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Marzo 2012

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Per fare un fantasma occorrono una vita, un male, un luogo. Il luogo e il male devono segnare la vita, fino a renderla inimmaginabile senza di essi. Il luogo dev’essere circoscritto, con confini precisi; più che un luogo, una porzione chiusa di luogo: preferibilmente una casa. Di alcune caratteristiche fondamentali di questa casa si dirà più avanti. Il male dev’essere intollerabile, porti o non porti al suicidio; dove l’intollerabilità, si badi, dev’essere destinata a non scemare per scorrer di tempo ma, al contrario, a vieppiù incrudelire: e prima, e dopo il decesso.

Michele Mari
Fantasmagonia
Einaudi (Supercoralli)

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Un fantasma non succede per caso. Per fare un fantasma devono incastrarsi diciannove circostanze sciagurate, faccende che hanno a che fare con un posto – molto piccolo e spesso percorso dagli avanti e indietro di qualcuno che sia profondamente intento a rimuginare l’odio antico di un torto intollerabile – e con un “irrimarginabile squarcio” del cuore. Tra i due opposti estremi – l’essere vivo e l’essere uno spettro che infesta una casa – c’è tutta una storia di respiro, molecole che si fondono, polvere che si accumula e rancore che non si dimentica. Si chiama fantasmasi, o fantasmagonia… a Mari piacciono tutti e due i termini, ma io preferisco fantasmagonia, fa più teatro, con le botole che si spalancano in mezzo al palcoscenico. In questo libro bellissimo si aggira di tutto: c’è il mostro dei fratelli Grimm – che abita nel sotterraneo e racconta favole per loro -, ci sono dinamiche familiari distrutte dai tortelli, c’è Lord Shelley – pieno di bulloni e cuciture – e ci sono principesse impazzite a causa di rape che si rifiutano di vivere e sanguinare. C’è una creatura strana e sinistra per ogni ossessione creativa, c’è una storia per ogni angolo buio in cui ci siamo mai seduti. Perchè c’è chi si rannicchia in angolini morbidi e riparati e chi, invece, trova il suo angolino già occupato da qualcosa di vecchio e paziente, con molti occhi e molti artigli.

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Per ulteriori e avvincenti carinerie, c’è il Fantasmagonia-board che sto aggeggiando su Pinterest

 

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Non ho fatto un beatissimo niente per meritarmelo, ma ho ricevuto un regalo bello. Ma che dico, bello E istruttivo, utile e vorticosamente interessante. Perchè ci sono persone che si invasano con la collezione dei Carletto dei Sofficini e ci sono persone che sono felici da matti quando scoprono che, nell’arte, la lucertola è simbolo di resurrezione e rinascita, ma solo quando è da sola. Perchè se si dipinge una lucertola insieme ad altre bestie, tipo insetti, mosche e libellule, allora assume un’accezione negativa e maligna. E’ anche molto bello sapere che la bacca di ginepro, protetta com’è dalle sue foglie spinose, simboleggia la castità… ma è importante ricordare che i rami del ginepro riescono anche a far stramazzare di sonno un drago, così come fece Medea con il temibile mostro che custodiva il vello d’oro.
Che diamine, e ho solo aperto tre pagine a caso.
Ne giro un’altra, che sicuramente trovo qualche cosa d’inaudito.
Eccola: “Il centauro Folo era il custode del vaso misterico (l’otre di vino), simbolo di Dioniso”.
D’ora in avanti non voglio più sentir dire che una bottiglia di vino è una bottiglia di vino, perchè non è vero. La bottiglia di vino è un vaso misterico.
Bellissimo. Sono più contenta che a Natale.
Il libro dei simboli, ricevuto da Electa – che ricopro di doveroso e meritato affetto – è pieno zeppo di meraviglie, opere d’arte di ogni tempo e freccine avvincenti. Le freccine ti raccontano perchè sullo sfondo di un quadro c’è un gatto nero che scappa, perchè mai dovremmo capire che lo zibetto è da associare al senso dell’olfatto o sentirci poco stabili alla vista di un braciere. Mai bello, il braciere in primo piano: ci finisce dentro il tempo che brucia in fretta. E non capirci niente è consolante, se ci pensiamo, perchè a scuola ci hanno più o meno sempre raccontato che qualsiasi cosa ci sia sulla tela – che siano pane, pellicani, conchiglie, agnelli, pesci, gigantesche testuggini pluricefale o nacchere – ha a che vedere con Gesù… e francamente, dopo un po’, non riesci più a sorprenderti molto.
Un koala!
Cristo risorto.
Una pesca-noce!
Gesù Bambino.
Un clavicembalo!
Gesù che entra a Gerusalemme in groppa a un’asino.
Insomma, Gesù non mi ha fatto niente di male, ma c’è tutto un mondo là fuori. Ci sono complicatissime relazioni tra bestie, piante, frutta e flora, niente sta in mano a qualcuno per caso e pure i sandali dei personaggi secondari, quelli che ti sembrano messi in un angolo per riempire lo spazio, ecco, anche i sandali dell’ultima figura un po’ in ombra nascondono un’allegoria. E se non si capiscono è come mettersi a letto e farsi leggere una favola in islandese… con molta fantasia si potrebbe magari dire che ci garba il suono armonioso dell’islandese – forse ho scelto un brutto paragone -, ma mai al mondo sapremo che sta succedendo nella storia. Ed è un peccato, che le favole islandesi sono universalmente apprezzate per la loro arguzia e varietà di situazioni. Quello che volevo dire è che sto provando una felicità saltellina e curiosa, e che leggerò ben bene questo libro con tutte le sue freccine… finalmente capirò che cosa ci fa un re con la testa piena di ginestre e che problema ha la cristianità con le arance. E quando avrò imparato tutto, verrò qui a farvelo pesare.

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Matilde Battistini, Lucia Impelluso
Il libro dei simboli
Scoprire il significato delle opere d’arte
I dizionari dell’arte – Electa

Andare al lavoro a piedi mi fa contenta. Tanto per cominciare, dimezza le difficoltà principali della mattina. Prima, che abitavo in un posto più lontano e dovevo prendere il tram, le mie difficoltà mattutine erano almeno due, per citare le più gravi: trovare la volontà per alzarmi + fronteggiare l’indole volubile e incostante di un mezzo pubblico. Ti metti lì sotto la pensilina, vestita e pettinata come si può vestire e pettinare una persona che ha appena trascorso cinquanta minuti a schiacciare SNOOZE, ti metti lì e aspetti, senza sapere quel che succederà – perchè alla mia fermata di San Paolo mica c’era l’erotico display che ti dice quanto manca -, stai là e ti disponi all’attesa, senza poter decidere se arrivare o non arrivare in puntuali in ufficio. I mezzi pubblici sono un ricettacolo di calamità e, quel che è peggio, riescono a renderci persone detestabili. Una volta, ad esempio, avevo aspettato il 15 per fai venti minuti… ero salita, mi ero incastrata in fondo, tra una porta e il baracchino per obliterare, e stavo lì tranquilla, a metabolizzare quel che prevedevo sarebbe diventato un ritardo di cinque minuti, che mi andava ancora bene. Ecco perchè, quando una sconosciuta passeggera è svenuta come un cappone bollito nello snodo tra la prima e la seconda vettura, tutto quello che sono riuscita a pensare è stato “ma con tutti i tram che c’erano, la gente deve venire a morire proprio sul mio?”
Ecco, son cose brutte, che non si dovrebbero mai e poi mai nemmeno immaginare. E lo so, è comodo dare la colpa all’esasperazione prodotta dalla perenne inaffidabilità del trasporto pubblico, si inizia così e si finisce a tifare per la pena di morte e per i totalitarismi deresponsabilizzanti.
Comunque.
Quel che cercavo di dire è, come al solito, un’altra cosa. Se col mezzo pubblico le difficoltà della mattina sono A) alzarsi B) governare l’indeterminabile (lottando per la propria integrità morale), se si va a piedi l’odiato fattore B scompare per magia. Ho dovuto traslocare, per eliminare B, ma ne è valsa la pena. E non lo dico perchè mi piaccia particolarmente attraversare l’incrocio con l’aria più plumbea di Torino o perchè il camminare mi permetta di afferrare un qualche tipo di svolazzante sottotesto filosofico. La verità è che cammino volentieri verso l’ufficio perchè tutte le mattine posso incontrare il mio personaggio preferito di sempre: il portinaio marsupiale.

Il portinaio marsupiale – cinquant’anni o giù di lì, grossi baffi e corporatura di una certa imponenza – lavora in uno di quei distinti palazzi col super portone di legno e le vetrate da gente come si deve. L’androne, che poi è anche il passaggio per le macchine che devono entrare e uscire dal cortile, è tutto di pietra un po’ scavata dalle ruote di centinaia di veicoli benestanti. Il portinaio marsupiale sta lì, mezzo nell’androne e mezzo sul marciapiedi, con la scopa in mano e uno yorkshire terrier a tracolla.
Di quel cane io ho sempre visto solo la testa. Il portinaio lo tiene dentro a una borsa-secchiello e non se lo toglie mai dalla spalla. Spazza, lava, pulisce e commenta la viabilità sempre col cane a tracolla. La bestia è, ovviamente, bella solo per lui: è uno di quei barboncini unti, un po’ canuti e inespressivi, che somigliano tantissimo a dei piccoli moci-rasta. Non so che cosa ne pensi il cane, della prigonia nella tracolla, ma per il portinaio è fondamentale tenerlo lì, tra la costola e l’ascella. Gli parla continuamente, gli racconta che cosa lo fa arrabbiare e che cosa bisogna fare, lo usa da platea per rimbrottare chi gli butta le cicche davanti al portone e per commentare i culi delle tizie che passano. Il barboncino non fa una piega, ma si vede che il portinaio apprezza la sua silenziosa disponibilità all’ascolto. A modo loro, sono una coppia affiatata, una coppia da sit-com: con la pioggia e col sole, il portinaio marsupiale non è mai stato visto senza il suo cagnetto.
E questi sono i fatti, ma credo ci sia anche del mistero. Penso spesso al portinaio marsupiale e queste, all’incirca, sono le cose che ho ipotizzato:

– il cane non è un cane intero, è un cane che ha solo la testa. Il portinaio lo tiene nella borsina perchè è l’unico modo per trasportare in giro una testa di cane e farle conoscere il mondo.
– se il cane è tutto intero (anche se non credo), dove trova sollievo nelle sue funzioni corporali? Che la tracolla contenga un avanzatissimo sistema di smaltimento delle scorie, qualcosa che solo gli astronauti utilizzano correntemente? Che, dunque, il portinaio sia stato astronauta, riuscendo così a carpire tale mirabile tecnologia per convertirla ai suoi fini?
– se il cane è tutto intero (anche se non credo), sarebbe capace di camminare da solo, vista la perenne reclusione nella borsa con conseguente atrofizzazione dei quattro piccoli arti?
– è il cane (intero o non intero) a controllare il portinaio marsupiale, come uno di quei parassiti che manipolano la mente dell’ospite? Quest’ipotesi spiegherebbe la simbiosi (il controllo del parassita sull’ospite non stai in piedi, se le due entità non collimano) e il sovradimensionamento del cranio del barboncino rispetto al resto del suo – presunto – corpicino peloso (il controllo della mente è, di sicuro, reso possibile da una scatola cranica capiente, in grado di contenere un cervello più grande del normale).
– in subordine a tutte le altre – ben più plausibili – spiegazioni, potremmo osservare che quella tra portinaio e unticcio yorkshire terrier sia una sincera amicizia, una di quelle relazioni solide e consolanti che sbocciano solo dall’incontro tra anime affini e sensibili. Magari il portinaio ha perso ogni fiducia nella razza umana e trova conforto solo nella presenza fedele e disinteressata del cane. Magari il cane era un poco di buono e il portinaio l’ha salvato dalla strada, meritandosi l’eterna gratitudine della bestiola che è riuscito a redimere.

Non so bene che pensare, ma confido di proseguire alacremente nell’indagine… tanto vado sempre al lavoro a piedi. E lì davanti al portinaio marsupiale ci passo per forza.