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Badessa

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Di Marie de France si sa poco, sempre che la sua persona letteraria si possa far combaciare a un personaggio storicamente documentato. A Marie si attribuisce una raccolta di lai amoroso-cortesi risalenti al XII secolo e, forse, il governo di un’abbazia inglese. Tanto basta a Lauren Groff, che in Matrix – in libreria per Bompiani nella bella traduzione di Tommaso Pincio – crea per Marie una genealogia nobile fatta di guerriere crociate discendenti dalla fata Melusina – troppo rozze per abitare con la necessaria svenevolezza a corte – e una paternità illustre ma illecita. Figlia bastarda di un Plantageneto, Marie verrà di fatto esiliata da Eleonora d’Aquitania e spedita in un convento allo sfascio in Inghilterra. Altissima, grossolana e indocile com’è, per Marie non funzionerebbe neanche un matrimonio combinato e prendere i voti è l’unico destino che la regina (che vuol pure levarsela di torno) intravede per lei.

Poco maritabile ma molto istruita e risoluta, Marie deciderà di puntare i piedi nell’unico modo che ha a disposizione: facendo prosperare la stamberga malsana e poverissima dove Eleonora – fulcro di ogni suo amore, nonostante tutto – l’ha relegata. Quale migliore rivincita nei confronti di chi vuol farti sparire può esserci, se non diventare un caso eccezionale di successo? Marie si applica, anno dopo anno, per trasformare l’abbazia in un’utopia di donne, un’isola protetta (più dalla mano implacabile della badessa che da quella del Signore) dove coltivare una forma di paradossale indipendenza: celate da un labirinto e separate dal mondo dal velo monacale, ma libere di studiare, lavorare e abbracciare le risorse della natura, contrastando anche i soprusi del clero e dei signorotti locali che hanno assorbito senza ritegno le ricchezze delle monache, riducendole all’indigenza.

Tutto questo è peccato? Senz’altro. Ma Marie ha già perso tutto in tenera età e, tra visioni mistiche che molto sanno di scaltra manovra politica e sincero amore – non estraneo alla carnalità – per le consorelle di cui è responsabile, la badessa sarà “matrix” – madre e artefice – di un destino inedito e insospettabilmente radioso, date le circostanze di partenza. Groff ci racconta con un presente da presa diretta l’intero arco “biografico” di questa versione ipotetica dell’evanescente Marie-storica, documentando con puntiglio le giornate dell’abbazia e le relazioni diplomatico-amministrative che il regno chiuso della badessa intrattiene col vicinato e i potenti d’Europa. Marie trasforma una pietraia in un prospero Eden, servendosi solo della sua mente e delle mani di una schiera di consorelle che – fortunatamente per lei – non sono uniformemente dotate del suo stesso amore per il libero arbitrio.

È un romanzo affascinante per la minuziosità dell’affresco storico che traccia e, allo stesso tempo, soffre alla lunga di quello stesso puntiglio. Di Marie si finisce per sapere poco lo stesso, perché il grande manto di una fede faticosamente costruita sembra pian piano deformare nel misticismo quelle che sono sacrosante ambizioni pratiche. C’è un potere… ma non possiamo fare a meno di osservarlo con amarezza. La conquista di Marie non è una conquista di tutte. È un potere che non si trasporta sul futuro, nemmeno il più prossimo, lasciandoci una storia che ci travolge nelle prime battute e si smussa dopo la conquista. Forse è solo di vanità che si parla, perché la vanità è l’unico peccato che ha davvero bisogno del riflesso che ci offrono gli altri. E Marie sceglie – un po’ come l’angelo caduto di Milton – di dominare una frazione di mondo perché il mondo “vero”, intero, vasto, le resta precluso e mai le sarà offerto.

michele mari roderick duddle tegamini

Dopo FantasmagoniaDi bestia in bestia, ho cominciato a pensare a Michele Mari come a una specie di destinazione turistica. Per la precisione, Michele Mari era diventato una di quelle grotte incredibilmente buie, ingarbugliate e interessanti che uno va a vedere quando è in ferie in qualche posto un po’ fuori mano. Quelle con un’escursione termica dentro-fuori di circa novemila gradi centigradi, le stalattiti e le stalagmiti che non smettono mai di crescere e ampi tratti ancora inesplorati, pieni d’acqua e assolutamente letali. In quelle caverne lì, che siano fatte di calcare o di chissà che altro, c’è sempre un sentierino calpestabile e moderatamente illuminato che serpeggia docile in mezzo a forme e strutture improbabili. A me, in quei posti, viene sempre in mente la roba da mangiare. Ci sono le formazioni sedimentarie a forma di cannelloni, ci sono quelle più grevi che sembrano dei mucchi di profiterole. E tutto sembra quasi innocuo, se per un attimo ti dimentichi che sei sottoterra, che c’è un freddo innaturale e che si scivola. O che dipendi dai quei quattro fari in croce puntati sul tuo sentierino, che sta in mezzo a chissà quali indicibili anfratti, in un labirinto di cunicoli, sale e abissi che mai potrai percepire nella loro interezza. La cosa peggiore, però, è sentire la guida che ti dice che là sotto c’è la vita. Al buio, nel silenzio più completo, ci sono delle cose vive.
Ecco. Michele Mari, per me, somiglia un po’ a un ecosistema sotterraneo di quel genere lì. Uno che scrive dei libri che se li apri in spiaggia viene nuvolo. E te rimani seduto sul tuo asciugamano e ti prendi il raffreddore, perché sei così travolto dalla meraviglia che ti dimentichi di metterti la maglietta.
…temo di aver rotto i coglioni con queste metafore. Anzi, come direbbe Salamoia, vi sto facendo venire uno scaciorbio, con le benedette metafore. E gli altri personaggi di Roderick Duddle gli darebbero ragione.
La Badessa, donna pratica e poco incline ai giri di parole, ordinerebbe al Probo di farmi sparire.
Il signor Jones, tanto per cominciare, mi metterebbe a servire ai tavoli.
Lennie non capirebbe che cos’è una metafora, ma forse mi regalerebbe un topolino morto da accarezzare.
Moriarty si approprierebbe dei miei pochi averi con un tortuoso ma impeccabile atto giudiziario.
Suor Allison, probabilmente, si alzerebbe le gonne.
Scummy commenterebbe con un laconico Yuk Yuk.
E Roderick? Roderick vorrebbe delle spiegazioni, credo. E un bicchiere di latte e qualche ossicino di gabbiano.
Ma voi, che magari siete personcine esigenti e ben abituate, potreste avere voglia di uscire dalle grotte – per quanto piacevoli e affascinanti – per mettere le mani su qualcosa di avventuroso, nobilissimo e perfettamente ingarbugliato, su una storia che sembra arrivata da lontano apposta per farvi divertire e per prendervi in giro. Dovrebbe venirvi voglia di leggere Roderick Duddle, secondo me, anche solo per annotarvi su un foglietto tutti i modi in cui Michele Mari sceglie di chiamarvi, o esigenti e sapidi lettori. Perché capita che uno scrittore, dopo un piatto di orecchiette salsiccia e ricotta, si diverta a inventare un romanzo d’appendice pieno di canaglie, equivoci, esecuzioni sommarie, intrighi, fortune contese, meretrici leggendarie, scarpe rotte, suore che vi menano con una spranga, cantine umide, strade costiere malfrequentate, gendarmi, avidi manigoldi, raggiri, bambini muti, scherzi della natura, polene e locande piene di scarafaggi. Imparerete un casino di insulti desueti, ammirerete la precisissima assurdità dell’intreccio e finirete per invitare qualche nuovo ospite ai vostri pic-nic. Perché Mari ha deciso di portare in vacanza tutti quanti i suoi mirabili mostri… e a voi conviene farveli amici, intanto che sono così di buonumore e villeggiano felici tra una pagina e l’altra di questo libro.

:3

P.S. se non siete tanto convinti – crastúmberli, com’è possibile! -, andatevi a leggere quest’intervista bella bella. C’è anche una mappa. E dove c’è una mappa, lo sanno tutti, c’è anche un tesoro.