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Novembre 2014

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gaga telephone

So telefonare? No.
Telefono? Per forza.
Perché telefonare serve. Telefonare è produttivo, rapido ed efficace. Le telefonate fanno girare l’economia, cementano i rapporti umani, confortano gli afflitti e accorciano le distanze. Certi esseri umani telefonano addirittura per divertimento. Per dire, Amore del Cuore ha un amico di Catania che, quando è sbronzo, lo chiama a orari improbabili dal mezzo di una strada e gli passa persone a caso. E questi qua ci stanno, accettano con gioia di parlare ad Amore del Cuore. Ma senza fare una piega. Accorri, viandante, che ti faccio parlare col mio amico Marco! Non lo conosci, e nemmeno io so chi sei, ma non importa, ditevi due robe e facciamoci quattro risate. L’immane mistero è che nessuno si tira indietro. Nessuno cerca di menare questo nostro amico follemente espansivo che raccatta gente nei vicoli per chiacchierare con Amore del Cuore. Tutti trovano questa assurda faccenda la cosa più spassosa del mondo.
E io qua, a fissare con orrore lo schermo che lampeggia.
Non ricordo particolari traumi legati al telefonare. Solo che non mi piace. Mi agito, mi emoziono. Non so fare i convenevoli iniziali del ciao, come stai, tutto bene. Parto male, mi ingarbuglio verso la metà e la faccenda comincia a diventare normale quando è il momento di riattaccare. L’imprevedibilità della gente mi crea immani problemi. Se uno mi chiama di punto in bianco per invitarmi a una serata di cineforum parrocchiale, non sono in grado di elaborare una panzana convincente così, su due piedi. E quello è un talento fondamentale. Non riesco a produrlo, un dribbling telefonico immediato. E mi ritrovo al cineforum della parrocchia, perché ormai è troppo tardi e non m’è venuto in mente neanche un vediamo, ti richiamo tra un quarto d’ora. Perché io, fondamentalmente, non ho alcuna voglia di richiamarti. Neanche volevo risponderti, figurati se mi vien voglia di cercarti.

E’ un mondo difficile, per le persone che non sanno telefonare.
Può capitare che queste persone lavorino in giocosi open space, luoghi complicati pieni di colleghi d’ogni genere che conversano amabilmente col loro prossimo, rispondono senza timore ai cellulari aziendali degli altri e – ASSOLUTA MERAVIGLIA – hanno addirittura capito quali bottoni c’è da schiacciare per smistare chi ha sbagliato numero. In treno c’è chi prenota baldanzosamente esami medici raccapriccianti e chi racconta alla zia di aver appena sconfitto una truculenta influenza intestinale. Ci sono tizie che lavano di miseria i fidanzati alla fermata del tram, figlie lontane che tediano i parenti con minuziose descrizioni delle loro giornate e personaggi con l’auricolare che, piallati in metropolitana alle otto e quarantasei del mattino, si esibiscono nella chiamata definitiva, quella che salverà la loro azienda. E il mondo.
E voi là, che se dovete dire ad Amore del Cuore di comprare due spaghetti fate almeno cinquanta metri per non avere attorno nessuno.
Chi non sa telefonare, credo, pensa sempre di disturbare. Disturbiamo l’umanità circostante con i nostri parlottamenti sconnessi – convincendoci che tutti quanti ascoltino i cazzi nostri con un qualche interesse -, disturbiamo la nostra pace interiore e disturbiamo il poveraccio che dovrà starci a sentire. E’ una specie di maledizione circolare da civiltà Maya. Visto che rispondiamo con ansia e goffaggine, non vogliamo infliggere la stessa sofferenza a un’altra persona, convinti che il nostro sia un problema condiviso dal 99% della popolazione mondiale. Ecco perché alzare la cornetta e sbrigarcela senza tanti patemi è così complicato. L’unica consolazione, in questo trionfo di tentennamenti e inettitudine alla vita, è che si ricomincia ad avere fiducia nel destino, nel karma e nel cosmo. Perché capita di dover chiamare qualcuno per forza. Dobbiamo sapere delle cose, subito. Non possiamo rimandare. Se no ci licenziano. Ci prendono in giro. Rimaniamo senza casa, senza allacciamento del gas e della luce, senza internet, senza parenti, senza un regno e senza nessuno che venga a montarci i mobili da quattro soldi che abbiamo comprato. Allora andiamo in un angolo buio e deserto, raccogliamo il coraggio, facciamo il numero e rimaniamo lì ad ascoltare il telefono che squilla a vuoto per migliaia di anni, finché non cade la linea.
Perché dall’altra parte non c’è assolutamente un cavolo di nessuno.
…ed è BELLISSIMO. 

Non so bene cosa piaccia a voi, ma io sono una grande fan dei punti di vista. Se mi piovesse in testa un superpotere, credo che sceglierei una roba alla Professor X, supremo aggeggiatore di pensieri altrui. Anche una spolveratina di telecinesi – garanzia di tette sodissime per tutta la vita – non sarebbe male, ma già col pacchetto Telepatia-Base mi sentirei più che a posto. Che cavolo, le altre persone sono interessanti. Quale enigma è più gigantesco dei frullaggi di cervello di chi ci sta attorno? Che cosa passa per la testa dei nostri congiunti? Che cosa sappiamo davvero? C’è qualcosa che ci nascondono? Di chi cavolo ci siamo innamorati? Il mondo che ci siamo costruiti è solido come pensiamo?
Che ansia, lo so. Ma che ti frega di come la pensano gli altri. Ma vai a mangiarti un gelato. E invece no, non si può. Non si può Perché Gillian Flynn non vuole. Gillian Flynn ha deciso di prendere la nostra serenità e di farci dei complicatissimi origami a forma di pernacchia. E noi, per questo, dovremmo addirittura ringraziarla. Perché Gone Girl in italiano si chiama L’amore bugiardo e lo pubblica Rizzoli – è un bellissimo giocattolo. E, faccenda estremamente succulenta, è anche un romanzo di punti di vista.

Non intendo tediarvi più del dovuto, ma due cose su come comincia questo benedetto libro ve lo devo anche dire. Nick e Amy si conoscono per caso a una di quelle feste per giovani professionisti del genere mega-creativi-YEA-Brooklyn-caput-mundi, fanno di tutto per conquistarsi reciprocamente, si innamorano molto, vanno a vivere insieme e si sposano. Nick scrive di film, tv e libri per una rivista. Amy, invece, si inventa quiz – tipo “metti una crocetta e ti dirò chi sei” per pubblicazioni un po’ meno nobili ma comunque rispettabili. I genitori di Amy, entrambi psicologi, si sono vergognosamente arricchiti con una serie di libri liberamente ispirati alle prodezze della loro perfettissima figlia che, nella stucchevolezza generale dei romanzi, sfiora quasi la santità. Nick, invece, è un ragazzone del Missouri con una famiglia incasinata alle spalle – con tanto di sorella gemella scaricata a rullo da fidanzati e datori di lavoro, e genitori separati che non li hanno certo tirati su a macarons e succhi macrobiotici. Comunque. Nick e Amy sono belli, brillanti e svegli, hanno una splendida casa, un ottimo lavoro e un sacco di cose da dirsi. L’universo li invidia. Il globo intero vorrebbe la loro vita. E poi niente, va tutto in vacca. Va tutto in vacca in Missouri, poi. Che se ti rovini la vita a New York ne possiamo ancora parlare, ma ritrovarsi col culo per terra a New Carthage, cittadina devastata della provincia profonda, è un bel problema. Lo sfascio matrimoniale, finanziario e professionale si trascina per qualche tempo, i due si allontanano, il risentimento si accumula e poi, nel giorno del loro quinto anniversario, Amy scompare. Ma così, senza senso.
Ta-daaaaa.
E chi sarà stato? Ma è morta? Ma è viva? Possibile che Nick non sospettasse niente? Non ce la racconti giusta, Nick. E non sembri neanche così dispiaciuto. Indaghiamo!
Allora. Io non sono una che si prende bene con i misteri, le investigazioni, le forze dell’ordine che raccolgono unghie dei piedi dal tappeto e le mettono dentro a delle bustine di plastica, i processi, gli avvocati, i vicini impiccioni e i tribunali. Anzi, non potrebbe fregarmene di meno. Crepa qualcuno? Sparisce della gente? Pazienza. Me ne dispiaccio, ma non impazzisco per scoprire chi è l’assassino. O il malvagio che trama nell’ombra. Con Gone Girl non puoi infischiartene. Devi sapere. E’ un libro fatto per creare dipendenza. C’è un capitolo raccontato da Amy. E c’è un capitolo raccontato da Nick. Ci sono piani temporali diversi – con sovrapposizioni super intelligenti di dettagli ed episodi – e una strabiliante analisi di quello che ci passa per la testa. Di come scegliamo di cambiare per adattarci ai desideri degli altri e del perché pensiamo che, così come siamo, non potremmo mai trovare qualcuno che ci ami davvero. La cosa veramente interessante, a parte la costruzione chirurgica della trama, è proprio l’alternanza dei punti di vista, lo strano crepaccio che si spalanca quando due persone raccontano – in maniera radicalmente diversa – la vita che condividono. Griderete a pieni polmoni NON CI CREDO! e vi partirà via la faccia più o meno ogni venti pagine. E mai, anche quando le cose prenderanno una piega piuttosto estrema, penserete che le motivazioni dei disgraziati personaggi siano prive di fondamento. Vi metterete lì, con una tazza di Nesquik in mano, e penserete che è vero, la realtà è uno strano specchio, che spesso deforma anche il nostro riflesso. Ma soprattutto, vi accorgerete che Gillian Flynn è riuscita a intortarvi alla grandissima. E che il libro, cascasse il mondo, non potete proprio metterlo giù. E mica capita spesso.

Per chi, fra qualche settimana, vorrà continuare a farsi fantasticamente prendere per il naso, ci sarà anche il film. Di David Fincher. Uscirà il 18 dicembre e sono piuttosto certa che sarà una gran bella cosa. E che il cielo protegga le nostre vite sentimentali.