Tag

amore

Browsing

In città si crepa di caldo, in campagna anche… ma almeno ci si augura che il cambio di scenario aiuti la creatività a fluire un po’ meglio. I dipendenti di Bomba Agency si riuniscono prima della chiusura ufficiale delle ostilità e dei “ci pensiamo a settembre” per mettere insieme una proposta di gara. Non conosciamo il cliente, non sappiamo che cosa vada in concreto inventato, ma in fondo non è necessario. Le gare sono tutte uguali e sono anche il simbolo perfetto di come gira il mondo: si lavora in uno scenario incerto con la speranza che quel lavoro lì produca in futuro altro lavoro, ma lievemente più solido. Nel frattempo gli orari si allungano, i confini tra vita professionale e vita privata si sfumano, tutto è urgente, fondamentale e indispensabile… ma non stiamo mica salvando vite umane, non scordiamocelo. Ironia, mi raccomando! Una birretta?

La casa di campagna che fa da sfondo vivo e presentissimo a Estate caldissima di Gabriella Dal Lago – in libreria per 66thand2nd – accoglierà per una settimana di lavoro e stretta convivenza i sette componenti di Bomba, più una gatta e un bambino di otto anni. È figlio di Gian, il padrone della casa e pure dell’agenzia – anche se quasi si vergogna a farsi trattare da capo – e della sua ex compagna. La compagna attuale è una collega che, prima ancora, era stata una sua studentessa. Le relazioni degli altri (e con gli altri) si sveleranno man mano, mentre si suda copiosamente, si prova a mettere insieme qualcosa di dignitoso da presentare all’ipotetico cliente e ci si rimbalza addosso con diversi gradi di intensità. La casa accoglie e nasconde, forse perché conosce già il futuro e sa rassegnarsi alla rovina. Non piove da un’eternità… ma pioverà e nessuno sarà pronto.

Di millennial impantanati e prigionieri delle proprie contraddizioni si sta cominciando a narrare con buona lena, di solito raccontandoli in preda a una rassegnazione statica o, a volte, facendoli proprio rinunciare a partecipare. Son strade reali, ma ce ne sono altre. Dal Lago non affligge ogni suo personaggio col medesimo dilemma “generazionale”, anzi, dosa il pesante e il leggero con occhio e sensibilità. Alcuni sono alle prese con delusioni senza tempo, altri si scoprono più flessibili del previsto, una vuol salvare l’universo intero ma è indifferente a chi le sta a un metro, un’altra sa che non avrà mai il coraggio di scappare. È una confusione ben orchestrata e soprattutto “attiva”, ci si scorge una forma di resistenza e un margine di manovra ancora accessibile. E probabilmente è questo che rende amara sul serio la sorte di Bomba.

La casa potrebbe essere l’ultimo rifugio prima di una catastrofe, ma si dimostra un crocevia decisivo che nessuno riconosce. E i disastri più grandi di noi – che arriviamo col nostro valigino di panni sporchi, dilemmi, compromessi e programmi a brevissimo termine da portare avanti con le persone che accettiamo come inevitabili – guadagnano terreno, si addensano all’orizzonte e si preparano a spazzare via quello che conosciamo… e che non siamo stati capaci di aggiustare. Come fai a salvare TUTTO, quando ti tieni a malapena a galla e ti è stato insegnato che conta far vincere un IO che restringe ogni confine? Come si fa a sentirsi abbastanza “potenti”, se non ci fidiamo nemmeno di noi stessi? Meglio lasciarsi dimenticare o imparare a vivere “nel mezzo”, perché il passato ci sconfigge per definizione e il futuro va costruito… ma i progetti li abbiamo persi.

Book cover

La gente di pianura diventa cattiva perché non ha niente da guardare: non c’è un ostacolo naturale capace di creare un limite ai desideri ma la vastità monotona di quello che ti circonda scoraggia l’iniziativa. Insomma, vuoi andare chissà dove perché il paesaggio appare “facile” – e pensi che l’orizzonte ti sia dovuto – ma per strada non ti ci metti perché il potenziale percorso è semplicemente eccessivo. Marta Cai esordisce per Einaudi con Centomilioni allestendo il suo teatro proprio in un’evanescente cittadina di pianura, affidando alle sue “vittime” di finzione il compito di raccontarci l’insoddisfazione, lo stallo perenne di chi molto vuole ma pochissimo crede di poter fare, la claustrofobia assoluta delle radici, della meschinità fatta passare per affetto, della cura come ricatto.

L’unica cosa che Teresa e Alessandro hanno in comune è forse la necessità viscerale di scappare. Lei non concepisce nemmeno la possibilità di comprare un vestito senza la supervisione della famiglia tutta, lui si piace da impazzire e non ritiene che serva altro. Lei ha ben superato i 40, lui ne ha poco più di 20. Lei è una via di mezzo tra una bambina decrepita e una zitella prigioniera, lui non ha mai trovato il modo di farsi prendere sul serio. Entrambi coltivano una sorta di esistenza parassitaria: lei ostaggio dei genitori anziani – “con tutto quello che abbiamo fatto per te non vorrai mica abbandonarci?” – e lui come zavorra per il Vecchio Porco che mantiene la madre. Lei lo ama come ci si innamora di un cantante alle medie… e lui l’ha capito.

Son poche pagine, ma il rancore che ci troverete dentro penso vi basterà per lungo tempo. Più che Teresa – che è una creatura paradossale che può far pena come rabbia – quel che colpisce è l’accuratezza della ricostruzione di quella miriade di grettezze quotidiane, abitudini impermeabili al cambiamento e superbie imbecilli che fanno “paese”… e che sono fin troppo vere. A tenere insieme tutto è l’eterno tema dei soldi: chi ne ha, chi se li merita, chi li butta, chi ne vuole di più, chi fa progetti senza averne, chi non ha nemmeno l’immaginazione per spenderli e chi li conta in tasca agli altri, incessantemente. Cento milioni, pensati in lire per farli sembrare di più – anche perché andranno divisi in tre: ecco il premio per il più mesto degli inganni. Sono pochi? Sono tanti? Non si sa, dipende da com’è il paesaggio di casa vostra. Teresa e Alessandro vivono in pianura. E vivere, per loro, è un debito insormontabile.

Mi pare che a Coco Mellors sia globalmente toccato un lancio editoriale che riassumerei più o meno così: “Sally Rooney, ma simpatica e vestita meglio!”. Cleopatra e Frankenstein, il suo esordio – in libreria per Einaudi Stile Libero con la traduzione di Carla Palmieri –, dunque, ha automaticamente raccolto l’odio di chi già detestava Rooney ma anche le tradizionali accuse di frivolezza, disimpegno e “semplificazione” del Vero Dramma Della Condizione Umana. Mellors non pare averci badato, anzi. Si è comprata degli stivaletti dorati e una cappa di Valentino e ha danzato leggiadra a firmare un contratto con la Warner – se non sbaglio – per trasformare il libro in una serie. Destinazione perfetta, perché il romanzo ha proprio quel passo lì.

L’intrigo in prevalenza sentimentale si svolge a New York nel 2007 e anni limitrofi, un’epoca pre-tracolli economici in cui era ancora vagamente possibile far fortuna a Manhattan (o anche solo pagasi una stanza) lavorando nei settori creativi e artistici. Cleo ha 24 anni ed è arrivata da sola dall’Inghilterra per studiare pittura. Bella, misteriosa e sofisticata – almeno all’apparenza – pare destinata a un radioso futuro. Il suo è il tempo della gioventù e delle potenzialità che ancora devono esprimersi, ma il tempo della realtà la insegue: il visto da studenti sta per scadere e Cleo non ha progetti solidi e nemmeno una Green Card. L’universo provvederà? Forse. Mentre abbandona a un orario fantozziano una festa di Capodanno, incontra Frank in ascensore e i pianeti promettono di allinearsi. Lui ha superato i 40 e dirige un’agenzia pubblicitaria. Istrione di successo, Frank rimane folgorato da Cleo e sei mesi dopo si sposano in comune reclutando come unico testimone un venditore di hot-dog. Cosa non si fa per avere una bella storia da raccontare… forse ci si sposa anche.

Il romanzo è una cronaca a più voci del matrimonio sghembo di Cleo e Frank. Attorno a loro orbita una compagnia di amici, sorelle piccole, colleghi, pessimi genitori, madri tragiche e segretarie che funzionano narrativamente da superfici riflettenti o da “carte imprevisto” e che, insieme a una città che a suo modo funge da personaggio, da cornice che definisce una maniera peculiare di stare insieme e di concepirsi nel mondo, da gorgo che maschera col divertimento tanti scogli aguzzi che attendono sotto la superficie INSOMMA, tutto questo contribuisce a delineare i confini di una pessima idea travestita da colpo di fortuna, da fato favorevole.

L’idea che ci si salvi insieme vale per chi non ha ancora trovato il modo di stare in piedi per conto suo? Quanto perdiamo la capacità di concepirci nel futuro se il bagaglio che ci trasciniamo in giro è troppo pesante? Quanto “costa” rendersi finalmente conto che non saremo mai dei talenti sprecati perché di talento da sprecare non ce n’era poi molto? Come si fa a costruire qualcosa di reale se attorno a noi resiste l’idea che tutto è transitorio, tutto è di passaggio o tutto è una festa da aggiungere alla povera narrazione delle nostre imprese?

Dunque, non sapendo bene cosa aspettarmi e diffidando dei miracoli, non ero ottimista, ma l’ho trovato molto godibile. Diciamo che le parti “facili” sono le meno interessanti e anche quelle che forse patiscono di più la ricerca di un effetto. I dialoghi sono una specie di ottovolante – alcuni sono splendidi e i personaggi litigano con particolare piglio, così come mi è piaciuto davvero tutto quello che ha a che fare con Eleanor, ma tanti altri scambi che vorrebbero essere argutissimi e/o fascinosi sono un po’ debolini. Ma davvero si sono innamorati dicendosi questa roba? Chissà, i sentimenti che sbocciano ci rendono indiscutibilmente ridicoli. Mellors gioca molto anche sul fatto che Cleo sia un’inglese in mezzo agli americani – anche se poi il loro “giro” è estremamente cosmopolita – ma, nella resa finale, non è che vengano fuori trovate strabilianti. Alcuni tra i comprimari sono delle macchiette – Santiago e specialmente Quentin -, mentre per altri ci si augurerebbe più spazio. C’è una sensazione di generico déjà-vu che un po’ dipende dalla New York festaiola e un po’ dal tema trito del “guarda quanto sono speciale ma non lasciarti ingannare perché anche la mia vita è un dramma anche se sono pieno di soldi e siamo tutti di una bellezza fuori scala”.
Insomma, si potrebbe dire che é una commedia romantica che quando vuol fare la commedia romantica funziona meno mentre fila via con disinvolta bellezza – e una scrittura che ha visibilmente un altro passo – quando si affaccia su panorami meno scintillanti. Ci sono tanti temi “pesanti” e per nulla frufru, dalla malattia mentale all’alcolismo, dalla solitudine al terrore di tagliare i ponti con quello che conosciamo, anche se quel che conosciamo non ci basta. Lì c’è qualcosa di brillante che resiste e che, almeno per me, ha tenuto in piedi la costruzione, ma non tanto perché occorra il tema “pesante” per farsi prendere sul serio, ma perché è lì che ci ho visto più coraggio, più sincerità, quello che meno mi aspettavo e che esce dall’inquadratura.
Ciao, Coco Mellors. Piacere di conoscerti. Dove li hai comprati quegli stivaletti epici?

Hilma Wolitzer è una relativa novità per noi: per la prima volta la troviamo tradotta in italiano (da Bettina Cristiani) in quest’antologia in libreria per Mondadori, corredata da una prefazione di Elizabeth Strout – che non deve aver sudato sette camicie per scriverla, mi permetto di dire. Oggi una donna è andata fuori di testa al supermercato raccoglie i racconti di Wolitzer usciti in origine attorno agli anni Settanta su un nutrito manipolo di riviste americane. L’unica eccezione è l’ultimo, recentissimo e “pandemico”, ma il resto è una collezione meno vicina nel tempo ma che conserva un suo senso perché la coppia, la famiglia e l’identità modificata dalle relazioni sono temi che mai potranno dirsi vecchi o superati, anche se i contesti di produzione e ricezione cambiano inevitabilmente.

La bandella prova a vendervelo come un “romanzo di racconti”, ma non è particolarmente vero – anche se tutti i mariti sono degli Harold o degli Howard e tutte le mogli (più o meno abbandonate, insonni o intente a sbirciare il mondo dalle finestre di casa) ingaggiano con noi che leggiamo una conversazione che compensa il tran-tran ermetico di una vita domestica che pare ormai sicura, se non paludosa.
Si parla d’amore, di sesso e di gioventù sfiorite, di amanti che minacciano lo status-quo o di ex-mogli invadenti, di corpo, di compromessi e padri assenti, di alleanze femminili e vite alternative da immaginare visitando case in vendita, apparecchiate a tema per evocare idilli molto specifici. Parlano da sole, queste donne. Parlano con noi senza risparmiarsi e con una franchezza modernissima, affilata e amara. Tutte, prima o poi, potrebbero andare fuori di testa al supermercato, coi bambini che non smettono di tirarle per la gonna e che finiscono per farsi ingloriosamente la pipì addosso. Non sono racconti “appariscenti” o vulcanici, sono musica da camera suonata con tutti gli strumenti scordati e i vicini del piano di sopra che litigano, strascicano i piedi o passano l’aspirapolvere. E come finiscono? Così, di botto, dopo aver attraversato in una manciata di pagine uno accidentato e vasto paesaggio interiore.

È bellissimo. Leggetelo.
L’udienza è tolta.
Potrebbe bastare, ma vi attaccherò comunque un piccolo pippone d’incoraggiamento. Gabrielle Zevin e il suo Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow – che trovate in libreria per Nord con la traduzione di Elisa Banfi – se lo meritano.

Nel 1995, Sam e Sadie si incontrano per caso in metropolitana. Sono entrambi arrivati a Boston dalla California per studiare – MIT e Harvard, per non smentire il percorso da bambini prodigio già ben consolidato. Si conoscono già da un’infanzia più tenera (e nel caso di Sam anche molto più impervia) ma non si parlano da anni e, senza quella zampata del destino e qualche decisione deliberata presa al momento giusto, resterebbero probabilmente degli estranei, privando il mondo di alcuni videogiochi straordinari. Giocare insieme è stato il cemento della loro amicizia, uno spazio in cui entrambi hanno accantonato maschere e paure per immaginare un posto sicuro e deporre le armi. I loro cervelli si completano, ma è sui loro cuori che si può fare meno affidamento.

Il romanzo parte da questo riavvicinamento fortuito per accompagnarci nei mondi di Sam e Sadie, quelli che hanno inventato e programmato insieme – invitando al gioco una vastissima moltitudine di altri gamer in erba – e quelli che hanno attraversato fianco a fianco vivendo, accapigliandosi e cercando di fare a meno l’uno dell’altra – fallendo sempre, come in un livello particolarmente frustrante di Donkey Kong. In mezzo troviamo genealogie che non bastano a definire un’identità, seconde generazioni di “nuovi” americani, mentori viscidi e magnetici, amicizie che sono famiglia, dispute lavorative, testardaggini creative, rivalità, bolle tecnologiche non ancora scoppiate, dilemmi etici mascherati da gioco, un piede inaffidabile – e mai accettato, nella sua fallibilità -, pizzerie coreane, attrici e attori, Macbeth e l’Iliade, successi clamorosi e cantonate.
C’è, con decisione, un impianto filosofico che unisce il gioco alla fiducia nel domani. Perché giochiamo? Per sconfiggere la morte, per convincerci che si possa sempre ricominciare da capo e fare meglio, anche se sappiamo fin troppo bene che non ci è mai davvero concesso.

“Cos’è un gioco? È domani, e domani, e domani. È la possibilità dell’eterna rinascita, dell’eterna redenzione. L’idea che, se continui a giocare, puoi vincere. Se perdi, non è per sempre, perché nulla è mai per sempre”.

Non c’è Game Over che regga, in un universo costruito per stupirti e per farti continuare a giocare: quell’infinita e inesauribile possibilità di afferrare un altro “domani”, indipendentemente da quanto tu possa aver fatto schifo nell’oggi, è una corazza confortante. Non ripara dal male, dal caso, dal caos e dal dolore – come Sam e Sadie ben sanno -, ma è un orizzonte che mantiene intatta quell’idea di potenzialità infinita, di “nessuna strada mi è ancora preclusa” che è la magia vera della giovinezza. Forse si gioca da “piccoli” con così tanta convinzione proprio perché ci si rispecchia in quell’attitudine da pioniere libero di scovare percorsi non ancora bruciati dal fallimento, dalla paura, dalle aspettative disattese. Non è una metafora d’originalità devastante, ma qua dentro funziona e trova un’anima degna – anche se le produzioni universitarie di Shakespeare non possono vantare un budget faraonico.

Ribadisco: è bellissimo.
È necessaria una vasta cultura videoludica? Secondo me no. Aiuta che v’interessi? Penso di sì. Ma non precludetevi un romanzo così meritevole e “vivo” (nonostante le ovvie licenze) per ipotetici deficit sul fronte dei giochi, specialmente se siete stati adolescenti nel primo decennio del Duemila. E se vi intrigano le storie aziendali (eccomi!), ancora meglio. Altra nota: siete da sempre team-Achille? Ne riparleremo a fine lettura. Tornate a dirmelo. 🙂

 

I libri “risolvono” problemi? Nei libri possiamo trovare soluzioni funzionali ai nostri crucci o grimaldelli infallibili per raddrizzare le storture della nostra esistenza? Mi capita tutti i giorni di ricevere variazioni sul tema del “cosa leggo per neutralizzare [inserisci difficoltà esistenziale molto specifica]” e non so mai bene come gestire un’aspettativa così potente e mirata. È un assunto di base che equipara l’effetto di un libro a quello di un medicinale, quasi. Aiutami, opera di narrativa, mostrami la strada, spiegami esattamente cosa fare, tirami fuori da questo pantano. A me viene da prenderla molto più alla larga ed è capitato spesso che in una storia che faceva altro rispetto alle mie tribolazioni trovassi incidentalmente qualcosa di “utile”. Diciamo che leggo con un certo fatalismo e senza cercare esattamente uno specchio. Potrebbe sembrare poco romantico, ma penso sia vero il contrario: ci speri così tanto che il libro-medicina può essere ogni libro che leggi, anche se non lo prendi in mano con la pretesa che ti illustri per filo e per segno come campare meglio. Ogni volta che ti trovi è una specie di miracolo e, aspetto doppiamente dirompente, quando non ti cerchi ma ti trovi non puoi che vederci un grande disegno del destino. E che c’è di più romantico di un destino risolutore?

Ester Viola, qua, non la vede troppo diversamente, anche se dalle premesse Voltare pagina (Einaudi) potrebbe somigliare a un libro che parla di libri capaci di districare a colpo sicuro i garbugli dell’amore. Le conviene che venga venduto così, per l’attitudine alla ricerca del libro-medicina di cui si parlava prima e per la fortuna che i “libri sui libri” continuano ad avere, ma c’è quel buonsenso di fondo e quel sano istinto al non crederci troppo che tende a restarti appiccicato addosso dopo aver superato una serie di fregature e tranvate spiacevolissime ma molto formative. La corazza dell’ironia e una perentoria esortazione a dosare le aspettative fanno il resto. Qui, in dieci “casi di studio” appaiati ad altrettanti libri, Viola riflette sulla realtà minuta dell’amore e sull’estrema fallibilità a cui tutte e tutti ci esponiamo quando ci son di mezzo i sentimenti. Dalle corna all’asimmetria dei rapporti, dal matrimonio alla fiducia reciproca, dall’abitudine alla vendetta, Voltare pagina è sorretto da un’idea strutturalmente buona che Viola tiene in piedi con palese divertimento – anche nostro.

Ecco l’indice:

Sì, ne uscirete magari anche con qualche spunto bibliografico da esplorare ulteriormente, se già non vi è capitato di leggere queste storie. Vi troverete in Reza, Hornby, Starnone e compagnia? Solo il destino può stabilirlo. Voi, però non aspettatevelo. 

Tutte le volte che un nuovo serial-killer sconvolge il sereno tran tran della provincia italiana, la prima cosa che Studio Aperto sente la necessità di specificare è che l’assassino in questione era un solitario.

Salutava sempre, ma era uno che si faceva i fatti suoi.
No, non lo conoscevamo bene, non dava confidenza.
Ho sempre pensato che fosse una brava persona, ma chi può dirlo… non era tanto di compagnia.

Ma mica è solo Studio Aperto. La solitudine è quasi sempre motivo di sospetto o di inquietudine, ha quasi immancabilmente un’accezione negativa, almeno in parte.
Uno magari non si presenta con una teglia di lasagne alla porta di ogni condomino quando decide di traslocare in un palazzo nuovo, o non sta venti minuti a chiacchierare col portinaio ogni mattina, o non t’attacca bottone mentre butti la spazzatura… e allora è un solitario. Uno un po’ strano, pure.
Chissà.
Non è detto, però, che tutti i solitari siano dei potenziali maniaci omicidi. O degli stronzi che non hanno voglia di ricambiare le nostre esuberanti profferte di amicizia. C’è chi è propenso ad esternare con più semplicità i suoi sentimenti e chi, semplicemente, non ha troppa voglia di stazionare per ore sullo zerbino della signora Piera a farsi raccontare quotidianamente cosa c’era di buono al mercato.
Chi ha torto?
Chi ha ragione?
Nessuno. La gente funziona come vuole, per fortuna.

Sia nei rapporti interpersonali che nelle numerose opere di finzione cinematografico-letterarie in cui possiamo imbatterci, poi, quando qualcuno confessa di sentirsi solo si verifica sempre un certo cataclisma. Il “mi sento solo” è una specie di punto di svolta, o una giustificazione per tutti i comportamenti bizzarri ed estremi che abbiamo potuto osservare in passato. E il grido d’aiuto, per noi che guardiamo o per noi che ci troviamo davanti un amico che ce lo dice, è una sorta di schiaffo. È quasi peggio che sentirsi dire “sono triste”. Perché un “mi sento solo” ti consegna quasi una responsabilità – siamo qui insieme, ci conosciamo… e quindi anche tu hai contribuito, con la tua assenza o la tua noncuranza nei miei confronti, a questa situazione di solitudine che mi sta facendo patire.

Lasciando però perdere le solitudini “estreme” – quelle che ci scegliamo da soli (vedi eremo sui monti) o quelle che, in qualche modo, il resto del mondo ci impone – e rinunciando in partenza a tracciare una soglia di accettabilità della solitudine – perché che ne so, insomma, di qual è il grado di tolleranza altrui? – credo che una specie di “solitudine di fondo” non possa non esistere. Forse non è neanche una solitudine, è più una condizione che non possiamo scacciare perché ci appartiene e connota la nostra esistenza come esseri singoli – per quanto sociali.
È più un rimanere da soli con noi stessi – che sembra facile, visto che siamo le persone che conosciamo da più tempo, ma mica va sempre tutto bene.

Quanto ci vuole per imparare a sopportarsi? Un bel po’, forse.
Il procedimento è piacevole? Ma figuriamoci.
Sarà un successo assicurato? Macché.

Esempio concreto, che poi va a finire da qualche parte – prometto.

Quand’ero più piccola ero molto pessimista. Una specie di Giacomo Leopardi, ma senza nessun particolare talento letterario o guai fisici eccessivamente invalidanti, a parte un culo grosso come un camper – che non ero assolutamente pronta ad accettare e ancor meno sapevo amministrare. Comunque, le mie compagne di scuola trovavano assolutamente indispensabile avere SEMPRE un fidanzato. Ma anche se stavano con uno che le trattava di merda, per dire, loro dovevano per forza mollarlo solo quando erano certe di poter passare al successivo senza prendere una fregatura. Perché avere il fidanzato era comunque meglio.
Io ammiravo la loro abnegazione e, nonostante qualche ragazzo ce l’avessi avuto anch’io, mi sembrava comunque assurdo che non condividessero la mia tetrissima visione dell’universo: siamo soli, siamo tutti soli, la situazione standard è essere da soli, non avere il fidanzato. Il fidanzato è una specie di bonus, una parentesi temporale di lunghezza indefinita che si innesta come condizione “speciale” sulla normalità dell’essere soli.

Che allegria, eh?
Una gioia che neanche il Titanic che affonda.
Un raggio di sole in un mattino di maggio.
Secchielli di pulcini.

selina

Col passare del tempo mi sono un po’ ripigliata. E il “SIAMO SOLI SIAMO TUTTI SOLI” si è evoluto in qualcosa di meno drastico.
Continuo comunque a pensare che gli amori veri, le cose strabiliantissime della vita e i legami che ci cambiano per sempre siano roba distribuita tipo zucchero a velo sulla superficie del pianeta e che se ti va bene una spolverata te la prendi pure tu – ma non è detto che succeda e non è detto che ciascuno di noi finirà spolverato dalla gioia – ma, crescendo, mi è sembrato di aver ricevuto più spolverate nei momenti in cui me la sapevo cavare meglio anche per conto mio.
Quand’ero contenta ed ero capace di tollerarmi un po’ di più.
Quando facevo le cose pensando che l’importante era che funzionassero per me.
Quando non dovevo dimostrare niente perché per me era sufficiente così.
Le cose “giuste” succedevano quand’ero in pace. Quand’ero felice da sola, più o meno.

Potrebbe sembrare una strategia di abbassamento delle aspettative nei confronti dell’universo allo scopo di rimanerci meno male e di gestire le delusioni con un “massì, in fondo mica ci credevo davvero” – anche detto Teorema della Volpe e dell’Uva -, ma rimango convinta che la felicità non sia una responsabilità che possiamo appioppare a qualcun altro. Gli altri possono renderci più felici, possono farci scoprire modi diversi di essere felici, ma non sta a loro sobbarcarsi tutto il lavoro. Non è una faccenda delegabile, le fondamenta sono affar nostro.
È un po’ come mettersi a gridare “Nessuno mi capisce!”, quando non capisci neanche tu cos’è di preciso che gli altri dovrebbero capire.
E il capirsi, secondo me, è anche una questione di solitudine. Non esclusivamente – perché è anche grazie agli altri esseri umani che riusciamo a inquadrarci un po’ meglio e a vedere che ci succede quando ci accadono le cose più disparate -, ma molto di quello che impariamo deriva da come digeriamo quello che ci capita. Da quello che ci viene in mente quando ripensiamo a una scelta, a una sfiga, a un momento felice. Da come un problema o una soluzione diventa parte di noi. Perché, nonostante il sostegno che possiamo ricevere dagli altri se proprio siamo già stati molto fortunati o bravi a tenerci strette le persone che ci migliorano l’esistenza, la testa che appoggiamo sul cuscino, quando finisce la giornata, è comunque la nostra, indipendentemente da chi abbiamo di fianco – sempre che di fianco ci sia qualcuno. E i pensieri che ronzano quando chiudiamo gli occhi non sono gestibili da nessun altro. Sono nostri, siamo noi che ce la dobbiamo sbrigare.
Da soli.
E più siamo abituati a gestirci, a conoscerci, a non farci troppo schifo, a starci un po’ simpatici, a chiarire i nostri limiti, ad autocensurarci quando serve, a darci occasionalmente degli imbecilli e a riconoscerci dei meriti quando ci vuole, ecco, più siamo capaci di gestire questa roba – che è lo stare in compagnia di noi stessi, una forma inevitabile di solitudine – meglio ce la caveremo, credo.
E non è che non avremo mai più bisogno degli altri, ma ne avremo bisogno perché ci fanno più felici, non perché aspettiamo che ci definiscano o che ci mettano in mano una bussola per capire da che parte dobbiamo andare. Perché non è a loro che spetta deciderlo. Non sono loro che devono dirci come funzioniamo o come possiamo funzionare meglio.

E dopo tutto questo lavoraccio infame riceveremo necessariamente la nostra spolverata?
Non è detto, per niente.
Ma, anche se da soli e privi di zucchero a velo, rimarremo comunque in compagnia di qualcuno che abbiamo imparato – più o meno faticosamente – ad apprezzare. E non è una conquista da poco.

6ilmiosanvalentino gourmet

Il mio San Valentino con Ottone von Testimonial doveva andare diversamente. Purina, con grande dispiegamento di mezzi e di ottime intenzioni, ci aveva addirittura fornito un magico kit pieno di romanticherie. Avevamo un mazzo di fiori, gente. Era dal mio matrimonio che in casa nostra non entravano dei fiori. E, col senno di poi, non è difficile capire il perché.
Ottone von Edward Scissorhands adora i fiori.
Ma non per le ragioni giuste.

ottone 6ilmiosanvalentino

Dopo aver prontamente divorato una porzione di Gourmet MonPetit ed essersi prestato a un brevissimo – ma intenso – SHOOTING fotografico all’insegna dell’abbracciosità e della felice interazione con un mucchio di nastrini colorati – nastrini che, come tutti potrete ben immaginare, contribuivano all’integrità del compianto omaggio floreale -, Ottone von Kratos si è avventato sui margheritoni, riducendoli a un ammasso informe e piangente di fogliame sminuzzato.
Erano belli, i nostri fiori. E vogliamo ricordarli così, all’apice della loro fugace avvenenza.

6ilmiosanvalentino fiori

I fiori, teoricamente, dovevano aiutarci a celebrare la festa degli innamorati con grande trasporto e coreografica dignità. E invece niente. Ottone non è sensibile. Ottone non comprende le smancerie. Se fosse un uomo, Ottone mi verrebbe a dire che non ho bisogno di un regalo di San Valentino. Per noi, amore, San Valentino è tutti i giorni. Che bisogno c’è di riempirsi la casa di cioccolatini? Neanche li mangi, i cioccolatini!
Ecco.
Ottone funziona così. Ma può permetterselo.
La prima cosa che mi sono domandata, quando Gourmet mi ha chiesto di festeggiare San Valentino col mio gatto – anzi, la seconda cosa che mi sono domandata. La prima-prima era “mi hanno forse presa per una gattara pazza?” – è stata la seguente: ma Ottone, alla fin fine, mi vorrà un po’ di bene? Cioè, ci sono almeno novemila cose al mondo che Ottone sembra apprezzare più di me. Ottone adora i sacchetti di carta, si diverte a grattare gli armadi alle 2 del mattino, ama follemente le falene, rompe con gusto bicchieri, vasi e piccoli soprammobili e, in generale, si venderebbe l’anima per una ciotola di carnina e pescetti in umido. Io, così a spanne, sono solo una comparsa nel vasto universo delle passioni ottonifere. Divento rilevante quando mi avvicino allo sportello dei mangiarini ma, per il resto, sono quasi completamente d’intralcio.
Dopo un attimo di discreto scoramento, però, mi è venuta in mente una cosa bellissima che succede tutte le mattine. 
Ho la fortuna di abitare molto vicino all’ufficio e, in pratica, quando Amore del Cuore è pronto per uscire di casa, io devo ancora trovare le forze di risorgere dalle coperte. Amore del Cuore, un po’ per incoraggiarmi ad alzarmi ad affrontare la vita e anche e un po’ perché gli sembra disdicevole andarsene senza salutarmi, viene sempre a sedersi sul bordo del letto. Mi abbraccia, mi saluta, mi coccola e mi dice una quantità di cose incredibilmente rassicuranti. Dopo quindici secondi, chissà poi perché, arriva anche Ottone. E ci ritroviamo lì tutti insieme ad augurarci buona giornata, gatti e umani, gente vestita e gente in pigiama, felini vispi e tizie addormentate, uomini grossi e gatti poffosi. Allegramente aggrovigliati in un angolo di letto.
E niente.
Non so perché Ottone lo faccia. E non credo che nessun gatto si azzarderebbe a chiamarlo “amore”. Ma a me, ogni mattina, la sensazione che arriva è proprio quella. Insieme all’idea che, da quando c’è Ottone, la mia “nuova” famiglia sia un po’ più grande e un po’ più bella.

Troppa tenerezza? Non preoccupatevi, c’è sempre un video – che Gourmet, nella sua infinita gentilezza, di sicuro non si merita.

[tentblogger-youtube 2QQrorQqpOE]

Portate pazienza. Siamo un po’ tutti degli Ottone.
Non regalateci dei fiori. Non li sappiamo gestire.
<3

IMG_1646


NN
è una casa editrice nuova-nuova
. Hanno cominciato a marzo, proprio con questo titolo – tradotto da Francesca Novajra -, e spero di vederli trionfare abbondantemente. Nelle schede-libro c’è anche il backstage, per dire. Super gioia – e ottima idea!

Sembrava una felicità di Jenny Offill somiglia a una raccolta di pensierini, tutti estremamente bizzarri. Ogni frammento, in maniera indiretta e imprevedibile, ci fa fare un passettino in avanti nella testa della protagonista. Comincia senza chiamarsi in nessun modo e prosegue diventando Moglie, un personaggio che si racconta mentre cerca di venire a patti con una nuova vita che non avrebbe mai pensato di potersi conquistare. La testa della protagonista, infatti, non è mica un luogo ospitale. Anzi, è un posto spigoloso, pieno di vicoli ciechi, sabotatori invisibili e trappole pazze.
Con i pensieri di Moglie, la Offill racconta i primi passi di una famiglia, dalle difficoltà quotidiane – BED BUGS! BED BUGS DELLA MALORA! – ai traumi piccoli e grandi che potrebbero far crollare la felicità costruita pian piano. C’è una bambina che nasce, piange moltissimo per parecchio tempo e cresce, fino a diventare una personcina serissima che corre nei boschi e dice cose spiazzanti e portentose. C’è l’analisi precisa dell’amore, dei compromessi che siamo disposti ad accettare e della paura assoluta che tutto quello che conosciamo vada in pezzi. Più di ogni altra cosa, però, c’è il dubbio. Di non essere mai abbastanza bravi da meritarci di combinare davvero qualcosa. E, ancora peggio, di non riuscire mai ad essere sufficientemente facili da amare.
La Offill, insomma, ci mette di fronte a una gran quantità di sentimenti complicati, piccole gioie e diffuso scoramento, affrontando ogni frammento del puzzle con uno sguardo obliquo, quasi scientifico. È pieno di citazioni e di riferimenti imprevedibili, questo libro. Da un lato, somiglia a una cronaca in presa diretta. Dall’altro, è una collezione di ricordi, momenti, letture e metafore, dallo yoga all’esplorazione spaziale, dagli animali strani ai terrificanti tipi-umani che ci si trova di fronte quando si manda un marmocchio all’asilo.
E basta, mi è proprio piaciuto.

In bocca al lupo, NN editore! <3

nope-e1331250168742-1024x587

Dunque. Siete andati a vivere da soli, finalmente. Ed è tutto bellissimo. Mangiate tonno in scatola cinque giorni a settimana (ricavando le vitamine necessarie al vostro sostentamento dal pomodoro che c’è sulle molteplici pizze che ingurgitate nel weekend insieme ai vostri amichetti), sperate che non vi caschi un bottone perché non ve lo sapete riattaccare e tornate a casa quando vi pare, senza dover fronteggiare vostra madre che, alle quattro e cinquanta del mattino, vi aspetta in camicia da notte al tavolo della cucina. Con una falce in mano.

Ma che cos’è che voglio dire.

I giovani virgulti che si levano dai piedi, tipicamente, sono costretti a lasciare a casa buona parte dei libri con cui sono cresciuti. In certi casi è meglio così. Spesso, però, è un gran peccato. Ma che ci volete fare. Col vostro stipendio vi potete permettere uno sgabuzzino per le scope, che libri volete portarvi. Pace, andrete all’Ikea, comprerete una di quelle mini-librerie da 22 euro e 90 e la ficcherete nell’unico angolo libero. E ci metterete i libri nuovi, quelli che vi accompagneranno trionfalmente in questa fase super avventurosa della vostra esistenza. I libri nuovi, dopo qualche mese, cominceranno ad invadere il pavimento. Si ammucchieranno sul comodino. Si impossesseranno di una porzione piuttosto rilevante del tavolo dove consumate frugalmente le vostre Spinacine. Vi sveglierete di notte per fare la pipì e, nonostante iTorcia, ne butterete in terra una pila. Ma sarete contenti, perché tutti quei nuovi libri li avete letti voi. E pazienza se non avete un posto decente dove immagazzinarli. Nel vostro disordine c’è comunque del criterio. Voi lo sapete. E che gli altri si attacchino al tram.

All’improvviso, se vi andrà particolarmente di culo, potreste innamorarvi a tal punto da decidere di traslocare, scegliendo consapevolmente di vivere con un altro essere umano. Una persona importante, la persona che potrebbe stare al vostro fianco per tutta la vita… o almeno così vi sembra. Farete il bucato, per questa persona. Mangerete negli stessi piatti. Vi scambierete fluidi corporei, a più riprese – e con una certa veemenza. Condividerete un bagno, delle lenzuola, la bottiglia d’acqua che sta vicino al letto per quando vi svegliate col mal di gola e non avete voglia di trascinarvi fino in cucina. Con questa persona programmerete delle vacanze, acquisterete un gatto anallergico e addobberete l’albero di Natale. Proprio voi, che immaginavate di invecchiare da sole – in una cantina buia piena di ratti scontrosissimi -, con questa persona riuscirete ad immaginare un futuro. Siete così felici e in pace che non litigate neanche. Vi verrà voglia di preparare delle torte. Maneggerete il terribile contenuto di una borsa del tennis piena di calzini sudati senza fare una piega. Per sbaglio, poi, una sera vi laverete i denti con lo spazzolino del vostro consorte. E, con vostra grande sorpresa, non verrete assaliti dall’irrefrenabile necessità di strapparvi la faccia.
Accadrà tutto questo. E anche qualcosa in più. La vostra gioia sarà così potente da condensarsi in una forma solida, sfaccettata e scintillante, che sventolerete con grande soddisfazione – e una certa tracotanza – in faccia alle vostre amiche. Ma nemmeno dopo aver ricevuto un anello di fidanzamento riuscirete a fare qualcosa di apparentemente semplicissimo. Nemmeno dopo aver tagliato una torta multistrato con sopra due improbabili dinosauri di ceramica riuscirete ad accettare l’idea mostruosa di disperdere e incasinare i vostri libri. Quelli vecchi, quelli nuovi, quelli che ancora dovete leggere. Sono vostri. Vi appartengono. Li avete portati in giro, vi hanno fatto compagnia, ci avete trovato dentro una quantità sterminata di cose. Vi piace girarvi e dire “Insomma, ho letto tutti questi libri. Vuol dire che qualcosa di buono l’ho combinato, alla fin fine”. E vi dispiacerà molto, ma non ce la farete proprio. Alla domanda “Gallina, ma nella casa nuova le possiamo unire le librerie?” risponderete ancora una volta con un risolutissimo NO. Le librerie no. Le librerie non si toccano, non si uniscono, non si ingarbugliano. Zero. Né ora, né mai.

 

Il regno è in festa! Abbiamo la libreria, finalmente! Vittoria! Saltini! Pioggia di cuccioli!

Una foto pubblicata da Francesca Crescentini (@tegamini) in data: