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Tra i buoni propositi del 2019 c’è – ovviamente – quello di continuare a viaggiare, ritagliando qualche giorno qua e là per scoprire posti nuovi, vedere meraviglie e divertirmi molto. Ci sono numerosi sogni assai monumentali ancora da realizzare, ma poter cominciare l’anno con la prospettiva di una spedizione europea a primavera inoltrata mi pare già una gran cosa.

Ma di che diamine sto parlando?

Breve antefatto.
A dicembre ho accettato di buon grado la chiamata alle armi di Isola Bianca, un’agenzia SLASH tour-operator che da qualche tempo si occupa anche di organizzare viaggi di gruppo con “i personaggi del web”. Sono un personaggio del web? Chi lo sa. Ho mai fatto un viaggio di gruppo? Non di recente. Non frequentando assiduamente la parrocchia, gli ultimi viaggi di gruppo che mi ricordo sono le gite delle superiori. E in gita succedevano robe MIRABOLANTI. Sono abituata a viaggiare avvalendomi di aerei scomodissimi a orari improbabili e assemblando liste sconclusionate di tappe irrinunciabili, che vanno dai musei alle pasticcerie. Di solito le idee le raccolgo io, ma poi la razionalizzazione dell’itinerario è a carico di Amore del Cuore. Mi piace viaggiare così? Certo. Ma la verità è che mi piace viaggiare in generale. E avere qualcuno che ti escogita un itinerario e ti prenota tutto, lasciando a te solo l’incombenza di goderti l’esperienza, è una sensazione che sono felice di poter provare di nuovo.

Che succede, quindi?

Dal 20 al 22 maggio, Isola Bianca vuole portarci a Barcellona. E dico portarci perché il viaggio è felicemente prenotabile anche da voi. Anzi, il fatto che si vada in giro a pascolare insieme, brandendo caraffe di sangria – e ritagliando doverosamente un po’ di tempo anche per fare gli umarell davanti alla Sagrada Familia – è un po’ il cuore dell’impresa.

Perché Barcellona? Perché non ci sono mai stata. E perché è anche una meta dai costi non esorbitantissimi. Che cosa vedremo, più o meno? Ho chiesto a Isola Bianca di includere nel programma le mete barcellonesi obbligatorie, ma anche di ficcarci dentro librerie, luoghi curiosi, negozietti e, in sintesi, tutto quello che più o meno vado a cercarmi di solito quando viaggio per i fatti miei. Data la collocazione temporale, poi, sono fiduciosissima anche sul fronte climatico. È obbligatorio fare tutto quello che c’è sul programma o stare sempre compattissimi come una falange macedone? No. Ma sono assolutamente intenzionata a farmi in dodici per zampettare con tutti quelli che vorranno unirsi alla spedizione. Anzi, sarà un onore e una gioia.

Se vi va di approfondire – come spero – orari, costi, itinerari e logistica, ecco qua la pagina dedicata al viaggio sul sito di Isola Bianca. Per qualsiasi dubbio relativo a questi temi, scrivete con baldanza a loro – sono disponibilissimi e non vedono l’ora di prodigarsi per noi tutti. Volete prenotare con entusiasmo e pochi tentennamenti? Favola. Anche quello si può fare con gioia sul sito.

Partiamo?
Io lo spero. E non vedo l’ora. 
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Un giorno avrò un volpino di Pomerania, una casa di proprietà, una rendita di diecimila rubli al mese, una piastra GHD e una persona che mi sceglie le foto e mi raddrizza gli orizzonti sbilenchi. Il tutto mentre io sto seduta in poltrona a bere dei tè e a scrivere a macchina.
In attesa che tutto ciò accada, possiamo serenamente proseguire – non senza una certa intempestività – con la gioiosa cronaca del superweekend trascorso in Slovenia a farmi nutrire, idromassaggiare e meravigliare dalla natura. Nella prima puntata vi avevo confusamente raccontato di Vipava, Ptuj e Celje. Questa volta, con il favore dei fauni di Narnia, ci sposteremo a Bled, dove l’acqua è più cristallina e i cigni si riproducono a ritmi forsennati.

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Per chi, come me, ignorasse le più basilari nozioni geografiche, dirò che Bled è una incantevole località turistica situata a metà strada tra Lubiana – la capitale slovena – e il confine italiano. Bled sorge saggiamente sulle sponde di un lago della circonferenza di circa sei chilometri – percorsa caparbiamente da podisti di ogni età, che corrono indomiti ad ogni ora del giorno e della notte. Il placido lago, oltre ad essere piatto e sereno come la stele di Rosetta, custodisce anche l’unica isola naturale della Slovenia – dotata di chiesetta, campanile e cruentissima leggenda d’ordinanza. Per non farsi mancare nulla, Bled ha anche un castello di rara simpatia e un vivace sistema di sorgenti termali, che potrete comodamente godervi passando un po’ di tempo all’Hotel Golf – come ha fatto la sottoscritta. E a Bled, cosa assai importante, si mangia benissimo. Dev’essere un po’ una caratteristica della Slovenia. Arrivi in un posto nuovo e tutti sono convinti che stai morendo di stenti e che bisogna darti subito da mangiare.
La prima sera siamo stati principescamente ospitati dal ristorante Julijana del Grand Hotel Toplice, il più antico della città. E pure quello col panorama migliore. Il giovane chef sloveno del Julijana sta fieramente combattendo per conquistare una stella Michelin e, dal profondo del cuore, gli auguro che gliene diano una generosa manciata. Il nostro tavolo si può ammirare qua sotto. Quello che ci siamo mangiati, invece, l’ha fotografato benissimo la Rossana – e non vedo quindi perché dovrei affaticarmi con un maldestro collage quando c’è già il suo che è così ben architettato.

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Voi in che letto dormite? Io ho un matrimoniale che divido con un grosso uomo incredibilmente affettuoso, che rotola in giro, mi abbraccia nel cuore della notte e mi assesta, occasionalmente, delle gomitate nello sterno. Pur adorando Amore del Cuore, devo confessare che, di tanto in tanto, dormire da sola in un lettone a due piazze mi suscita un po’ di commozione. Se poi, alla mattina, apri la finestra e c’è della neve che precipita su un lago, la faccenda si fa ancora più soave.
Con questo spirito di assoluta benevolenza nei confronti dell’universo, siamo risaliti sul pulmino per una giornata di giretti ed esplorazioni.
La prima cosa che ho scoperto a Bled è che i campeggi non sono necessariamente una roba da roncioni.
Là fuori, gente, esistono anche i GLAMPING.
Se lo scopre Cosmopolitan siamo finiti. “103 idee per il petting spinto nel cuore della foresta”. “Sughero power! 10 zeppe super trendy da abbinare al tuo bungalow”. “Sauna hot: le confessioni delle campeggiatrici più ROAR!”.
Io di campeggi non me ne intendo molto, ma ero assolutamente estasiata. Il Glamping di Bled è un luogo a metà tra un villaggio elfico e il sogno erotico di un minimalista. Ci sono le capannette di legno con la vasca da bagno esterna a forma di botticella (con civilissimi bagni privati e graziose doccette) e ci sono le casette megageometriche progettate dal pronipote hipster di Le Corbusier. Tinte naturali, vialetti di sassolini, armonia con la natura e organizzazione suprema degli spazi. Ci entri in cinque e non hai idea di come hai fatto.

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Rinfrancata dalla pacifica comunione tra boschi di sempreverdi e dimore per campeggiatori, ho ben deciso di coricarmi all’improvviso nel bel mezzo alla piscina sfacciatamente turchese del Grand Hotel Toplice. Provvisto di salottini rosa, sale da tè panoramiche, fascinosi parquet scricchiolanti, persiane bianchissime, una magica spiaggia privata, vetrate assai coreografiche e un vaso giapponese dal valore inestimabile – messo lì in un angolo come se niente fosse – il Toplice è una specie di piccola macchina del tempo. Ci passi un’ora e ti convinci di avere un valletto e una muta di levrieri argentati.

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Visto che non si mangiava da circa trenta minuti, ci siamo sentiti in dovere di fare merenda con una delle specialità del luogo, la leggendaria cream cake. La cream cake è un dolce estremamente rispettoso della geometria: v’arriva in pratici parallelepipedi che misurano sempre 7 x 7 x 5 centimetri e ogni strato presenta differenti gradi di solidità. Ma che c’è dentro? Uovo, crema alla vaniglia, panna, burro, burro, burro imburrato e burro al burro. Per fare breccia nella crosticina sovrastante vi consiglio di utilizzare la forchetta come un piccolo martello pneumatico. O come il forsennato cranietto di un picchio. Vedete voi con quale metafora vi è più comodo procedere.

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Bled, oltre ad essere un luogo ricco di interessanti soluzioni ricettive e un paradiso gastronomico, è anche una specie di romanzo fantasy. Vi basterà inerpicarvi su un roccione a strapiombo sul lago, infatti, per godervi il castello, le sue numerose attrazioni e il mirabile panorama. Mettetevi delle scarpe coi gommini, che c’è una salita ciottolata con una pendenza del 48%.

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Il castello di Bled è un luogo sorprendentemente vivo e divertente da esplorare. Si può visitare un piccolo museo che narra la storia del lago, di Bled come località di villeggiatura, del maniero stesso e dei primi abitanti della valle – ossa preistoriche comprese. C’è la bottega di uno stampatore – che pialla a mano tutti i souvenir cartacei – e un allegro frate che vi insegnerà a imbottigliare. Sulla fucina del fabbro, poi, sono stata inevitabilmente travolta dai ricordi e mi sono messa a strillare in mezzo alla corte SONO BASTILANI E BATTO IL FERRO! A cinque metri, purtroppo, c’era un servizio fotografico nuziale in corso. Nonostante la neve e il freddone, la sposa vagava pacifica in bolerino in finto pelo di dalmata e sandali con gli strass. Lo sposo, un tipo spericolato, ha eseguito un Cassina II sul parapetto a strapiombo sul lago. In maniche di camicia. E noi là, ad abbracciare stufe di cobalto.

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Non paga, sono stata utilizzata per svariati minuti come posatoio per una serie di fiocchi di neve assolutamente PERFETTI. Fiocchi di neve a forma di fiocco di neve. Fiocchi di neve da manuale dei fiocchi di neve. Fiocchi di neve STANDARD. Intanto che ci siete, vi inviterei altresì a notare la completa assenza di doppie punte al termine della mia esuberante chioma.

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Vedendoci un attimo deperiti, la famiglia Jezersek ha deciso di offrici il pranzo nel ristorante del castello. Correggetemi se sbaglio – o se solo io ho avuto sfiga nella vita – ma è molto difficile trovare qualcosa di dignitoso da mangiare all’interno di un luogo “turistico”. Siamo sempre portati a pensare che i posti veramente validi siano infrattati in qualche vicolo, lontani dalle attrazioni più frequentate e difficilmente individuabili dalle mandrie di cinesi col selfie-stick. Visto che nulla di tutto questo – dal punto di vista funzionale ed economico – ha alcun senso, i Jezersek hanno deciso di inaugurare un locale stupendo nel cuore del castello. Vista spettacolare, cucina slovena e comodità massima. Credo sia stato il mio momento-cibo preferito, ma dell’intero weekend proprio.

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Travolti dalla digestione e piuttosto spaventati da una bufera di neve sempre più robusta, ci siamo lungamente interrogati sull’opportunità di attraversare il lago su una barchetta a remi per raggiungere il famigerato isolotto, inerpicarci su per la scalinata di pietra e suonare la campana della chiesa per tre volte (nella speranza di veder esauditi i nostri più reconditi desideri). I nostri accompagnatori sloveni, per nulla intimoriti dal clima, ci osservavano perplessi. Che insomma, la nevicata è bella, ma non voglio fare la fine di Leonardo Di Caprio che annega nel mare ghiacciato. Dopo un dibattito fondamentalmente basato sul “E quando ci ricapita più? Pensate a Instagram!”, abbiamo sfidato la neve e ci siamo issati sul barchino… con risultati a dir poco fiabeschi.

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Questo cigno, che il cielo lo spenni, ha affabilmente accompagnato all’attracco ogni singola imbarcazione e si è lasciato festosamente fotografare da 57 persone. Quando finalmente è arrivato il mio turno, ha allungato il collo e mi ha beccato uno stivale. Solo a me. Ma che gli avrò mai fatto. Io non dimentico, cigno. Sono rancorosa come Stalin. Tornerò a cercarti!

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Per pianificare al meglio la mia vendetta subacquea ai danni del malefico cigno, ho trascorso la serata a mollo in una vasca termale d’acqua calda. Incredibile ma vero, l’acqua calda con le bolle ti culla e ti assiste nella digestione. Volete poi mettere la soddisfazione di vagare nudi per un hotel di lusso alle undici della sera?

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L’ultimo giorno del nostro felice tour è cominciato in maniera drammatica. Alle 7 della mattina ero già davanti al pulmino. Vestita, colazionata, valigiata e pronta a partire. Un trauma devastante. Non ho neanche avuto la forza di mettermi le lenti a contatto. Cioè, così presto non mi vanno su. È impossibile. M’acceco, piango, mi soffio il naso e soffro.
Armata di occhiali, in preda all’atavico dubbio del “mi sarò dimenticata qualcosa a Bled?” e in terrificante deficit da caffeina, mi sono improvvisamente ritrovata di fronte al castello più assurdo mai costruito dall’uomo.

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La fortezza di Predjama fu strambamente edificata dal prode Erasmo (da Predjama) per difendersi dai numerosi nemici che perseguitavano la sua esistenza. Del tutto immune dai reumatismi e poco bisognoso della compagnia degli altri esseri umani, Erasmo trascorse buona parte della sua vita asserragliato nel castello, un folle ibrido architettonico tra montagna e maniero. Il castello è un po’ appiccicato alla roccia e un po’ scavato nella montagna. L’interno è una specie di labirinto in cui, all’improvviso, ci si può trovare col cielo sopra la testa o al sicuro sotto decine di metri di sasso. Ogni due metri c’è una botola che conduce al centro della terra e, in generale, non c’è angolo immune dal muschio e dagli spifferi. La sicurezza prima della comodità. La pancia del castello è una grotta oscura e scoscesa che culmina in un pozzo d’acqua freschissima, risorsa fondamentale in caso d’assedio. Io, francamente, mai al mondo avrei pensato di poter vagare in un posto del genere. Meraviglia totale.

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Poco distanti dal confine italiano, siamo stati attaccati da una schiera di Nazgul urlanti. Sprovvisti di un adeguato equipaggiamento da battaglia, abbiamo deciso di metterci al riparo, rifugiandoci nelle oscure miniere di Moria che – per comodità e affabilità – i contemporanei hanno scelto di chiamare *grotte di Postumia*.
I 24 chilometri e passa di gallerie carsiche di Postumia sono una sorta di prodigio geologico di inestimabile valore scientifico e un’attrazione turistica a tutti gli effetti da circa 200 anni. Nobildonne col cappellino e signori con le ghette le visitavano in carrozza sin dagli inizi del Novecento. Pietro Mascagni vi eseguì, nel 1929, due grandi concerti sinfonici e, in tempi più recenti, la Sala da Ballo – una gigantesca caverna a volta piena di lampadari di cristallo – è stata usata per ricevimenti, matrimoni e trasmissioni televisive (tipo The Bachelor… Maria, segnatelo). Nelle grotte si entra con un trenino, tipo Indiana Jones e il Tempio Maledetto. Dopo un primo tratto sulle rotaie (coi vagoncini che sfrecciano in mezzo a stalattiti e stalagmiti, mentre vi sgocciola in testa della roba ad ogni curva), si passa alla visita a piedi, che credo somigli molto a un giro su un altro pianeta – un posto strambo, dove ogni soffitto è una distesa di latte sgocciolante e la pietra sembra tessuto – o a un angolo remoto e oscuro della Terra di Mezzo.

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Io ho provato a fare qualche foto, ma sembrano tutte delle incomprensibili composizioni astratte.
Comunque.
Oltre al giro nelle profondità della terra, vi consiglio molto anche il museo, che non è affatto menoso e che, oltre ai prodigi della geologia, ricostruisce anche la storia decisamente romanzesca dell’esplorazione e della progressiva apertura al pubblico delle gallerie. Al museo, per esempio, ho imparato che le grotte di Postumia ospitano anche una florida fauna ipogea – tanto per dimostrarci che la vita può trionfare dove meno ce lo aspettiamo. Oltre a scarafaggi albini, vermi trasparenti e grilli orbi, a Postumia vive anche il proteo. Il proteo è questa bestia qui:

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Il proteo, tecnicamente, è un pesce. Solo che somiglia all’infausto incrocio tra un pene e un pitone candeggiato. E ha pure le manine. Nemmeno la nostra guida, un signore che ha scortato su e giù per Postumia anche l’Imperatore del Giappone in persona, ha saputo fornirci un’adeguata spiegazione zoologica sulle folli origini del proteo che, alla facciazza nostra, è anche riuscito a riprodursi. I protei di Postumia che depongono per la prima volta le uova hanno scatenato l’interesse e l’entusiasmo dei media sloveni, che ne parlano pure al telegiornale. Da un pesce dall’aria così spiccatamente fallica non mi sarei aspettata nulla di meno ma, a quanto pare, nessun proteo aveva mai figliato in condizioni osservabili dall’uomo, il che rende l’evento qualcosa di raro, favoloso e biologicamente molto rilevante.
Caro proteo… che dire.

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E con l’immagine suppergiù spaventosa di un pallido pene natante concludo le mie cronache slovene, rovinandovi probabilmente tutta la magia.
Portate pazienza, come sempre.
Vorrei ringraziare ancora una volta i Sava Hotels per l’ospitalità che hanno voluto accordarci e che, guarda un po’, potrà essere estesa anche a un fortunato vincitore, che potrà aggiudicarsi un weekend nei posti belli che vi ho confusamente raccontato. Come? Fatevi un giro qui e votate per il vostro BLOGGHER preferito. Tipo me. Ma così, lo dico solo per darvi un suggerimento spassionato.
In bocca al lupo… e cuori proteiformi a voi!
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Tegamini, vorremmo portarti in Slovenia. Abbiamo organizzato questo viaggio a base di posti belli, roba seria da mangiare e coccole alla spa. Cosa dici, ci sei? In circostanze del genere, mica puoi fare l’antipatica. Chiedi due giorni di permesso, ti depili sommariamente i cosciotti, butti cose a caso in lavatrice e prepari la valigia. E, per magia, ti ritrovi su un treno alle 8 e mezza del mattino, in un giovedì che – normalmente – sarebbe stato un interminabile trionfo di rotture di coglioni.
Da un BLOGTOUR non sapevo bene che cosa aspettarmi. Voglio dire, io sono una che prova a raccontare delle cose, ma non ambisco certo a trasformarmi all’improvviso in una Lonely Planet glitterata o in un’integerrima fonte d’informazioni pratiche e utilissime. Le mie foto su Instagram sono una stramba accozzaglia di gatti che dormono a pancia per aria, tortelli con la coda e libri buttati sul tappeto che mi ha regalato mia suocera. Non ho neanche ben presente dov’è Pescara, figuriamoci se so com’è fatta la Slovenia. Insomma, ansia. Chissà che sanno fare, questi travel-blogger. Quale sarà il loro equipaggiamento. Come si vestiranno. Di che si parlerà. Sarà gente in grado di spiegare al mondo come si sale su un elefante e come ci si destreggia in una foresta di mangrovie. E io là, col foglio delle ferie in mano, un paio di calzettoni di spugna sottratti ad Amore del Cuore e un caricabatteria portatile che somiglia a un Tampax gigante. Che cosa volete che ne sappia di come si fa. I travel-blogger, si è poi scoperto, sono persone molto tenere e affabili… infinitamente più organizzate di me, ma per nulla minacciose.
Ma chi c’era, alla fine?
Sono partita con Rossana di Vitasumarte – che amavo tantissimo già da prima e che ringrazio molto per aver reso l’intera impresa decisamente più rassicurante, spingendosi addirittura a conferirmi il titolo di elfo – e la dolce Anna di Travelfashiontips – più la sua grossissima valigia rosa dal peso specifico dell’isotopo 249 del berkelio. Alla stazione di Mestre abbiamo raccolto anche Teresa di Cosebelle – a Teresa, secondo me, bisognerebbe al più presto dedicare un qualche tipo di culto -, Georgette di Girlinflorence – il sorriso più smagliante del Texas e un superocchio per i dettagli cuorosi – ed Elisa e Luca di Tiprendoetiportovia – organizzazione militare, preparazione massima, Reflex gigante e un’autentica vocazione per la cronaca in presa diretta.
Bene. Ora che ci siamo tutti, direi che si può partire.

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Il nostro viaggio è cominciato da Vipava, cittadina verdeggiante poco lontana dal confine italiano e nota per l’esuberanza del suo fiume (che, in pratica, è tutto una sorgente) e delle sue produzioni vinicole. La Slovenia, a quanto pare, è un tripudio di microclimi e terreni avvincenti. Ed è proprio questa grande varietà dei suoli e delle condizioni atmosferiche a consentire la crescita di vitigni differenti che, a loro volta, vengono utilizzati per la produzione di vino buono e interessante. Oltre alla solita roba che abbiamo noi, in Slovenia si possono bere due rispettabilissimi bianchi autoctoni, la pinela e lo zelèn. Perché ne sono al corrente? Perché ci siamo fermati alla Vinoteka di Vipava a tirarcene giù svariate bicchierate.

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Oltre a coltivare un alcolismo di qualità, la Slovenia vi incoraggia ad intraprendere passeggiate romantiche lungo il corso di fiumi, torrenti e specchi d’acqua immancabilmente costeggiati da argini pieni di piacevoli punti di ristoro. Per gli amanti dell’aneddotica, poi, i fiumi sloveni sono ricchi di leggende. A Vipava, per dire, c’è la storia di una specie di Robin Hood che s’era andato a nascondere in una delle grotte-sorgente del fiume, facendosi beffe degli sbirri locali finché poi qualcosa non andò terribilmente storto. In tutta sincerità, ad un certo punto mi sono persa. Spiovigginava e stavo cercando di aumentare a bomba la saturazione di queste foto, ma mi ricordo che nella storia c’erano anche delle fragole. Caverne, sorgenti, fragole e banditi. Io a Vipava ci andrei solo per questa leggenda sconclusionata, poi vedete voi.

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Visto che il muschio è carino, ma mangiare è meglio, ci siamo volenterosamente diretti al Kamp Vrhpolje. In Slovenia, per la cronaca, può capitare che una famiglia decida di prendere la fattoria che abita da generazioni e di trasformarla in un campeggio. Basta un giardino verde, un solido senso dell’ospitalità, un po’ di spirito d’avventura e la capacità di sconfiggere la coriacea e labirintica burocrazia slovena. Per raccontarci tutto, la radiosa e adorabile Karolina ci ha chiusi in cantina e ci ha offerto un pranzo super tradizionale a base di zuppa (quanto vorrei rammentarmi come si chiama, ma so solo che era ottima e che c’erano dentro delle verdure fermentate tipo crauti, dei fagioli e dei salsiccioni), vino (ognuno si è scelto la sua botte e se l’è spillato) e tortina formaggiosina con zucchero e uvette.

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Svariati chilometri più tardi – trascorsi russando pacificamente, in barba alle numerose buche che popolano le autostrade locali -, ci siamo ritrovati a Ptuj, la più antica città del paese. Fondata dai romani chissà più quando, Ptuj, ai tempi, si chiamava PETOVIONA ed era un fiorente polo commerciale e militare dell’impero. Oggi è una pacifica destinazione termale, con un centro storico elegante e curioso, molto incline ad ospitare botteghe artigiane – vi consiglio caldamente le adorabili pantofole fotoniche di Sabina Hameršak -, boutique del vino – come quella di Bojan Kobal, che ci ha ospitati per una specie di dotta e graditissima conferenza alcolica di benvenuto – e festival estivi dedicati alla poesia.

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Il nostro campo-base a Ptuj è stato il Grand Hotel Primus, destinazione obbligata per ogni generale che si rispetti – e pure per le numerose ancelle del suo seguito. L’albergo, oltre ad essere vicino a un parco acquatico termale di dimensioni ragguardevoli, ha anche una spa molto favola a tema romano. Colonnati e piscine, mosaici da tutte le parti, candele, saune di centodue tipi diversi e allegri mostri marini.

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Ho passato una mattina intera a mangiare fragole in una vasca idromassaggio… e mi sono spostata solo perché era arrivato il mio turno per fare i massaggi. Sono stata ricoperta d’olio profumato da un signore altissimo coi baffi che ha passato mezz’ora a impastarmi come una Pagnottella del Mulino Bianco. Ha anche coraggiosamente tentato di massaggiarmi la pianta del piede sinistro, ma sono scoppiata a ridere e gli ho quasi mollato un calcione in faccia. Col destro, visti i risultati, ha lasciato perdere. Non so bene come, ma ad un certo punto ci siamo anche ritrovati a cenare su un vasto cuscinone morbido con addosso toghe di varia foggia, con gente che continuava a versarci da bere e spandere petali al nostro passaggio. Sono quelli i momenti in cui ti domandi perché, invece del piffero e della pianola, a scuola non s’insegni a suonare la cetra.
Anche se sarebbe assai meglio evitare, qua ci sono io – soave e luminosa (grazie al filtro SOGNO) – con la toga. Poi uno si chiede perché non m’invitano alla Fashion Week.

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Convinti di non averci nutriti e coccolati a sufficienza, i nostri premurosi anfitrioni hanno anche deciso di farci provare l’ottimo menu Be Fit, studiato appositamente per la gente che – dopo aver trascorso una benefica giornata termale – non trova corretto ordinare un tacchino ripieno… ma neanche crepare di fame.

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Nutriti e massaggiati, ci siamo nuovamente issati sul pulmino per proseguire nelle nostre esplorazioni. Dopo un nuovo episodio di comatosa e impenetrabile narcolessia, mi sono ritrovata ai piedi del gelido ma glorioso castello di Celje, una riproduzione a grandezza più che naturale di Grande Inverno – ma senza metalupi e con un panorama più incoraggiante, nonostante il sole non si sia mai degnato di palesarsi nei quattro-giorni-quattro che abbiamo trascorso in Slovenia. Per sconfiggere il clima infausto, ho deciso di consolarmi usurpando un trono.

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La città di Celje è un posticino davvero degno di un’esplorazione approfondita. Oltre a gigantesche biblioteche che brillano nella notte, cattedrali, resti medioevali, strade romane perfettamente conservate e un centro storico vispo e allegro, Celje è il rifugio privilegiato per artisti e fotografi, che vivono e lavorano gioiosamente in un imprevedibile mini-quartiere con annessa galleria per le mostre collettive – più una balena di cartapesta (dal manto zebrato) che riposa serena in mezzo al cortile. In pratica, se dipingi e cerchi uno studio, puoi insediarti a Celje pagando un affitto simbolico e offrendo la tua arte alla comunità. Se non v’ho ancora convinti, poi, lì nel quartiere degli artisti c’è pure un bar fantastico. Noi non ci siamo fermati a bere, ma siamo andati a rompere i coglioni a due distinti pittori, rovinando irrimediabilmente il più alto momento d’ispirazione della loro esistenza.

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E, per il primo pezzo del weekend, direi che ci siamo. Nel prossimo post ci trasferiremo a Bled, esploreremo le miniere di Moria, visiteremo altri due castelli – più o meno scavati nella roccia -, malediremo i cigni e ci abbandoneremo a momenti di folle e fulgidissimo FOODPORN.
Nel frattempo, se vi va di vincere un weekend in Slovenia tipo quello che sto raccontando – o magari pure meglio del mio – potete correre a votarmi qui: http://bit.ly/1VBM6PJ. I Sava Hotels si premureranno di ospitarvi (insieme alla vostra persona preferita) in una delle loro strutture termali, amandovi quanto hanno amato noi. C’è tempo fino al 20 marzo. Vi auguro di vincere, ma con tutto il cuore. Son bei posti.

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Ho deciso che sulle meraviglie di Venezia farò ben due post due. Uno sulla mirabile avventura a bordo di una bottiglia di Bombay Sapphire (con tanto di lezione di gin-tonic e performance artistiche a due centimetri dai miei alluci), e l’altro su Venezia come posto fascinoso e terrificante. Perché quando non hai il senso dell’orientamento, Venezia può anche ucciderti. Soprattutto quando c’è il Carnevale.
Inizierei dall’argomento gin-tonic, se non vi dispiace… che si sa, ne parlo già tantissimo di mio (intanto che ci siamo: grazie a tutti i prodi che, periodicamente, mi ricordano di mettere i ghiaccetti in freezer), figurati cosa posso tirare fuori quando mi capita una roba che si chiama The ULTIMATE Gin&Tonic Experience. ULTIMATE, come il mostro definitivo di fine livello.
Come reagire, dunque?

A. Prendere un valigino. Riempire il valigino di lustrini.

B. Balzare su un treno in direzione Venezia S. Lucia.

Sul treno ero un po’ intimorita perché tutti gli altri che venivano a fare festa al Bombay Sapphire erano giornalisti. E io, no. Io ho un blog che si chiama Tegamini. Ah-ah-ah, no, non parla di cucina, tutto tranne quello. Piacere, piacere. Tranquilli, non fate caso a me. Sto qui nel mio cantuccio. Però scusate, perché avete tutti dei valigini più piccoli del mio?
I giornalisti liofilizzano gli abiti e le scarpe. Non so come facciano, ma è così.
Poi, però, abbiamo fatto amicizia. Ci siamo anche scambiati delle maschere piene di piume. Non sono affatto minacciosi, i giornalisti, dopo un paio di bicchieri. O dopo che un taxista veneziano super spiccio ti ingiunge di salire sulla sua barchetta, te e tutti i tuoi valigini. Nessuno è salito con grazia, perché la laguna incute rispetto.

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Comunque. Mi sono messa tutta bella composta vicino a un bancone pieno zeppo di bottiglie color zaffiro (pietra amatissima dalla regina Vittoria che, meraviglia delle meraviglie, appare in tutto il suo arcigno e corpulento splendore anche sull’etichetta del benamato Bombay) e ho degustato, ascoltato e gioito dell’altrui capacità di produrre robe buone da bere.
Ho imparato moltissime cose. E la mia naturale predisposizione al gin-tonic ha finalmente trovato una valvola di sfogo piena di immaginazione. Perché uno pensa che il gin sia una roba relativamente poco complicata, ma non è vero niente. I bicchieracci dei posti dove andiamo noi mica si chiamano bicchieri-Swimming-Pool. E non c’è da inorridire, quando ti mettono tanto ghiaccio, anzi. Non è perché sono tirchi, taccagni, braccini corti e spilorcioni: un cocktail fatto bene ha bisogno di un sacco di ghiaccio, perché se ce n’è parecchio non si verificano squagliamenti e quello che ti bevi rimane uguale dall’inizio alla fine. E segnatevelo, se dovete fare una festa chic: in una serata con della gente allegra che si beve 2-3 cocktail a testa, serve un chilo di ghiaccio a persona. E noi lì, coi sacchettini di plastica. Prendete un piccone e trascinatevi in casa un iceberg.

A parte i rudimenti dell’arte COCTEILISTICA, ho anche appreso innumerevoli utili nozioni sulla composizione del vivace Bombay Sapphire, che è il gin che ti vai a comprare quando non vuoi fare la figura dei cavapietre e che ti fa anche un po’ gridare perché io valgo! quando te lo passano alla cassa. Perché è più buono, ma anche da prima che mi facessero sedere al bar del Bauer di Venezia. Tutta la bontà accade – con nostra grande soddisfazione – perché nel Bombay prosperano aromi e ingredienti di impareggiabile stranezza. Io ho i miei colleghi tra loro maritati, in ufficio, che ogni tanto saltano su con affermazioni tipo “Cielo, è finito il sale rosa dell’Himalaya! Periremo!” oppure “L’altra sera abbiamo messo sulla pasta questa varietà di cardamomo biforcuto che cresce solo tra gli zoccoli pelosi di un particolare ruminante sputacchione della cordigliera andina, il fafnirpal”. Ecco, ora so come vendicarmi. Perché il Bombay Sapphire, senti un po’, contiene i seguenti dieci aromi (gli aromi, in Bombayese, si chiamano botanicals… e io li ho visti con questi occhi, dopo aver controllato sull’atlante illustrato dove li vanno a prendere): mandorle amare e limoni dalla Spagna, liquirizia dalla remota Cina, bacche di ginepro e radice di iris dall’Italia, radici di angelica dalla Sassonia, coriandolo dal Marocco, corteccia di cassia indocinese, grani di pepe Cubebe dell’isola di Giava e Grandi del Paradiso dell’Africa Occidentale.
Cheers e tanti saluti al fafnirpal.

tegamini bombay sapphire bancone

Visto che ho la faccia di tolla tipica dei bambini molto piccoli, poi, mi sono offerta volontaria per un esperimento da vera barlady. Con la supervisione del pazientissimo mastro-Bombay, ho preparato il gin-tonic preferito della regina Vittoria con una perizia da neurochirurgo. Faccio un gin-tonic, ma sembro una che si sta laureando in ingegneria biomedica. Ridete pure, ma bisogna mescolarlo da sotto in su, con un bel movimento rotondo, vigoroso ma delicato. C’è anche un video, che esiste solo perché ho assaggiato tutti e venti i cocktail della degustazione…

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Per chi volesse farsi una cultura e per i vostri amici che ancora ritengono che il gin-tonic sia noioso e del tutto privo di IMAGINATION – tema della goduriosa serata – qua ci sono i cocktail che si sono inventati per noi con gli ingredientini e i nomi belli, così potete prepararveli anche per i fatti vostri e innalzare di una tacca la felicità media del mondo. E’ un agile PDF, che fa anche un casino arredamento. E non ci crederete mai, ma il gin-tonic alla camomilla ha un suo perché.

E poi?
No, perché mica è finita.
Dopo aver presidiato il bancone in dorata solitudine e tranquillità, il bar si è riempito di variopinti personaggi che volevano vedere della seria live-arte. C’era un pianoforte con Giovanni Guidi – che è un giovane prodigio galattico del nu-jazz – che suonava, improvvisando per delle mezz’ore… il cielo solo sa come. Giovanni Guidi deve avere un cervello grosso il doppio del nostro, o ce l’ha uguale a noi ma la densità dei suoi neuroni è dieci volte maggiore. E c’era una grossa lavagnona nera con Letman – che è un calligrafo olandese che mi ha pure tollerata per tutta la cena mentre mi facevo i fatti suoi, tipo “ma i muri di casa tua, poi, hai deciso di dipingerli da solo o li lasci così?” – che disegnava, scriveva e artistava a ritmo di piano. Tre sonate improvvisate e tre lavagnate, son venute fuori. E io ero molto emozionata, perché dev’essere di una difficoltà estrema farsi venire in mente il modo di riempire una roba di tre metri per due con della gente piena di piume di carnevale che ti fissa con immensa curiosità.

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BS Guidi1

Una gioia.
Alla fine, ancora discretamente salda sulle gambe, sono tornata nella mia stanza e ho preso una gran paura perché c’era la televisione che andava e le lampade accese in una maniera molto coreografica. E mi avevano anche scostato l’angolo del lenzuolo e risistemato tutti i vestiti. E avevo le pantofole messe su un tappetino vicino al letto. LA CAMERIERA PETRA ESISTE VERAMENTE. E chi lo sospettava. Visto che Amore del Cuore non aveva mie notizie dalle ore 17, poi, mi sono baldanzosamente diretta nello spazioso bagno marmoreo per inviargli una testimonianza della mia buona salute, maschera da giullare e tutto.

 

Indipendentemente dalla maschera, mi sento sempre Batman. #bombayandtonic

Una foto pubblicata da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

 

La risposta di Amore del Cuore è stata “METTI VIA QUELLE TETTE”.
E io le ho messe nel pigiama.
E ho messo il resto di me nel letto, sempre dentro al pigiama.
Buonanotte a Venezia. Buonanotte e molte grazie a Bombay Sapphire, che ha assecondato con impareggiabile gentilezza la grossa principessa curiosa che e in me. Buonanotte anche a Giovanni Guidi e a Letman, che spero abbiano fatto sognoni d’oro, dopo tutta quella performance complicata. E buonanotte ai giornalisti, che prendevano tutto con estrema naturalezza e tranquillità… mentre io sembravo un’orfanella di Dickens entusiasta dell’acqua calda che esce dal rubinetto.

E’ stato avventurosissimo, allegro e immensamente spassoso.
Grazie per l’accoglienza, le materne premure, le sorprese e le scoperte.
Se mi abituo è un casino, anche questa volta.

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sochi logo

Durante i miei cinque anni di onorato pendolarismo universitario, io e Sky ci siamo fatti della compagnia, come un anziano signore col suo cantiere preferito. Perché, arrivando da Piacenza e studiando in Porta Romana, la cosa più razionale da fare è scendere dal treno a Rogoredo e pigliare la metro gialla. Rogoredo è un posto che in pratica non esiste, e prima del palazzo di Sky non aveva nemmeno l’orizzonte, c’era soltanto una steppa grigia piena di erbaccia. Poi si sono messi a costruire il palazzo di Sky e, finalmente, ho trovato qualcosa da guardare. E niente, aspettavo il treno e ogni tanto mi giravo per vedere a che punto erano con il mega quartier-generale di Sky. Chissà quanta gente ci sarà dentro. Ma saranno contenti? Boban avrà un ufficio tutto suo? Ci sarà una stanza solo per i tubini neri di Ilaria D’Amico? Come è possibile che tutti quanti abbiano almeno un amico (o un amico di un amico) che lavora da Sky? Tegamini, ma vuoi venire da noi a Sky Sport a commentare la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi invernali? Ci saranno anche delle altre personcine, e poi vi facciamo fare un giro in regia e negli anfratti più nascosti e vi spieghiamo delle cose. C’è pure da mangiare.
Perbacco. Certo che ci voglio venire, a vedere una cerimonia d’apertura a casa vostra.

Dopo essermi sincerata una volta per tutte della posizione di Sochi – è al mare… e immagino che il mare ci sia anche nel logone olimpico ufficiale perché non volevano farsi prendere in giro senza combattere: “Va bene, gente, lo sappiamo anche noi che c’è il mare… c’è il mare, ed è un mare di vodka liscia. Avete ancora da dire?” – e aver salvato sull’iPad di Amore del Cuore una serie di irriverenti creature dei mille colori dell’arcobaleno – da twittare obbligatoriamente ad ogni apparizione di Putin -, ho riempito la borsa di spinotti e aggeggi per tener carico il telefono (finirà, prima o poi, questa lenta agonia?) e sono tornata a Rogoredo. Ma con entusiamo, questa volta. Anzi, superato il magnifico sottopassaggio, sono finita sotto le mura del poderoso palazzo e ho gridato ENTRA IN SKY! …OK, MA DA DOVE? 

***

È stato tutto estremamente coccoloso e divertente. Eravamo in questa saletta piena di divani morbidini, con le tv e le focaccette. Sono venuti a trovarci il direttore di Sky Sport – messer Giovanni Bruno -, il prode Giorgio Rocca – che mi ha pure fatto il caffè – e la leggiadra Claudia Morandini, che dobbiamo applaudire – oltre che per l’affabilità e l’imperioso stacco di coscia – anche per un’esauriente panoramica della felice situazione.

Nadia di Gazduna, poi, ha anche avuto l’onore di veder sfrecciare Tomba in corridoio, ma da noi non è venuto perché probabilmente doveva mettersi tantissimo gel nei riccioloni e non faceva in tempo. Messer Rocca, in compenso (E PAPPAPPERO), ci ha fatto anche vedere i tatuaggi a fiocco di neve. Che pazienza infinita.

Comunque.
Prima che potessi cominciare ad ammorbare illustri ex-olimpionici con le mie storiacce da Sci Club
– “Una volta a Borno sono arrivata seconda nello slalom speciale perché tutte le altre sono cadute. Pure io. Ho inforcato alla penultima porta, ma in qualche modo devo essermi girata e me l’hanno tenuta buona. Il mio amico Vittorio, invece, è uscito dal cancelletto con le punte incrociate ed è atterrato di faccia. E a quel punto ha lasciato perdere. Poi, quell’estate lì, ho trovato Michele con le tibie rotte. Eravamo in Marmolada che facevamo i pali di pomeriggio, con la neve sciolta. Anzi, erano i funghetti, mica i pali. C’era il solco, si è incastrato con gli sci sotto al funghetto, ha fatto leva e CRAC, tibie. Gridava da far paura… però, dai, ci si divertiva anche” -, dicevo, prima di far paura a tutti con le mie gloriose imprese allo Sci Club Libertas Bettola – “Oh, una volta mi è cascato uno sci dalla seggiovia” -, ci hanno presi per mano e siamo andati a fare un tour delle regie e di un mucchio di posti pieni di bottoni e schermini a mosaico. C’è anche una selfie collettiva in ascensore. E indovinate un po’ chi è l’unica che non aveva capito dove guardare.

FAAAAAAAAIL.
Qua, però, ci sono un po’ di fotine fantascientifiche. Perché noialtri lavoriamo a una scrivania normale, ma c’è gente che sta in plancia sull’Enterprise.

regia sky

regia sky 2

Sul quinto cerchio che s’incaglia e rimane lì come un carciofino sott’olio, direi che ha già fatto tutto Buzzfeed. Stesso discorso per la tragicomica accoglienza riservata ad atleti e giornalisti: se volete approfondire, ridervela moltissimo e vedere della gente che cerca con tutte le sue forze di prenderla con sportività, c’è il fantastico @SochiProblems. Quando c’è stato il super-segmento Guerra e pace, vi dirò senza vergogna che stavo mangiando delle robe con dentro gli spinaci e non sono stata attenta. Idem per il momento dei monumenti gonfiabili fosforescenti, con la bambina terrorizzata che c’era all’inizio e che, stavolta, è stata costretta a camminare sulle mani di una folla di pagliacci. Ma sulle sognanti mascotte zoomorfe alte dodici piani, però, posso fornire uno struggente documento originale a base di occhi dolci:

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Sciatori e conigline di dodici piani. C’è del feeling.
Oltre a tutte queste faccende belle e divertenti, al giro #SkyOlimpiadi è successa un’altra cosa che, ne sono certa, avrà ripercussioni geopolitiche di una certa rilevanza. Ho incontrato tre quarti dei Chiamarsi Bomber Tra Amici Senza Apparenti Meriti Sportivi. E mi hanno regalato una maglietta. C’è scritto sopra 100X100 BOMBERINA e ne andrò fiera finché vivo. Me la metterò quando vado a vedere Amore del Cuore che gioca a tennis, in un profluvio di Bomber di qua e Bomber di là. Che han tutti una gamba di legno e la voglia di correre di un paguro guercio, ma Bombereggiano con orgoglio.

E niente. Mi sono divertita come un fringuello. Sono tornata a casa con qualche tweet buffo, una maglietta da Bomberina e un kit da piccola spettatrice delle Olimpiadi. Ho conosciuto dei personaggi bizzarri, ho applaudito la coerenza degli atleti delle Bermuda in bermuda, ho osato dire che le divise dell’Italia – disegnate da Re Giorgio Armani in persona – sembrano delle tute da benzinaio e ho partecipato a un’operazione collettiva di disturbo della pubblica quiete lavorativa di un numero spropositato di indefessi dipendenti di Sky. Che bello. Ma la facciamo, una gita sugli sci tutti quanti insieme? Messer Rocca, portaci tu. Da piccola prendevo al volo l’ancora sul ghiacciaio del Presena! Sono sopravvissuta a una lastra di ghiaccio di 450 metri, in mezzo a una pineta! Ho fatto La Longia senza mai fermarmi… col telefonino in mano! SONO STATA AZZURRA DI SCI! Portaci, Messer Rocca! Saremo il tuo orgoglio! Intanto che ci pensi, però, vorrei ringraziare Sky per l’ospitalità, per i donini e per tutte le cose nuove che ho scoperto. Avessi incontrato pure ZVONIMIR Boban – anche se gli sport invernali non sono il suo campo – piantavo la tenda nel pratino in mezzo ai palazzoni di vetro, con vista su Rogoredo e una bandiera piena di minipony arcobaleno che nitriscono in cirillico.
Grazie. E infrastrutture olimpiche – funzionanti – a tutti!

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Dunque, il mio ultimo blog-giro è finito con un corso accelerato di falconeria e una poiana di Harris che mi passeggiava fieramente sull’avambraccio mentre branchi di lemuri estremamente mobili saltellavano da tutte le parti. L’altro giorno, invece, mi sono data all’arte. E al caffé. Ciao Tegamini, vuoi venire a Verona a visitare in magica anteprima la mostra sul paesaggio dal Seicento al Novecento che si chiama Verso Monet? Apre il 26 ottobre e finisce il 9 febbraio, al Palazzo della Gran Guardia. Ma a te e a un piccolo gregge di altri BLOGGHER facciamo vedere tutto prima, con lo spiegone del curatore, le coccolette nostre e la possibilità di fare le foto. Gli altri mica potranno farle, le foto, spezzeremo mani e frantumeremo aggeggi elettronici. Insomma, vieni? Ci farebbe un sacco piacere. Ciao Segafredo, a che ora si comincia?

Ho preso ferie – che a quanto pare, nel blog-mondo, solo io ho un lavoro col cartellino da timbrare. Timbro QUATTRO volte al giorno e sempre, quando mi avvicino alla bollatrice, è come ammirare la baia di San Francisco… dall’isola di Alcatraz -, sono salita su un treno alle 7 e 35 – scoprendo che i sedili dei Frecciabianca sono tipo delle assi da stiro – e sono approdata nella pacifica Verona, con tanto di truc sulla testa e iPad di riserva, per gentile concessione di Amore del Cuore. Per quelli con preoccupazioni da spostamento, dirò che dalla stazione di Verona Porta Nuova al Palazzo della Gran Guardia – perbacco, che luogo incantevole e maestoso – c’è da deambulare per dieci minuti scarsi. E c’è l’Arena proprio lì davanti, presidiata da manipoli di valorosi centurioni coi leggings.

Verso Monet TegaminiMonsieur Monet ci insegna che le ruches donano anche a chi ha un ventre esuberante. 

Ma facciamo le cosone per bene.
La mostra è un viaggio nella storia della rappresentazione del paesaggio. Inizia con il Seicento e finisce con i salici del giardino di Monet, ai primi del Novecento. Un centinaio di opere esposte (quadri, quadri, quadri  e una decina di splendidi disegni, tutti quanti illustrissimi prestiti dai museoni più importanti del mondo) e un percorso fatto così:

1.    Il Seicento. Il vero e il falso della natura
2.    Il Settecento. L’età della veduta
3.    Romanticismi e realismi
4.    L’impressionismo e il paesaggio
5.    Monet e la natura nuova

Una delle molte cose mirabili della mostra è che il Verso Monet del titolo non è una superfuffa. Ah, figuriamoci, ci saranno due Monet in croce, incastrati in un angolo alla fine, ma l’hanno chiamata così perché la gente corre e si spintona appena sente un vago odore di impressionismo. Ecco, proprio no. Non solo c’è una super narrazione, ma la mostra è imbottita di capolavori – compresi i miracoli che avevate sul libro di storia dell’arte. C’è Van Gogh, c’è Cézanne, c’è Renoir, ci sono i fiamminghi, Canaletto, Gustave Courbet, Sisley… e un intero stagno di dipinti di Monet.

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Ma che abbiamo fatto, alla fine? Per una mezz’oretta, liberi e ignoranti come caproni, ci siamo messi a vagare per la mostra. Poi siamo tornati al campo-base ed è iniziato il giro serio, con Marco Goldin – il curatore – a farci da guida. Che non so voi, ma non capita proprio spesso di avere il personaggio che ha messo insieme una mostra a spiegarti che cosa sta succedendo. Sono anche momenti di tragica auto-consapevolezza. Tegamini, te da sola questo collegamento artistico-concettual-metodologico non l’avresti mai colto. Ed è vero, che carine sono tutte le personcine che si affollano sui ponticelli delle vedute del Canaletto, ma perché mai il Canaletto ha sentito il bisogno di mettercele? Diamine, da dove arriva tutta questa smania di precisione fotografica? E perché cinque minuti prima la natura o il paesaggio erano solo un fondale, l’ambientazione per ben altre storie? E la linea dell’orizzonte? E la forma delle nuvole? E’ un casino.

Mini-marinai, che cosa volete dirci?

Foto 24-10-13 10 22 56Turner, ma dov’è andato a finire tutto quanto?

Foto 24-10-13 10 32 13Cézanne, perché dipingere di continuo questa benedetta montagna?

Foto 24-10-13 22 36 22Questo è messer Goldin, pronto a illuminarci (con grande pazienza).

Comunque. Il viaggio del paesaggio e della natura nell’arte è molto avventuroso. Si comincia nel Seicento, epoca di grandi scene con un sacco di gente e di alberi. Nei dipinti si raccontano storie, allegorie ed episodi più o meno mitologici… e tutti questi accadimenti non possono capitare nel vuoto. Grazie al buon Tintoretto – che un giorno si svegliò e decise che i personaggi dovevano stare in mezzo al mondo naturale e non davanti -, la natura diventa ambientazione, un palcoscenico idealizzato, che non ha bisogno di essere realistico. Gli olandesi, però, sono gente pratica. Vivono in un territorio in trasformazione, costruiscono in mezzo all’acqua, modificano il loro mondo, osservano la natura come dei piccoli scienziati coi pennelli. Gaspar van Wittel arriva a Roma per documentare la deviazione del Tevere e, magimagia, si inventa la veduta: precisione fiamminga, illuminismo dilagante e meraviglia dell’architettura italiana. Finire a Venezia, che era un posto di gran transito e importanza geopolitica, era inevitabile. E allora ciao a Canaletto e Bellotto.

Foto 24-10-13 22 36 23Questa è la signorina che ha aggiunto a mano tutti i puntini sulle i che vedrete sui muri della mostra.
Abbracci alla maestra indiscussa del puntinismo didascalico-testuale.

Una cosa mirabile che ho scoperto è che, nel Settecento, le vedute venivano utilizzate come cartoline dai baldi viaggiatori impegnati nel Grand Tour. Un’altra cosa che ho scoperto è che, non troppo tempo dopo, i pittori “romantici” si mettono a spennellare gigantesche cartoline dell’anima. Eruttano vulcani, la luna illumina pianure desolate e i fenomeni della meteorologia diventano fenomeni del cuore. Ah, lo spazio infinito! Ah, le tempeste! Nell’Ottocento il paesaggio diventa stato d’animo. Anzi, visione dell’anima. A chi non ne ha una viene sconsigliato di dipingere. E poi? E poi, in giro per le foreste francesi, si comincia a pensare che “vedere” la natura, osservarla e rappresentare la “verità delle cose” in un preciso istante sia il prossimo grande passo dell’arte pittorica. Questi signori sono – circa – i realisti, la scuola di Barbizon – che è un villaggetto appena fuori dalla foresta di Fontainebleau. Nel 1838, poi, arriva un gentiluomo di nome Daguerre con un’invenzione nuova nuova: il dagherrotipo, un aggeggio che “consiste nella riproduzione spontanea delle immagini della natura, ricevute nella camera oscura”. Ah è così, monsieur Daguerre? Bene, tutti in giro per i prati col cavalletto! Impressionisti, all’attacco!

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Monet, che lì per lì aveva deciso di dipingere tutta la verità e nient’altro che la verità, con la pioggia e col vento, lavorando a una tela diversa per ogni ora del giorno – per catturare LIVE i cambiamenti dell’atmosfera e della sua luminescenza avvincentissima – ad un certo punto decide che la luce che filtra leggiadra tra le foglie di una foresta assolutamente perfetta non è poi così fondamentale. “Se le mie Cattedrali, le mie Londra e altre tele siano state fatte dal vero oppure no, non riguarda nessuno e non ha alcuna importanza. Conosco tanti pittori che dipingono dal vero e fanno solo cose orribili. Il risultato è tutto”. Monet si compra un paio di occhiali da sole veramente spacconi e, insieme a Cézanne, si carica l’impressionismo sulle spalle per portarlo a prendere un po’ d’aria fresca… non necessariamente all’aperto, anzi.

Ninfee, farò di voi delle rockstarZ! Vi dipingerò in un milione di modi, mi inventerò l’idea di “serie” e vi farò quasi scomparire in una meraviglia di rosini azzurrati e di verdini, vi osserverò così da vicino che non sembrerete nemmeno più delle ninfee, ma luminosi spiriti di vegetazione galleggiante. Tié.

Foto 24-10-13 12 28 53Questa è la mia parete preferita di tutta la mostra. Diamine, è la parete definitiva.

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Temo di aver fatto un casino, col ricapitolone artistico… ma ho comunque un asso nella manica, un ultimo Pikachu da far saltare fuori dalla sfera Poké, un megazord di ninfee e salici acquatici. Perché già arrivate super felici nell’ultima sala, quella col festival mondiale di Monet, ma quando siete sulla porta vi accorgete anche che in fondo c’è una gloriosa nicchia davvero teatrale. Che uno ci rimarrebbe di sasso anche se il quadro fosse una roba scialba come la minestrina, figurati poi con quello che c’è dentro.

Foto 24-10-13 12 36 54 (1)Foto sghemba con tanto di stipite, al solo scopo di creare inutile SUSPANS.

Foto 24-10-13 12 34 13 copiaTADAAA!

La gioiosa giornata – resa ancora più gioiosa dall’impagabile compagnia di Stailuan (l’uomo che disegnò il logo di Tegamini e che ora, se lo incontrate per strada, vi risponderà solo se gli gridate CATZAPPROVED) e Nadia di Gazduna (l’unica donna, dopo Charlize Theron, che sta davvero bene coi capelli corti) – è proseguita con un ruzzolone collettivo all’Aquila Nera, dove siamo stati abbondantemente nutriti e rifocillati e dove tutti quanti si sono pubblicamente presentati tranne me. Nadia ha esordito con Ciao, sono Nadia di Gazduna, fantastico sito che, di tanto in tanto, pubblica anche delle cose scritte da Francesca… e niente, ci hanno considerate un’unica entità e sono stata dispensata dalla presentazione ufficiale. Il che è positivo, che descrivere Tegamini è sempre un casino. Lo faccio adesso, magari. Ciao a tutti e grazie di cuore per l’invito. La mostra è splendida ed è stato un onore ascoltare Marco Goldin. Mi chiamo Francesca, lavoro al marketing in una casa editrice e la sera traduco dei libri. Tegamini è un blog buffo dove parlo di quel che mi piace e mi fa contenta. Credo di essere una propagatrice di entusiasmi. E spero proprio che questo mio superpotere possa essere utile a far venire una quantità vergognosa di gente alla mostra, di solito funziona. Bene, grazie a tutti. Dov’è che posso avere un altro po’ di prosecco?

tegamini nadia stailuanUno specchio, uno specchio! Presto, foto-bimbominkia! Eccoci. C’è Nadia, poi c’è Stailuan – che regge con coraggio l’oca Luisa, l’oggetto meno ergonomico di sempre – e ci sono io, che mi contorco per non finire risucchiata dall’imponente vaso di fiori.

E niente, non mi hanno fatto tenere il braccio una poiana di Harris ma direi che non è andata male. Prima di vantarmi di tutte le donerie elargite da Segafredo – che dopo la mostra, lì in dieci con Gesù in persona a farci da guida, io ero anche già contenta così – vi rimando al sitino di Verso Monet e al trailer del nostro blog-giro (che ci riprendevano come le star, con una specie di accecante raggio alieno). Nei prossimi giorni dovrebbe emergere dell’altro, tra foto e imbarazzanti scene filmate, quindi buttate un occhio sulle altre web-propaggini di Tegamini per ridere tantissimo di me.

Foto 24-10-13 22 57 35Non mi avevano ancora donato una tovaglietta. Per dire, ho ricevuto dei frisbee, una canzone scritta apposta per me da una boyband e una poltrona-canotto arancione, ma una tovaglietta non ancora.

Foto 24-10-13 23 04 50 (1)Generi di prima necessità! Grazie!

Foto 26-10-13 17 50 43Anche il libro-catalogo è da considerare un genere di prima necessità.

Orbene. Credo di aver finito. Spero di avervi messo addosso un minimo dell’entusiasmo che questa mostra merita. Diciamo che i quadri sono così belloni che vi faranno del bene anche senza la spiegazione del curatore, ma vi consiglio di lasciarvi raccontare la storia dalla guida. Che quando si scopre da dove viene una collina, o un mare con le ondine o uno stagno di ninfee, ecco, è un po’ come galleggiarci sopra, spalancando gli occhioni.

Cuccioli della gratitudine a Segafredo per invito, l’ospitalità e i dononi. E buona mostra a chi ci vorrà andare.

🙂