L’Uragano di Daniel e l’uomo senza piedi
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Nella mia perpetua curiosità per gli Special Books di Isbn, non potevo esimermi dal leggere anche Daniel contro l’uragano di Shane Jones, quello di Io sono febbraio. Il primo romanzo mi è piaciuto di più, ma anche la faccenda degli uragani ha il suo perché. Ci sono delle splendide invenzioni, immagini che un po’ di affascinano e un po’ ti fanno venire i brividi, mucchietti di piume in fiamme, villaggi di tubi sottomarini con dentro degli elefanti, l’uomo più bello del mondo con i denti più brutti del mondo (tragedia vera) e una buona parte di mondo reale che va a disgregarsi nella follia. Insomma, non ha senso quasi niente, ma è piacevole.
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Comunque, i baldi di Isbn hanno anche lanciato un concorso per Daniel contro l’uragano, che suonava più o meno così: Scrivi anche tu la tua storia di amore e follia… e vinci un Kindle!
Ecco. Io l’ho scritto, il mini-racconto di tredici virgola sette battute spazi inclusi e, anche se non ho vinto niente, ve lo farei anche leggere, visto che c’è. La follia ce l’ho messa. L’amore anche, mi pare. E’ la storia di come un uomo un po’ bizzarro ha finito per perdere i piedi.
Scusatemi anticipatamente.
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MOLTO BIANCO
Ritrovarono uno scheletro senza piedi in mezzo a una gigantesca desolazione, incastrato tra due massi azzurri. Stava a pancia in giù, con le braccia spalancate, come se fosse inciampato all’improvviso mentre tentava di raggiungere la cima dell’altipiano. Le gambe finivano poco più in alto delle caviglie: non sembrava che i piedi fossero scomparsi di netto, per un taglio o per un morso. Erano piedi consumati da una lenta erosione. Ossa scheggiate, piene di pietruzze, legno e terra, come se quello sconosciuto avesse deciso di continuare a camminare fino a polverizzarsi.
Quand’era piccolo, ogni paio di scarpe nuove lo faceva precipitare in una complicata agitazione. Era per il bianco perfetto e innaturale delle scarpe da ginnastica appena uscite dalla scatola. Le guardava meravigliato, aggiustava i lacci, ci metteva dentro i piedi e andava avanti e indietro sul tappeto della sua stanza, con cautela. Con un po’ di attenzione, pensava, a passi piccoli e ben misurati, poteva proteggere quel bianco per un’infinità di giorni, senza correre nell’erba asciutta e senza mai avvicinarsi a quella bagnata. Amava il colore delle scarpe nuove, quella loro consistenza liscia e regolare, ma finiva immancabilmente per detestarle: non riusciva più a guardarsi intorno, quando camminava dentro a delle scarpe nuove. Poteva trovarsi in un luogo strabiliante, ma non poteva fare a meno di passare il tempo a fissarsi i piedi, sperando – con supremo terrore – di veder comparire sulla tomaia bianchissima e luminosa un bel segno di fanghiglia, una violenta spellatura, un’imperfezione qualsiasi che l’avrebbe finalmente liberato dalla preoccupazione di sporcarle. Perché solo una volta che il bianco si era contaminato poteva ricominciare a sentirsi al sicuro, poteva muoversi, poteva accorgersi che quelle scarpe sporche, in fondo, lo stavano rendendo molto felice. Anzi, scoprì che ogni cosa bella che mai gli fosse successa era capitata proprio quando aveva le scarpe consumate, quasi da buttare.
Un uccellino caduto dal nido: suole lisce.
Il mare, visto da lontano: buco all’altezza del mignolo.
La neve, fitta e soffice: lacci strappati.
Iniziò a collezionare così tanti ricordi felici da scarpe malridotte che finì per convincersi che i due fenomeni fossero inscindibilmente legati. Sapeva che nessuna gioia si sarebbe mai posata sul suo capo se all’estremità opposta della sua persona ci fossero state delle calzature intonse. Così, iniziò a consumare le scarpe di proposito.
Non andava in bici, non prendeva l’autobus. Se doveva raggiungere un posto, vicino o lontano che fosse, ci andava a piedi, per la strada più lunga. Se era di fretta si metteva a correre. Se proprio le circostanze richiedevano di restare fermo trotterellava sul posto o picchiettava i piedi per terra. Per non sprecare passi preziosi, non toglieva le scarpe nemmeno in casa.
Tutti quei chilometri non lo portarono lontano, ma lo fecero crescere: diventò un ragazzo alto e asciutto, spettinato e irrequieto. Si accorse che se quando era piccolo la sua fissazione veniva accolta con una certa divertita benevolenza, come se si trattasse della manifestazione della fantasia di un bambino speciale, una volta cresciuto quella stranezza era diventata, per gli altri, qualcosa di sinistro. Quando gli sguardi iniziarono a farlo inciampare, si raccontò che forse, lì dov’era nato, la felicità che poteva sperare di attirare nella sua orbita era finita e che per trovarne di nuova doveva consumare le sue scarpe in un altro posto.
Allora trovò uno zaino, lo riempì di calzettoni spessi e se ne andò.
Camminò da solo, attraversando interi paesaggi. Tutto lo riempiva di stupore e di una tranquilla meraviglia. Si avvicinava alle altre persone solo quando doveva rimpiazzare le scarpe a brandelli. Quando si rimetteva in marcia non sentiva nostalgia di niente.
Poi si sorprese a incontrare sempre la stessa ragazza, cittadina dopo cittadina. Un giorno lei gli si avvicinò e lo invitò a bere una cioccolata: sedevano vicini su sgabelli colorati e lei gli prese una mano con tanta delicatezza da fargli scordare di muovere i piedi. Non si dissero quasi niente, ma quando si rimise per strada vide in lontananza che lei lo stava seguendo. Avanzava in silenzio, senza mai modificare la distanza che li separava, ma si era messa in testa un berrettino rosso.
Col passare dei giorni, lui cominciò a considerarla parte integrante della gioia che stava cercando in quel viaggio. Ma continuò ad avanzare, perché non poteva fare altrimenti.
Col passare dei giorni, lei si fece sempre più piccola e tremolante, finché non diventò un mucchietto immobile sul sentiero.
Quando lui si accorse che la ragazza si era fermata, gli sembrò di calpestare qualcosa di vivo e freddo.
Tornò indietro e si rannicchiò vicino a lei, sotto il cielo. Poi le prese il berretto e se lo mise in tasca. Si levò le scarpe e le calze, le lasciò sul ciglio della strada e riprese a camminare scalzo, verso un lontanissimo altipiano blu.
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