo di fissazioni, nevrosi e tran tran relazionali, dalle mura di casa allo scaffale dei preparati in scatola per far finta di aver prodotto una pizza regolamentare.

Con Le cure della casa (Einaudi), Bertola ci presenta una nuova schiera di protagoniste variamente alla ricerca di una casellina dignitosa da occupare nel mondo.
Lilli veleggia verso i cinquanta, la sua lunga carriera in azienda si è conclusa – AKA l’hanno congedata senza troppe remore – ed è naufragato anche l’improbabile progetto imprenditoriale che aveva deciso di avviare con un’amica – il business delle borsette fatte di cerniere non si è rivelato eccessivamente redditizio… chi l’avrebbe mai detto. Con una figlia migrata a Venezia per l’università, una colf dimissionaria che finalmente è riuscita a farsi assegnare l’ambito incarico di portinaia e una rendita immobiliare cortesemente piovutale tra le mani grazie alla dipartita di una zia ricca, Lilli si appresta ad affrontare un capitolo del tutto inedito della sua vita: farà la casalinga. Nonostante il biasimo della madre – femminista militante della prima ora -, le perplessità del marito e attitudini non proprio spiccatissime, Lilli si arma di Cif, panno in microfibra e tessera punti di Acqua & Sapone per far sfolgorare le superfici che la circondano e provare a riprendere il controllo dell’unico universo che può dire di padroneggiare davvero: il suo appartamento.
Dagli effetti devastanti di Pinterest alle virtù del purè Pfanni, Lilli farà del suo meglio per aderire al mito dell’impeccabile donna di casa, scoprendosi all’improvviso padrona del suo tempo e anche assai più avventurosa del previsto. Perché nella sua vita c’è stata almeno una casalinga perfetta che le piacerebbe prendere a modello, un’amica d’infanzia che già in tenerissima età pareva fregiarsi di virtù muliebri che Lilli ammirava come si ammirano le qualità altrui che mai saremo in grado di replicare. Ripensando a Noemi, che da decenni si è volatilizzata dalla sua vita – così come dalle vite di chiunque altro l’abbia conosciuta -, Lilli si mette in testa di ritrovarla, innescando una reazione a catena di incontri improbabili, misteri, menzogne e colpi di testa.

Le cure della casa è un delizioso plurilocale che contiene almeno tre ambienti: la storia di una donna che si confronta volontariamente con una scelta identitaria diventata impopolare tra le sue simili, un’indagine che mira a stanare una persona scomparsa, un manuale di economia domestica.
Che c’è di male nel voler fare le casalinghe?
Dove diamine è finita Noemi e perché nessuno l’ha mai più sentita?
Di quanti ammorbidenti ha davvero bisogno l’umanità?
Quello che Lilli cerca di fare, nello sgangherato percorso tracciato da questo libro spassoso e pungente, è abitare la zona disordinata della scelta individuale, concedendosi la libertà del tentativo e dell’esperimento. Lilli trasloca in quel margine di dubbio che spesso non ci concediamo di sviscerare e, facendoci divertire mentre spedisce mail ampollose al servizio clienti della Barilla o compila un quaderno pieno di indicazioni pratiche – per quanto approssimative – per sua figlia Iris, credo cerchi di dirci una cosa importante: nessuno è autorizzato a dirci che cosa dobbiamo o non dobbiamo fare. Non so neanche come si accende un ferro da stiro, non possiedo argenteria da lucidare e mi auguro vivamente che le fughe delle mie piastrelle trovino il modo di detergersi da sole, ma Lilli ci offre  un paradosso eloquente: anche decidere di trasformarsi nel prototipo di una donna “obsoleta” è una forma di libertà che presuppone una possibilità di scelta. Ed è proprio per ampliare quella possibilità di decidere – senza mai darla per scontata, perché scontata non è ancora – che vale la pena continuare a intestardirsi.
Lilli mi ha convinta a imbracciare secchio e mocio a tempo pieno? Zero. Ma sarò pronta a sostenerla strenuamente nella sua lotta impari contro gli aspirabriciole che NON ASPIRANO.

Esordirò con un’osservazione un po’ ridicola. La quarta di copertina m’aveva infuso un certo senso d’allarme perché Mio, la nostra protagonista, pare lì per lì motivatissima da un unico scopo: utilizzare la sua vista prodigiosa – per quanto fisiologicamente fondata – per attribuire un colore specifico a ogni singolo essere umano che incontra. E io, che sono arida e tendente all’assurdo, ho subito pensato ECCOCI QUA, UN ROMANZO SULL’ARMOCROMIA… MA IN GIAPPONE! Alla faccia della mia pochezza d’animo, però, Le vite nascoste dei colori di Laura Imai Messina – in libreria per Einaudi – si prefigge scopi ben diversi, con la delicatezza di un’ala di farfalla.

Che accade in questo libro? Dipende dall’occhio.
La dorsale principale – a livello di movimento di trama, almeno – è quella dell’incontro tra Mio e Aoi, che nasce come fortuita collisione tra cuori carezzevoli ma nasconde trame e predestinazioni che arrivano da lontano.
Mio è l’ultima discendente di una stirpe di creatori di kimono nuziali, l’indumento più complicato e ricco di significati simbolici della produzione indumentaria del Giappone tutto. La sua famiglia gestisce con sapienza un atelier specializzato in shiromukudalla tintura del tessuto alla vestizione della sposa. Mio è cresciuta sbirciando di soppiatto le giovani donne assistite dalla madre e dalla nonna, ma anche beandosi delle innumerevoli sfumature della stoffa. Il suo rapporto col colore è totalizzante, ma non tanto per sghiribizzo o ossessione. Mio è strutturata, proprio a livello ottico, per percepire una gamma cromatica molto più ampia del consueto e questa capacità di vedere il colore e di interpretarlo diventerà il suo cammino d’elezione, anche da grande. Il fatto che Mio veda più sfumature degli altri – e che cerchi di descriverle costruendo, di fatto, un vocabolario prodigioso che un po’ attinge dalla storia e un po’ vive d’accostamenti suggestivi – non la trasforma in una mazzetta Pantone ambulante, ma in una sensibilissima cartina tornasole che cattura anche quello che si agita sotto la superficie.

[Parentesi di puro fascino visivo: lo shiromuku è fatto così. La foto viene da qua.]

E Aoi? Aoi ha un’impresa di pompe funebri. Se la famiglia di Mio affianca chi, col matrimonio, sta per intraprendere una vita nuova, Aoi è custode dei riti che governano il corpo dei defunti e consolano i rimasti. È un ragazzo gentile, abituato a confrontarsi con le persone durante i momenti in cui meno vorremmo essere visti – mentre soffriamo, mentre ci separiamo da chi abbiamo amato. Anche nel suo caso, non pare sia un talento che nasce dall’allenamento o dal quella patina di cinismo disincantato che finisce quasi sempre per rivestire chiunque svolga un mestiere – e lo svolga bene – per un lungo lasso di tempo. Aoi non ha timore della morte perché è nell’accudire la vita – che si tratti di un giardino o di chi incontra – che si radica davvero il suo talento. E Mio, che sta invece al mondo col freno a mano tirato, timorosa di scoprirsi, di sbilanciarsi nel sentimento e di finirne incenerita come già ha visto accadere, più che alla vita che prosegue pensa al passato che non si può più modificare. A paralizzarla, forse, è la vastità delle possibilità che intravede nello spettro cromatico – che si tratti di fiori o di anime – che rende ricchissimo ma anche soverchiante il mondo in cui si aggira. L’unico a cui non riesce ad attribuire un colore, però, è proprio Aoi. Ed è da lì che comincerà il loro cammino.

Mi sono ingrovigliata già a sufficienza su Mio e Aoi, ma il loro incontro non è l’unica tesserina del mosaico. È un libro che parla di famiglia e di identità, di ricordi inattendibili – perché filtrati dalle sensazioni che un ricordo inevitabilmente ingloba, di responsabilità, scelta, eredità e sacrificio. Come il colore di una persona poco si intuisce se quel dono ci manca, tanto di quello che è davvero decisivo può restare taciuto e sepolto, anche se modifica in maniera irreparabile la nostra rotta.
Insomma, se il nucleo sono Mio e Aoi – e i loro sguardi complementari -, tantissimo fa anche l’atmosfera e l’accurata levità di Laura Imai Messina. Parte del fascino che, da lettori “altri”, attribuiamo a un romanzo ambientato in Giappone si annida anche in quello che di quei posti ci viene permesso di scorgere, credo. La precisione dello sguardo di Mio non troverebbe espressione senza una cura analoga della parola e del contesto. Quel che ci viene restituito è un Giappone fatto di piccoli quadri ricchi di dettaglio che mettono in comunicazione il nuovo con l’antico, la tradizione col quotidiano. Già l’esplorazione dei colori è un campo di gioco significativo, perché riesce ad abbracciare sia estetica che bagaglio simbolico, radicato in una cultura che col colore cercava di catturare l’armonia, ma organizzava anche il funzionamento gerarchico dei suoi gruppi sociali, tanto per fare un esempio. Ed è mettendo in fila tanti minuscoli moti dell’animo e facendoci pensare a quale mai potrebbe essere la sfumatura della parte posteriore della foglia del salice o del fondo di un armadio che Laura Imai Messina traccia per noi la parabola volubile e complessa di un amore che sboccia. E quando accade? Quando, finalmente, scegliamo di mettere da parte la paura e di correre il rischio di ricorrere alla verità… svelando i nostri veri colori.

– Michele?
– Dimmi.
– Ti chiami Michele, giusto?
– Sì. Scusa. Otto anni.
– Sono otto anni che lavori qui?
– Otto anni e sette mesi.
– E ti trovi bene?
– Abbastanza.
– A me qui piace tantissimo.
Gervasini grattò con la punta della forchetta la base della collina giallognola. Niente da fare. Persino il purè era più forte di lui.
– Senti Adele, io non ti conosco. Ma…
– Facciamo finta che ci conosciamo. Così è più semplice.
– Ok. Allora, posso chiederti una cosa?
– Certo.
– Sicura?
– Sicura.
– Come fa a piacerti tantissimo un posto dove la gente si ammazza?

Peppe Fiore, Nessuno è indispensabile
Einaudi (i Coralli)

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Non si lavora. Si lavora troppo. Si lavora bene ma nessuno se ne accorge. Si fa finta di lavorare, tanto c’è sempre un pirla che si prende la colpa. Si timbra il cartellino quattro volte al giorno. Non si timbra perchè col progetto non c’è da timbrare. Ad agosto non si può accendere l’aria perchè la tua collega ha i bronchi di cristallo. Ad agosto devi stare a meno sei perchè la tua collega in menopausa deve tenere a bada le scalmane. Ci sono quelli che hanno la firma in fondo alla mail, quelli che scrivono mail come se fossero verbali dei carabinieri, quelli che si personalizzano il carattere perchè l’Arial 10 è da impiegato senz’anima. Scrivanie con foto di cani. Scrivanie con foto di bambini. Tutti hanno una tazza, te hai un portamatite di plastica. Il temperino non ce l’ha mai nessuno. Tutti attaccano qualcosa di straordinariamente originale alla chiavetta del caffè. La macchina del caffè non caccia latte neanche a pedate. Se c’è il latte, non vengono giù le palettine per mescolare la roba. La chiavetta del caffè le distribuisce sempre una persona importante, che non è mai quella che custodisce i buoni pasto. I buoni pasto li hanno gli stagisti e quelli col contratto. In ogni caso, sono sempre di almeno un euro sotto a quanto mangi effettivamente. Si scorgono tupperware pieni di pasta vecchia, i salamini Beretta nella pratica confezione con lo scompartino per i taralli, le piade del bar che ti fanno venire sonno, i cous-cous organico che non si capisce se vada mangiato caldo o freddo. La mensa c’è se lavori in uno di quei posti scomodissimi fuori città. Se lavori al confine tra la città e la non-città sei fregato, non c’è la mensa e l’unico bar dei dintorni è in mezzo a un deserto nucleare, punteggiato dalle ossa dei grandi rettili del passato. E la benzina costa. E i mezzi non funzionano. La metro è comoda, ma poi arrivi in ritardo perchè ci sono quelli che si gettano sulle rotaie. Leggi il Leggo. E in Metro leggi Metro. Alle fermate all’aperto leggi City. L’unica differenza è l’oroscopo. Passano sempre dei piccioni, poi volano via e te devi andare in ufficio e allora li guardi e ti ritrovi su un marciapiede a domandarti come sei riuscito a produrre un sentimento d’invidia per dei piccioni. E allora entri e passi il resto della giornata a cercare di capire perchè sei lì.

Non credevo che venisse così lungo, il benedetto preambolo. Sarà perchè l’ufficio confonde. E debilita anche un po’. Il fatto è che l’ufficio produce anche una girandola di emozioni e sentimenti assolutamente non richiesti. Sarà che ci si passa troppo tempo per far finta che non stia davvero capitando a te, alle tue variopinte occhiaie e alle tue lauree. Allora ti adatti, ti arrabbi, ti stanchi, qualche volta ti diverti e immancabilmente inveisci come un vichingo contro le trattenute. Ma poi capisci che ti è andata bene, perchè alla Montefoschi, nobile azienda a ex-conduzione familiare per la produzione di latte e derivati, c’è chi decide di darsi fuoco nell’armadio delle scope.

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Raggiunse lo schedario di alluminio verde alle spalle di Gervasini, infilò il faldone nel cassetto della lettera C. Tornò a sedersi, e concluse: – La paura, Gervasini. La nostra cara, umana, preziosa paura. L’unica forma di democrazia che resiste al tempo. Altrimenti perchè crede che la gente si uccida?
– Lucia Frangipani non aveva paura di niente.
– E lei cosa ne sa? I colleghi sono persone fino a un certo punto. Per questo si chiamano risorse umane.

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Nessuno è indispensabile è un libro pieno zeppo d’intelligentissimo e malvagio divertimento. Imperscrutabili mucche in vetroresina, gente che s’ammazza in ufficio, agghiaccianti siti per cuori solitari, stagiste col nasone che però se le guardi bene non sono poi così degli scaldabagni, integratori alimentari che spazzano via i risparmi di una vita, code sul raccordo, silos pieni di latte che luccica al chiaro di luna, case con dentro solo un’iguana, grezzoni col gessato che fanno i brillanti alla macchinetta del caffè e amministratori del personale con la katana appesa in ufficio… personaggi inespressivi e insensibili, che mandano mail direttamente dal cimitero dei tuoi sogni.

from: segreteria.hr@montefoschicorporate.it
to: m.gervasini@montefoschicorporate.it
subject: CONVOCAZIONE

Alla c.a. del sig. Michele Gervasini
La SV è invitata a presentarsi il giorno lunedì sg. corrente mese alle ore 17.00 presso l’Ufficio del personale, piano V, stanza 127 all’attenzione del dott. Stefano Bigazzi.

Si prega cortesemente di dare conferma di avvenuta ricezione della presente.

Cordiali saluti,

La Segreteria Direzione Human Resources

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E l’eroe? C’è, l’eroe?
Peppe Fiore ha deciso di scrivere un libro sul più sfortunato e goffo dei vostri colleghi. Quello che se anche si cambia vi sembra sempre vestito allo stesso modo e che la gente si tira dietro sul balcone perchè non c’è neanche un ficus su cui indirizzare il fumo della sigaretta. Una faccia che mai riuscirete ad associare a un nome… e non perchè siete rincoglioniti, ma perchè proprio non v’interessa.
E Michele Gervasini è lì, che fa il suo, sperando fortissimo che non gli capiti più niente di male.
Lo devono promuovere da quattro anni, ma non è mai il momento giusto. E quella totale assenza di eventi che contraddistingue la sua giornata lavorativa finisce pian piano per invadere anche il resto del tempo. Fa il contabile per mozzarelle e yogurt e, non pago, campa a mozzarelle e yogurt. Tollera orribili spostamenti mattutini nell’incubo del traffico di Roma, ma solo per andare in ufficio, che se lo invitano da qualche parte a farsi due risate non ci va perchè pigliare la macchina è troppo faticoso. Gervasini viene rimbalzato, ignorato, maltrattato e lasciato a marcire come un delfino disorientato sul bagnasciuga dell’ufficio contabilità. Zero carriera, mai una gioia… e i suoi conti sono un casino perchè l’unico che doveva dargli una risposta urgente s’è buttato dalla finestra. Gervasini un po’ ti fa tenerezza e un po’ lo prenderesti a sganassoni. E gli sganassoni sono per quelle innumerevoli piccole cose della sua personalità che ti fanno venire in mente anche la tua, di giornata lavorativa.

Insomma, panico, scrivanie, contabilità, cattiverie burocratiche ed estrema disperazione impiegatizia… sembrerebbe una roba che non potrebbe mai e poi mai far ridere (sia forte e allegramente che con amara pensosità), ma probabilmente Peppe Fiore è cascato in un ruscello magico da piccolo.

Insomma, è con passione e scompigliatissimo trasporto che vi consiglio questo libro. Ci sono pure dei piccoli lavoratori che si gettano ordinatamente nel vuoto dal codice a barre. Parliamone!

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Ai piedi delle due immagini c’era scritto cubitale LAVORARE UCCIDE! e più sotto ancora la convocazione di un’assemblea sindacale straordinaria per il martedì successivo. Gervasini, come tutti gli altri, si appallottolò il volantino in tasca, e si avviò a passo deciso verso l’ingresso degli uffici. Doveva lavorare, lui.
Anche il sindacalista, ovvio, doveva lavorare. Ma questo non gli impedì di presidiare il piazzale finchè non fu sicuro che il grosso dei dipendenti avesse avuto almeno un volantino. Avrebbe timbrato il cartellino in ritardo, ma amen: la rivoluzione non ha orari d’ufficio.

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E ricordate. Chi non legge Nessuno è indispensabile è un Michele Gervasini!